68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011 - Pagina 3

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68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011
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altLa sezione competitiva della Mostra ha presentato altri tre titoli, uno dei quali si è inserito nell’elenco delle opere per vedere le quali valeva la pena venire al Lido. Roman Polanski ha tratto Carnage (Carneficina) dal testo teatrale Le dieu du Carenage (Il dio della carneficina, 2006) della scrittrice, attrice e drammaturga francese Yasmina Reza (1959). Due coppie s’incontrano per discutere e sistemare una lite avvenuta fra i rispettivi figli, uno dei quali ha rotto un paio di denti al rampollo dell’altra famiglia colpendolo nei denti con un ramo. Sono i genitori dell’aggredito a invitare gli altri due e tutto sembra procedere per il meglio fra sorrisi, buone maniere e civismo, ma presto le cose iniziano a degenerare. Basta una parola di troppo, un gesto malinteso e scoppia una vera e propria carneficina con le donne che si alleano per accusare i mariti di maschilismo e insensibilità e questi che solidarizzano fra loro all’insegna delle bevute e del cinismo. E’ un percorso dalla civiltà alla ferocia della giungla che passa per la cancellazione di ogni parvenza di civismo in nome della convenienza personale. Come si capirà da queste poche righe è il classico testo ricco di letture di secondo grado che solo una pattuglia di attori straordinari è in grado di caricare di tutta la complessità che richiede. Buona parte del merito della riuscita del film va al cast composto di Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly che portano sullo schermo il patrimonio professionale acquisito in anni di lavoro nel cinema e in teatro. E’ un’opera rapida, compatta (79 minuti), ma così ricca di senso che si stenta a racchiuderla in un giudizio definitivo. Per ora basti dire che è questo il cinema che amiamo e che ci fa entrare in sala ogni volta con la speranza di cogliere qualche cosa di veramente nuovo.
altPoche novità, invece, in W.E. che la cantante Louise Veronica Ciccone (1958), in arte Madonna, ha dedicato a una delle più famose coppie della storia monarchica inglese: Edoardo VIII (1894 –1972) e Wallis Simpson (1895 – 1986). Il primo regnò sino al dicembre 1936, quando dovette scegliere fra il trono e la donna che amava. Abdicò e fu costretto a vivere esule per molti anni, tanto che gli fu persino negato l’arruolamento nell’esercito combattente inglese nel corso della seconda guerra mondiale. La regista fa rivivere questa vicenda attraverso gli occhi di una ragazza di oggi, affascinata dalla storia della coppia, che attraversa una vicenda simile fra un marito psichiatra violento e un giovane emigrato russo che ha trovato lavoro come addetto alla sorveglianza nella casa d’aste Sotheby's. Il film è sontuoso nelle scenografie e fluviale nella lunghezza, poco meno di due ore che sembrano il doppio, ma è apprezzabile più per la patina delle scenografie che non per il tipo di lettura proposto dall’autrice. In poche parole è un bel centone luccicante di cui dimenticarsi in fretta.
altDifficile da apprezzare anche The Warriors of the Rainbow: Seeding Bale (I guerrieri dell’arcobaleno: Seeding Bale) che il formosano Wei Te-Sheng ha dedicato alle lette degli aborigeni taiwanesi contro i colonialisti giapponesi. L’azione inizia quando l’isola è abitata da tribù autoctone ferocemente in guerra le une con le altre, ma con la cessione ai giapponesi da parte dei cinesi, con il trattato di Shimonoseki (1895), il territorio diventa colonia all’Impero del Sol Levante i cui inviati si comportano da veri schiavisti. Se all’inizio vi fu un qualche tentativo di ribellione, tutto cessò nel 1916 con la repressione dell’ultima rivolta. Si dovranno attendere molti anni sino a che, nel 1930, un capotribù, Mouna Rudo, riesca a costruire un fronte unito fra le varie tribù e scatenare una vera guerra partigiana contro gli occupanti. L’esito finale segnerà la vittoria dei colonialisti, i quali, tuttavia saranno costretti a lasciare sul terreno non pochi militari. Il film ha un andamento tipico da opera celebrativa ricca di mezzi e girata in scenari oltremodo spettacolari, ma aggiunge ben poco – forse solo la lunga sequenza del suicidio in massa delle donne che si uccidono per non privare i combattenti delle risorse alimentari di cui hanno bisogno – al catalogo delle storie belliche che già conosciamo.
altLa Settima Internazionale della Critica ha presentato El campo (Il campo) l’esordiente argentino Hernán Belón (1970). Santiago ed Elisa hanno comprato una casa malandata di campagna. La loro intenzione è fuggire dal caos cittadino e andare a vivere nella pace dei campi con la figlioletta di pochi anni. Tuttavia, sin dal primo contatto con la dimora rurale, la donna è colpita da inquietudini e paure. Nel nuovo luogo, ove non funzionano i telefonini e sono rare le occasioni di rapporto con altri, tutto le appare minaccioso e ostile. Le cose peggioreranno progressivamente sino a indurla a costringere il marito a rescindere il contratto d’acquisto e ritornare in città. Racconto così sembra un piccolo episodio di vita familiare, in vero è un’intelligente metafora dei sogni che naufragano e dei miti che rivelano la triste realtà che li innerva. Al centro del discorso c’è la falsa immagine della natura come paradiso benevolo, la vita in campagna come bucolico scenario contrapposto al vortice cittadino. Immagini mitizzate che mostrano la loro inconsistenza e svelano la brutale realtà che le percorre. In questo il film offre un robusto invito a guardare e accettare il mondo per quello che è e non per ciò che vorremmo fosse. Non a caso un’anziana, saggia contadina invita l’inquieta protagonista a vivere la vita così come si presenta, senza immaginarla diversa o inseguire progetti costruiti sulle nuvole. In questo il film va oltre il racconto delle difficoltà di un rapporto interpersonale per assumere una dimensione ben più ampia.