68ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia 2011

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68ma Mostra Internazionale d'arte cinematografica di Venezia 2011 - Giorno per giorno.

 

31 agosto - 10 settembre 2011

Martedì 30 agosto 2011 - Prologo

altValutare i film proposta dal cartellone di una rassegna senza averli visti è cosa inutile e presuntuosa. La sola cosa che si possa dire, in tutta onestà se, tenuto conto dei nomi degli autori, sia prevedibile una rassegna di buon livello. Nel caso della 68ma Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia la risposta è sicuramente positiva. Scorrendo il cartellone s'incontrano autori di prestigio come David Cronenberg (A Dangerous Method – Un metodo pericoloso), William Friedkin (KillerJoe – Joe l’assassino), Roman Polanski (Carnage – Carneficina), Alexander Sokurov (Faust), Jonnie To (Duo Mingjn – Una vita senza principi).

Accanto a questi ci sono altri clienti abituali della manifestazione le cui opere hanno lasciato un ricordo molto positivo, solo per fare qualche nome citiamo George Clooney (The Ides of March – Le idi di marzo), Abel Ferrara (4:44 Last Day On Earth - 4 e 44 l’ultimo giorno sulla terra), Philippe Garrel (Un été brulant – Un’estate ardente), Ann Hui (Taojie – Un vita semplice), Steve McQueen (Shame – Vergogna), Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud (Poulet aux prunes – Pollo alle prugne) e Todd Solondz (Dark Horse – Cavallo nero, ma il senso è quello legato alla locuzione italiana Pecora Nera). Valida anche la pattuglia italiana composta di Gian Alfonso - Gipi - Pacinotti (L'ultimo terrestre), Cristina Comencini (Quando la notte) ed Emanuele Crialese (Terraferma). Il calcio d’inizio l’ha dato, fuori concorso, Todd Haynes autore di Mildred Pierce episodi 1 – 5 un telefilm che, citiamo dalla sinossi ufficiale, riporta in vita il memorabile personaggio del classico romanzo di James M. Cain. Il telefilm in cinque puntate propone il ritratto intimo di una donna insolitamente indipendente che si trova a vivere, appena divorziata, negli anni della Grande Depressione e si sforza di rifarsi una vita per sé e per la sua famiglia.


 

altE‘ partita davvero bene questa sessantottesima Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia. E’ davvero bello Le idi di marzo (The Ides of March) che l’attore e regista George Clooney ha tratto dal lavoro teatrale Farragut North (Farragut Nord), scritto nel 2008 dal drammaturgo Beau Willimon che si è ispirato alla campagna per le primarie del Partito Democratico, più precisamente alla corsa, nel 2004, di Howard Dean. Al centro del testo ci sono i vari membri dello staff di un giovane governatore che vuole candidarsi alla presidenza contro un altro collega di partito. Il suo vantaggio è minimo e saranno le primarie aperte dell’Ohio a decidere il vincitore. Lentamente, ma inesorabilmente, seguiamo la caduta verso il compromesso del futuro, possibile presidente che, per guadagnare consensi, strige alleanze con politici che disprezza, lima le sue posizioni meno gradite all’elettorato, passa da un ammorbidimento a uno ancor maggiore, sino a subire il ricatto di un membro del suo stesso staff che, saputo di una tresca del possibile candidato con una giovane stagista finita suicida, si vendica imponendo la sua promozione a direttore della campagna elettorale. E’ uno spaccato tragico del mondo politico americano ed è importante che un sincero progressista come George Clooney abbia scelto questo ritratto fosco e purulento per gettare l’allarme sullo scontro fra ideali e realtà, sogni di rinnovamento e dure condizioni della lotta politica. Il regista e attore, in questo caso anche coproduttore, si è circondato da un gruppo d’interpreti fra i migliori di cui disponga oggi il cinema americano, da Philip Seymour Hoffaman a Rayan Gosling, da Paul Giammatti a Marisa Tomei. E’ un’opera dal soldo stampo classico che ci conferma, ancora una volta, la grandezza di una cinematografia capace di fare spettacolo attingendo dalla realtà e dalla cronaca.
altFuori concorso si è visto ¡Vivan las Antipodas! (Viva gli antipodi) del documentarista russo Victor Kossakovsky, un film curioso la cui apertura contiene una frase di Alice nel paese delle meraviglie (Alice's Adventures in Wonderland - 1865) di Lewis Carrolol (1832 – 1898): mi domando se potrei attraverso tutta la terra. E’ divertente immaginare di uscire dall’altra parte e vedere tutta la gente camminare a testa in giù. E’ un’ipotesi che il regista realizza mettendo a confronto otto situazioni poste agli antipodi l’una dell’altra. Usando un fotografia sin troppo ricercata e ricorrendo a immagini capovolte e sbilenche non sempre funzionali, l’autore contrappone Spagna e Nuova Zelanda, Cina e Argentina, Hawaii e Botswana, Russia e Cile. E’ un mosaico ricco che dimostra la complessità e varietà delle forme di vita, sia umane che animali. Gli nuoce un eccesso di compiacimento figurativo, aggravato dalla mancanza di specifiche sociali. Difetti che finiscono col relegare l’opera al livello di un puro esercizio di stile, raffinato, ma incompleto.
altLa Settima Internazionale della Critica ha aperto la 26ma edizione presentando, fuori concorso, Stockholm östra (Stoccolma Est) opera prima dello svedese Simon Kaijser da Silva (1969). Questo cineasta ha alle spalle una consistente carriera di regista televisivo che gli ha fornito basi professionali solide da metter a frutto in questo lungometraggio. Johan, mentre sta andando al lavoro, investe la figlia di nove anni di Anna, che abita nello stesso quartiere in cui vive anche lui. La giustizia lo assolve da ogni responsabilità, ma la sua coscienza lo tormenta anche perché ha visto fugacemente la madre della bimba e se ne è innamorato. La storia dell’assassino che intreccia una relazione con la vittima o con i parenti della stessa non è nuova e l’avvio del film naviga all’insegna della prevedibilità. Ciò che lo rende interessante, più che la prestazione scialba degli interpreti, è la capacità narrativa del regista che, malgrado qualche lungaggine, sa raccontare una storia dagli snodi largamente prevedibili con lucidità e abilità.


altLa sezione competitiva della Mostra ha presentato altri tre titoli, uno dei quali si è inserito nell’elenco delle opere per vedere le quali valeva la pena venire al Lido. Roman Polanski ha tratto Carnage (Carneficina) dal testo teatrale Le dieu du Carenage (Il dio della carneficina, 2006) della scrittrice, attrice e drammaturga francese Yasmina Reza (1959). Due coppie s’incontrano per discutere e sistemare una lite avvenuta fra i rispettivi figli, uno dei quali ha rotto un paio di denti al rampollo dell’altra famiglia colpendolo nei denti con un ramo. Sono i genitori dell’aggredito a invitare gli altri due e tutto sembra procedere per il meglio fra sorrisi, buone maniere e civismo, ma presto le cose iniziano a degenerare. Basta una parola di troppo, un gesto malinteso e scoppia una vera e propria carneficina con le donne che si alleano per accusare i mariti di maschilismo e insensibilità e questi che solidarizzano fra loro all’insegna delle bevute e del cinismo. E’ un percorso dalla civiltà alla ferocia della giungla che passa per la cancellazione di ogni parvenza di civismo in nome della convenienza personale. Come si capirà da queste poche righe è il classico testo ricco di letture di secondo grado che solo una pattuglia di attori straordinari è in grado di caricare di tutta la complessità che richiede. Buona parte del merito della riuscita del film va al cast composto di Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly che portano sullo schermo il patrimonio professionale acquisito in anni di lavoro nel cinema e in teatro. E’ un’opera rapida, compatta (79 minuti), ma così ricca di senso che si stenta a racchiuderla in un giudizio definitivo. Per ora basti dire che è questo il cinema che amiamo e che ci fa entrare in sala ogni volta con la speranza di cogliere qualche cosa di veramente nuovo.
altPoche novità, invece, in W.E. che la cantante Louise Veronica Ciccone (1958), in arte Madonna, ha dedicato a una delle più famose coppie della storia monarchica inglese: Edoardo VIII (1894 –1972) e Wallis Simpson (1895 – 1986). Il primo regnò sino al dicembre 1936, quando dovette scegliere fra il trono e la donna che amava. Abdicò e fu costretto a vivere esule per molti anni, tanto che gli fu persino negato l’arruolamento nell’esercito combattente inglese nel corso della seconda guerra mondiale. La regista fa rivivere questa vicenda attraverso gli occhi di una ragazza di oggi, affascinata dalla storia della coppia, che attraversa una vicenda simile fra un marito psichiatra violento e un giovane emigrato russo che ha trovato lavoro come addetto alla sorveglianza nella casa d’aste Sotheby's. Il film è sontuoso nelle scenografie e fluviale nella lunghezza, poco meno di due ore che sembrano il doppio, ma è apprezzabile più per la patina delle scenografie che non per il tipo di lettura proposto dall’autrice. In poche parole è un bel centone luccicante di cui dimenticarsi in fretta.
altDifficile da apprezzare anche The Warriors of the Rainbow: Seeding Bale (I guerrieri dell’arcobaleno: Seeding Bale) che il formosano Wei Te-Sheng ha dedicato alle lette degli aborigeni taiwanesi contro i colonialisti giapponesi. L’azione inizia quando l’isola è abitata da tribù autoctone ferocemente in guerra le une con le altre, ma con la cessione ai giapponesi da parte dei cinesi, con il trattato di Shimonoseki (1895), il territorio diventa colonia all’Impero del Sol Levante i cui inviati si comportano da veri schiavisti. Se all’inizio vi fu un qualche tentativo di ribellione, tutto cessò nel 1916 con la repressione dell’ultima rivolta. Si dovranno attendere molti anni sino a che, nel 1930, un capotribù, Mouna Rudo, riesca a costruire un fronte unito fra le varie tribù e scatenare una vera guerra partigiana contro gli occupanti. L’esito finale segnerà la vittoria dei colonialisti, i quali, tuttavia saranno costretti a lasciare sul terreno non pochi militari. Il film ha un andamento tipico da opera celebrativa ricca di mezzi e girata in scenari oltremodo spettacolari, ma aggiunge ben poco – forse solo la lunga sequenza del suicidio in massa delle donne che si uccidono per non privare i combattenti delle risorse alimentari di cui hanno bisogno – al catalogo delle storie belliche che già conosciamo.
altLa Settima Internazionale della Critica ha presentato El campo (Il campo) l’esordiente argentino Hernán Belón (1970). Santiago ed Elisa hanno comprato una casa malandata di campagna. La loro intenzione è fuggire dal caos cittadino e andare a vivere nella pace dei campi con la figlioletta di pochi anni. Tuttavia, sin dal primo contatto con la dimora rurale, la donna è colpita da inquietudini e paure. Nel nuovo luogo, ove non funzionano i telefonini e sono rare le occasioni di rapporto con altri, tutto le appare minaccioso e ostile. Le cose peggioreranno progressivamente sino a indurla a costringere il marito a rescindere il contratto d’acquisto e ritornare in città. Racconto così sembra un piccolo episodio di vita familiare, in vero è un’intelligente metafora dei sogni che naufragano e dei miti che rivelano la triste realtà che li innerva. Al centro del discorso c’è la falsa immagine della natura come paradiso benevolo, la vita in campagna come bucolico scenario contrapposto al vortice cittadino. Immagini mitizzate che mostrano la loro inconsistenza e svelano la brutale realtà che le percorre. In questo il film offre un robusto invito a guardare e accettare il mondo per quello che è e non per ciò che vorremmo fosse. Non a caso un’anziana, saggia contadina invita l’inquieta protagonista a vivere la vita così come si presenta, senza immaginarla diversa o inseguire progetti costruiti sulle nuvole. In questo il film va oltre il racconto delle difficoltà di un rapporto interpersonale per assumere una dimensione ben più ampia.


altCon Un été brûlant (Un’estate ardente) del francese Philippe Garrel la Mostra ha preso il primo inciampo. E’ la storia di sue coppie, una formata da giovani artisti – lei è una diva stimata in Italia e Francia, lui un promettente pittore - l’altra è composta di un ragazzo e una giovane, entrambi squattrinati e senza un lavoro sicuro, che si rompono, nel primo caso, o marciano verso la stabilità, nel secondo. Appoggiato su una sceneggiatura pasticciata e piana di buchi - testimoniati dai frequenti ricorsi alla voce fuori campo: vecchio, classico espediente per far quadrare le storie sconclusionate – il film crolla sotto il peso d’interpretazioni penose. Se Monica Bellucci conferma scarsissime doti recitative, aggravate da un degrado fisico che rende imbarazzante il suo nudo integrale in apertura del racconto, Louis Garrel, figlio del regista, mostra ancora una volta di non saper andare oltre poche mossettine e qualche sguardo che si vorrebbe tenebroso e che, invece, è solo ridicolo. Come dire un brutto, bruttissimo pasticcio.
altA Dangerous Method (Un metodo pericoloso) diretto dal canadese David Cronenberg nasce da una sceneggiatura che Christopher Hampton (1946) ha tratto dal suo testo teatrale The Talking Cure (La cura della conversazione, 2002). Un copione che, a sua volta, si è ispirato al libro A Most Dangerous Method (Un metodo molto pericoloso, 1994) di John Kerr (1943). Al cento della storia ci sono i complessi rapporti fra l’ebreo austriaco Sigmund Freud (1856 – 1939), lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung (1875 – 1961) e la russa Sabina Spielrein (1885 – 1942). Quest’ultima, figlia di un ricco commerciante ebreo, era stata curata da Jung che l’aveva guarita da una grave forma di disturbo mentale, ne era diventata l’amante per poi affermarsi come psichiatra e schierarsi dalla parte di Freud nella disputa che lo contrappose al suo ex allievo elvetico. Lo scenario è quello dei primi anni del ‘900, passando per le avvisaglie della grande carneficina legata alla Prima Guerra Mondiale e arrivando al pieno della Seconda guerra Mondiale che travolse sia il fondatore della moderna psicoanalisi, costretto a rifugiarsi a Londra per sfuggire alle persecuzioni antisemite, sia la donna fucilata dai nazisti, assieme alle due figlie, nei giorni dell’occupazione dell’Unione Sovietica da parte della Wermacht. Il conflitto fra i due grandi studiosi della mente umana fu alimentato da molte discordanze che il film riassume nella certezza dell’austriaco sulla riconducibilità alla sfera sessuale di ogni comportamento umano e la disponibilità dello svizzero a guardare oltre il personale per coinvolgere anche altri fattori, prima di tutto quelli legati all’ambiente sociale. E’ una riduzione sicuramente eccessiva, ma che la regia riesce a tradurre in conflitto avvincente e in immagini precise e laccate quanto basta. Anche in questo caso, costatiamo il forte contributo che viene alla riuscita dell’opera dalla preesistente base teatrale e la capacità del regista di realizzare il film senza troppo immergerlo in un clima da palcoscenico. Certo, anche qui i dialoghi sono importanti e, in qualche caso, sovrabbondanti, ma – come nel caso di The Ides o March di George Clooney e Carnage di Roman Polanski, anche questi derivati da copioni destinati al palcoscenico – ciò che conta è che il passaggio dalla scena al grande schermo avviene preservando le esigenze cinematografiche. Nel caso in questione il cineasta imbocca la via del film classico e lo fa licenziando un prodotto non eccezionale, ma di grande interesse.
Fuori concorso è stato presentato Baishe chuanshuo (Lo stregone e il serpente bianco) dell’hongkonghese Tony Ching-Tung, un classico prodotto cinese ricco di scenografie sontuose figure magiche, animali parlanti, streghe, demoni e umani coraggiosi. Il tutto inserito in una confezione lussuosa, ma non molto appetitosa per lo spettatore occidentale che di quella cultura ha poche e vaghe nozioni.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha presentato Marécages (Acquitrini), opera d’esordio del trentenne canadese Guy Édoin (1981). Marie e Simon sono due allevatori che vivono una vita grama in un periodo di siccità. La loro condizione è aggravata dal ricordo della perdita di un figlio decenne, annegato due anni prima in un acquitrino poco distante da casa senza che l’altro figlio, Jean, riuscisse a salvarlo. Nonostante queste difficoltà continuano ad amarsi appassionatamente, la moglie è nuovamente incinta, mentre il rampollo maggiore sta scoprendo il sesso. Un incidente causa la morte dell’allevatore e lascia sola la donna a fronteggiare una montagna di problemi economici ed esistenziali. Fra questi il conflitto che si apre nella sua sessualità con l’arrivo sulla scena, poche settimane dopo la scomparsa del marito, di un uomo aitante che la corteggia. La cosa innesca una serie di conflitti con il figlio, le vicine (lesbiche?) e, più in generale, con l’ambiente in cui vive. Sino alla chiusura, in realtà la prima sequenza del film, con la protagonista che cammina nuda nella boscaglia, quasi una riconciliazione con l’elementarità del mondo rurale. E’ un film che oscilla fra il quadro, quasi documentario, della vita degli allevatori – il regista viene da una famiglia contadina - e la tragedia psicologica segnata da forti venature sessuali. I suoi personaggi ruotano attorno al sesso – magnifica e importante la sequenza della nascita del vitello morto – inteso come ragione e pulsione basilare di vita in un mondo totalmente immerso e altrettanto dipendente dalla natura. Un’opera che, anche grazie a un paesaggio straordinariamente fotografato, convince per la forza dell’interpretazione e per la semplicità della narrazione.


altSecondo brutto scivolone della Mostra con la presentazione di Alpes (Alpi), opera terza del greco Yorgos Lanthinos, già autore del discusso Kynodontas (Dente canino) pluripremiato da molti festival, ma anche oggetto di critiche feroci. Il tema di questa nuova opera è ancora una volta l’isolamento e il rifiuto di fare i conti con la realtà. Nel caso specifico sono quattro personaggi - una giovane ginnasta, il suo allenatore, un’infermiera e un organizzatore sportivo – che si mettono assieme in un’associazione denominata Alpi che ha lo scopo di guidare l’elaborazione del lutto da parte dei parenti dei defunti. Per denaro accettano di presentarsi nelle famiglie dei trapassati per prolungare fittiziamente la presenza dei morti. E’ una mascheratura della realtà che tende a costruire un falso prolungamento della vita e, nei protagonisti, un altrettanto falso aggiustamento di affetti. Ovvio che le messe in scena avranno effetti disastrosi sia sui dolenti, sia sui protagonisti. A pagare il prezzo più elevato sarà l’infermiera che, colpevole di esseri messa in proprio, sarà picchiata a sangue dal capo della strana impresa. Il film ha passaggi e sviluppi ancor più oscuri di quelli che segnavano lo svolgimento dell’opera precedente. Un accumulo di ambiguità irrisolte che non aggiunge, bensì sottrae fascino all’opera.
altMolto meglio il pastiche stilistico messo assieme da Marjane Saprapi e Vincent Paronnaud con Polet aux Prunes (Pollo alle prugne). E’ una coppia che viene dal racconto a fumetti e che aveva già fornito ottima prova con Persepolis (2007). Marjane Satrapi, in particolare, ha una biografia molto interessante. Nata in Iran nel 1969 è espatriata prima in Austria, poi a Parigi ove vive. La sua è una delle voci più ostili e critiche nei confronti del regime clericale che regge il paese, regime di cui le sue storie hanno dato un’immagine particolarmente fosca. Questo nuovo film è ambientato a Teheran nel 1958, quando è ancora vivo il ricordo del tentativo, fallito, di Mohammad Mosadeq (1882 – 1967) di restituire allo stato il controllo delle risorse petrolifere, sino a quel momento appaltate a grandi società britanniche. Il film racconta una storia d’amore che è anche la metafora del difficile rapporto fra arte e situazioni politiche. Nasser (nome non scelto a caso) Ali Khan è un famoso violinista che ha tenuto concerti in tutto il mondo. La sua vita è segnata dal dolore per il rifiuto del padre dell’amata di dargliela in moglie, preferendo maritarla con un militare anche a costo di renderla infelice. Ora il musicista è sposato con una donna che non ama e che, in un eccesso di rabbia, gli fracassa l’amato strumento. Privato del violino non riesce a trovarne un altro degno della sua arte e decide di lasciarsi morire. La cosa avviene dopo otto giorni in cui rivediamo i più importanti momenti della sua vita, assistiamo al racconto di storie fantastiche, partecipiamo ai momenti più espressivi del suo rapporto con la madre. I registi mescolano i più svariati strumenti espressivi, dal disegno animato, al computer grafica, dal surreale all’iperrealistico. E’ un’opera complessa che nasconde sotto un’apparente patina di semplicità, un discorso articolato, commuovente, politicamente maturo.
altFuori concorso si è visto Contagion (Contagio) di Steven Soderberg in cui il regista americano conferma la solida fama di narratore consacrata con la serie dei film della serie Ocean's: eleven (2001), twelve (2005) e thirteen (2007). In questo caso il racconto muove dall’esplosione, a Hong Kong, di una terribile epidemia che, in breve contagia il mondo intero causando milioni di morti. La regia disegna questo scenario con grande abilità, trasforma in elementi di un thriller magistrale le pratiche e i protocolli adottati dagli enti posti a tutela della salute pubblica, negli Stati Uniti come nel mondo. E’ un’opera appassionante, girata e montata in modo magistrale che sa trasformare un possibile incubo in realtà. Il film prende duramente posizione contro la faciloneria con cui, usando internet, individui spregiudicati si arricchiscono terrorizzando una vasta platea credulona e facile al panico. La cosa ah dato fastidio ad alcuni che hanno protestato quasi che lo svelamento della faccia nascosta del sistema mondiale di comunicazione fosse un attacco alla rete stessa. Non hanno capito che quella che interessa al regista è la denuncia della facilità con cui internet può essere piegata agli interessi di personaggi oscuri. Anche questo fa parte dei pericoli con cui qualsiasi essere pensante deve misurarsi ogni giorno.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha presentato La Terre Outragée (La terra oltraggiata) opera prima della francese Michale Boganim. Il 26 aprile 1986, in piena notte, una terribile esplosione scoperchiò il quarto reattore della centrale nucleare Vladimir Il'ič Lenin, situata tre chilometri dalla cittadina modello di Pripjat', un centro abitato da cinquantamila persone, e a diciotto da quella di Černobyl', in Ucraina, in pratica sul confine con la Bielorussia. Era capitato che l’imperizia e la superficialità dei tecnici addetti al complesso li avessero portati a violare le norme di sicurezza e a tentare un esperimento dall’esito disastroso. Si era nel pieno del ponte del 1° maggio e l’allarme fu dato in ritardo e con gravissima sottovalutazione. Questo causò una risposta lenta dell’intero sistema statale, gli abitanti - 336.000 persone - furono evacuati solo quattro giorni dopo, in pieno caos organizzativo, con conseguente esposizione alle radiazioni di un vasto territorio e di migliaia di persone. Il film ha per sfondo questa situazione, colta nelle ore della tragedia e nelle conseguenze che ne sono derivate dieci anni dopo. Lo fa con le vicende di una giovane che si sta sposando proprio in quelle ore e perderà il marito, un vigile del fuoco accorso fra i primi sul luogo del disastro, e di un ingegnere che scomparirà nel caos dopo aver tentato, con poveri mezzi, di riparare quante più persone possibili dalla terribile pioggia radioattiva che si abbatté sul territorio. A distanza di un decennio la vedova e il figlio del tecnico ritornano nella città morta, far edifici sventati e monumenti mutilati. Lei è diventata una sorta di guida turistica per visitatori professionali, lui non accetta l’idea della morte del padre. La donna potrebbe rifarsi una vita emigrando in Francia con un nuovo compagno, ma non riesce, per quanto ammalata senza speranze, ad abbandonare i luoghi dove è stata felice. Lui cerca di recuperare una memoria e un filo esistenziale brutalmente spezzato. Il film ha un taglio drammatico e quasi documentario, con immagini che straziano proprio perché rimandano a una normalità spezzata dalla follia degli uomini. E’ un testo maturo retto da una narrazione professionalmente alta e segnata da un forte impegno morale e umano.


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Il primo film italiano in concorso s’intitola Terraferma e porta la firma di Emanuele Crialese, che ha già presentato alla Mostra, nel 2006, Novomondo che ottenne il Leone d’Argento Rivelazione. Prima questo cineasta aveva vinto, nel 2002, la Semaine de la Critique a Cannes con Respiro. E', dunque, un regista blasonato e un autore particolarmente interessato alla sua terra d’origine, la Sicilia, e ai problemi sociali del più recente passato e dei giorni nostri. Questi ultimi sono al centro dell’opera odierna che ha come scenario l’isola di Linosa. Al centro della storia ci sono alcuni conflitti di grande spessore politico. Il primo divide gli isolani che vogliono continuare con le tradizionali attività di pesca da chi vede nel turismo una nuova forma di ricchezza che consente, con poco lavoro, di portare a casa incassi ingenti. C’è poi il nodo dell’emigrazione proveniente dalla sponda africana, anche in questo caso ci si divide fra chi vuole rispettare la vecchia legge del mare che impone di dare aiuto a tutti quelli che sono in difficoltà in acqua e quanti, temendo i rigori della legge Bossi – Fini, vogliono lavarsene le mani, anche se questo significa la morte di non pochi esseri umani. Sono temi che lacerano la famiglia Pucillo: un patriarca di settant’anni che non vuole rinunciare alla pesca, un figlio inventatosi imprenditore turistico, una nuora, giovane vedova dell’altro figlio del patriarca scomparso in mare anni prima e il giovane nipote Filippo, incerto e frastornato fra le divisioni che separano i membri della famiglia. Le cose precipitano quando il vecchio Ernesto decide di prendere a bordo alcuni migranti gettatisi in mare da un canotto stracarico. Li porta a terra, alcuni fuggono, ma gli rimangono fra le braccia un ragazzino e la madre in stato di avanzata gravidanza. Li accompagna in casa della nuora, dove la donna partorisce una bimba. Il suo gesto gli causa il sequestro della barca da parte di un cinico ufficiale della Guarda di Finanza e questo priva la famiglia di quel poco reddito di cui disponeva. All’inizio i rapporti fra l’africana e l’isolana sono tutt’altro che idilliaci, la prima teme qualsiasi contatto con le forze dell’ordine – la bimba che ha partorito è frutto di ripetuti stupri subiti dalle guardie libiche – la seconda ha paura che l’intrusione dei clandestini cancelli, le minime opportunità che le restano di andare a lavorare in Sicilia. Attorno una stagione turistica in pieno sviluppo, che porta nell’isola giovani continentali, del tutto incapaci di cogliere la complessità e la gravità dei problemi con cui devono misurarsi gli isolani. La storia sarà risolta da un colpo di scena che ha al centro Filippo. Sarà lui a tagliare il nodo Gordiano, a riprendersi la barca rompendo i sigilli giudiziari, imbarcare migrante e figli per portarli in Sicilia, consentendo loro di raggiungere Torino, ove li attende il marito e padre. L’ultima immagine ha un senso volutamente ambiguo: il natante è ripreso da molto in alto e non riusciamo a capire de il viaggio si avvia a buon fine o se la barca sta naufragando su una secca coinvolgendo navigatore e passeggeri, nel medesimo destino che era toccato ai migranti all’inizio del film. E’ un’opera forte, lineare nello sviluppo, che non tace alcun elemento della complessità dei temi che affronta. E' un film importante, girato magistralmente e rafforzato da una fotografia davvero straordinaria.

altMolto valido anche il secondo film in concorso visto in queste ore: Shame (Vergogna), opera seconda del videoartista inglese Steve McQueen. Di quest’autore abbiamo molto apprezzato Hunger (Fame, 2008) dedicato al martirio del militante irlandese Bobby Sands, morto in prigione in seguito a uno sciopero della fame organizzato per protestare contro la brutalità delle guardie carcerarie della prigione di Belfast verso i detenuti appartenenti all’IRA. Questa volta il panorama è quello della New York dei nostri giorni. Qui vive Brandon, giovane manager di successo, preda di profonde turbe sessuali legate sia all’educazione infantile, sia a un rapporto, quasi apertamente incestuoso, con la sorella. Il manager riempie nascostamente il suo computer e quello dell’ufficio di materiale pornografico, acquista una grande quantità di riviste osé, si masturba compulsivamente, frequenta prostitute, ma non è in grado di condurre a termine un rapporto sessuale con donne normali. Tenta anche la strada delle partiche omosessuali e quella dell’aggressione erotica verbale a una giovane incrociata in un bar, ma i suoi problemi rimangono irrisolti e tali saranno ancora alla fine del film, nonostante il trauma causato da un tentativo di suicidio della sorella. E’ un’opera che affronta una matassa psicologica particolarmente complessa, ma tutt’altro che inusuale (i siti porno sono fra i più visitati su internet) e lo fa senza schierarsi, ma guardando ai personaggi come a esemplari sottoposti all’esame di un microscopio. Non sono poche le note positive e non mancano le notazioni acute, la sola cosa che lascia perplessi è il vuoto sociale che circonda il personaggio, un vuoto non colmato dalla figura, quasi comica, del responsabile dell’ufficio, un tipo perennemente assatanato, o dalle fugaci apparizioni di prostitute d’alto bordo.
altWilde Salomè, visto fuori concorso, si affianca a quel Riccardo III - un uomo, un re (Looking for Richard, 1996) con cui Al Pacino documenta la sua passione e il processo creativo che sta dietro la lettura di un famoso testo teatrale: ieri William Shakespeare (1564 – 1616), oggi Oscar Wilde (1854 – 1900). Il testo in questione è Salomè (1893), scritto in francese e andato in scena a Parigi. E’ il copione che lo scrittore irlandese licenzia poco prima della condanna definitiva a due anni di prigione per omosessualità. Il regista e attore interpreta questo testo come il martirio di un uomo libero (Giovanni Battista) causa la nascosta libidine di chi ha il potere (Salomè). Non è una lettura particolarmente originale e ciò che vediamo suscita ben poca voglia di assistere a un eventuale spettacolo così congeniato. Ciò che conta, tuttavia, è il gusto per il disvelamento del lavoro che si cela dietro la rappresentazione, lo smascheramento dei meccanismi che sottintendono la costruzione di una specifica proposta teatrale e la fatica, anche fisica, insita in questo lavoro.

altLa Settimana Internazionale della Critica ha proposto Louise Wimmer opera prima del francese Cyril Mennegun. Il film ha al centro una cinquantenne in difficoltà che ha alle spalle una tranquilla vita borghese interrotta dalla burrascosa separazione dal marito, che l’ha lasciata sola e piana di debiti legati alla passata attività di piccola imprenditrice. Ora è costretta a vive d’espedienti, dormire in macchina, rubare il carburante, lavorare come cameriera in un albergo, lavarsi nei bagni delle stazioni di servizio. E’ la disperazione più totale, ma lei non si arrende, rifiuta ogni aiuto, anche quello dell’amante, protesta cocciutamente con l’ufficio incaricato di assegnare le case ai poveri, tiene testa al direttore dell’albergo in cui lavora e guarda oltre le difficoltà.  Alla fine anche per lei si aprirà uno spiraglio di speranza. Il film traccia un ritratto preciso e doloroso di una persona che ha perso lo status sociale e deve misurare sulla sua pelle la difficoltà del vivere senza risorse. Il film - già pregevole per l’interpretazione di Corinne Masiero, attrice dal corposo passato televisivo - assume uno spessore e un’attualità del tutto particolari confermando la sensibilità del miglior cinema francese contemporaneo verso i grandi temi sociali. La vicenda di questa donna, la cui età la colloca quasi nel ruolo di relitto per il mondo produttivo, diventa l’emblema di una macelleria sociale che non riguarda solo il mondo dei poveri e quello degli emarginati, ma tocca direttamente i ceti medi. Come dire che quest’essere umano costretto a dormire in macchina è l’emblema di un’intera classe sociale travolta dalla crisi mondiale e dalla ferocia delle politiche selvaggiamente liberiste.


altTodd Solondoz è un regista americano il cui lavoro si muove lungo linee stilistiche molto precise: l’uso di elementi figurativi – punti di ripresa, colori – che rimandano all’iconografia delle soap opera inserendovi racconti dal tono notevolmente tragico. Nel caso di Dark Horse (letteralmente Cavallo Scuro, ma il senso è quello legato alla locuzione italiana Pecora Nera) è il ritratto di un trentenne brutto, grasso, mai uscito veramente dall’infanzia (colleziona pupazzetti) che incontra una donna piacente non meno sola e, per giunta, ammalata di epatite B. La storia della sua vita, dai rapporti con il padre titolare della ditta in cui lavora a quelli con la madre falsamente protettiva, è vista attraverso una serie di sequenze in cui compaiono personaggi che, nella realtà hanno ruoli del tutto diversi da quelli immaginati. Scopriremo alla fine che sono gli incubi di un moribondo (uscendo dall’ufficio, dopo l’ennesima litigata con il padre, ha causato un incidente d’auto che l’ha privato delle gambe) e che anche quel poco di positivo che ci è stato presentato sino a quel momento è solo frutto di sogni e speranze. Il poveraccio subirà un’ultima beffa al cimitero: la data della morte incisa sulla lapide è sbagliata! Il film ha un taglio pessimistico e straziante, non concede nulla al sogno americano che trasforma in incubo crudele. Un film molto importante, percorso da un cinismo sano e terribile capace di trasformare anche le sequenze più divertenti, ce ne sono molte, in un preannuncio di morte.
altAtmosfere strazianti anche quelle evocate dalla cinese Ann Hui che, in Tao jie (Una vita semplice), ricostruisce il tenero e doloroso rapporto fra un regista famoso e la domestica che l’ha allevato e curato durante la convalescenza per un difficile intervento al cuore. La donna è stata colpita da un infarto e ha perso parzialmente l’uso della parte sinistra del corpo, il figlioccio le paga il ricovero in una casa per anziani – per la verità più simile a un lager che a un luogo di riposo, va a trovarla regolarmente e la accompagna sino alla tomba dopo che un secondo infarto l’ha resa in pratica incapace di governare se stessa. Il film ha un andamento lento e un taglio dolce e doloroso, scandaglia con attenzione e partecipazione le relazioni fra un giovane e l’anziana che gli ha dedicato la vita intera. E’ un film molto bello, forte nei sentimenti che non usa in maniera ricattatoria verso lo spettatore, preferendo guidarlo alla riflessione sulla bellezza e tragicità della vita.
altIl piatto forte della pattuglia di film in concorso presentati oggi era Tinker, Tailor, Soldier, Spy (Stagnino, sarto, soldato, spia) che Tomas Alfredson ha tratto dal romanzo omonimo di John Le Carrè (1931), edito in Italia con il titolo La talpa. Il libro, uscito nel 1974, è considerato il primo della cosiddetta trilogia di Karla, che comprende anche L'onorevole scolaro (The honourable schoolboy, 1977) e Tutti gli uomini di Smiley (Smiley's people, 1980), dove Karla è lo pseudonimo del capo del KGB russo. Il libro appartiene a quel genere che ha reso realistica la rappresentazione del lavoro delle spie, privandole di qualsiasi alone romantico per immergerle in atmosfere sordide, violente e per niente eroiche. Il libro aveva già avuto un’ottima trasposizione in una serie televisiva nel 1979 per opera della BBC, regia di John Irvin, ove il personaggio del grigio ma astutissimo funzionario George Smiley era affidato all’arte di Alec Guinness. Siamo nel 1973 e lo spionaggio inglese assiste al fallimento di una serie di operazioni oltrecortina, una delle quali, sviluppata a Budapest, porta alla morte – almeno così si dice – di un agente operativo. Il capo del dipartimento, Control, è rimosso e, assieme a lui, il fido George Smiley che riceve dal ministro l’incarico riservato di verificare le voci secondo cui una spia russa, in gergo talpa, si sarebbe infiltrata ai massimi livelli. Il funzionario, che ha già non pochi guai con la moglie fedifraga, assolverà brillantemente il compito, anche se non esiterà a far ricorso a manovre e pratiche tutt’altro che legali. Il film odierno ha almeno due meriti. Il primo è la capacità di ricostruire con dovizia di particolari e notazioni adeguate il clima di un’epoca. Il secondo è la bravura di un gruppo di attori – Gary Oldman, Colin Firth, Katty Burke, John Hurt, per citare solo i primi nomi che vengono alla memoria – davvero eccezionale. Se c’è una cosa che latita, invece, è l’approfondimento psicologico della figura del protagonista il cui dibattersi fra il dovere e il dramma familiare è risolto interamente a favore del primo aspetto lasciando alquanto in ombra il secondo.
altIl cartellone della Settimana Internazionale della Critica ha presentato La-bas (Laggiù) di Guido Lombardi (1975), un esordiente che ha alle spalle due premi Solinas per la sceneggiatura. Il film prende spunto da un fatto di cronaca nera. Il 18 settembre 2008 un gruppo di fuoco, facente riferimento a Giuseppe Setola, capo degli scissionisti del Clan dei Casalesi, uccise, in due diverse azioni, Antonio Caliento, responsabile di una sala giochi di Baia Verde, affiliato ai camorristi del gruppo avverso, e sei immigrati africani che si trovavano casualmente presso la sartoria Ob Ob exotic fashions a Varcaturo. Il gravissimo crimine causò, il giorno dopo, una rivolta degli immigrati presenti nella zona, impegnati soprattutto nella raccolta di ortaggi, che reclamavano sicurezza e giustizia. Il film arriva alla ricostruzione di questo terribile massacro attraverso la storia del giovane Yssouf, un nigeriano arrivato clandestinamente in Italia chiamato da uno zio, potente boss della malavita africana e ricco trafficante di droga. Il ragazzo sogna di diventare un famoso scultore, ma è costretto a fare i conti con la brutalità del mondo malavitoso e la violenza che accompagna i traffici di cui si nutre. E’ un percorso dall’innocenza all’inferno che si chiude con la forzata riconciliazione con quella parte dell’immigrazione africana che paga un durissimo prezzo, in termini di sfruttamento e condizioni di vita, al permanere entro i binari della legalità. Il film ha toni che oscillano fra il documento sociologico e il melodramma, quest’ultimo con snodi abbastanza prevedibili, approdando a un prodotto professionalmente d’ottimo livello e politicamente encomiabile


altIl cartellone dalla Mostra ha presentato due titoli che potremmo definire parzialmente mancati. In Himizu (Nome di una tipica talpa giapponese, nel caso significa: in ombra) il giapponese Sion Sono è partito da un fumetto manga di Minoru Furuya. In un paesaggio costellato di detriti della tragedia che ha sommato terremoto a tsunami, un giovane idealista vive in una baracca vicina a un laghetto affittando barche per gite romantiche o partite di pesca. Il suo sogno è diventare un uomo ordinario e normale ma tutto congiura contro questo progetto semplice e, apparentemente, realistico. A scuola un professore fanatico predica l’unicità dell’individuo come ingrediente fondamentale per ottenere il successo. Suo padre, alcolizzato e violento, si presenta solo per farsi dare dei soldi. Sua madre ha una relazione (mercenaria?) con un uomo maturo e se ne va di casa. Solo cinque vicini che vivono in tende di fortuna e non sono meno emarginati di lui, lo sostengono e incitano a resistere. Sta dalla sua parte anche un compagna di scuola, che i genitori vorrebbero vedere morta, tanto che le allestiscono un vezzoso patibolo in camera, sperando di indurla al suicidio. Ogni tanto il mondo esterno si presenta sotto forma di truci yakuza che riempiono di botte il giovane e pretendono che restituisca i prestiti contratti da suo padre. Sarà uno degli amici baraccati a toglierlo d’impiccio, rubando un’ingente somma a un trafficante di droga e saldare il debito del padre. Tutto questo sfocia in un parricidio, quando il ragazzo uccide a colpi di pietra il genitore che era andato, ancora una volta, a chiedergli dei soldi. Ora la strada della vita ordinaria e normale è chiusa per sempre e non resta che scegliere fra la prigione e il suicidio. La decisione finale sarà per la vita, anche se il panorama che chiude il film è pieno di rovine. L’opera ha un chiaro intento metaforico nei confronti degli asfittici orizzonti che si presentano davanti ai giovani in una società lacerata da contraddizioni insanabili e percorsa da una terribile violenza. Il risultato, da un punto di vista cinematografico, può dirsi colto solo in parte, questo poiché i troppi materiali affastellati non permettono allo spettatore di avere un quadro preciso del discorso. Nuocciono anche i troppi fili colti, annodati, dispersi, grovigli che non permettono la costruzione di un quadro preciso e un’individuazione netta delle psicologie dei personaggi che appaiono come sacrificati dalla bidimensionalità del disegno.
altNon del tutto soddisfacente neppure l’approdo di Andrea Arnold che propone una nuova versione di Wuthering Heights (Cime tempestose). Rispetto al libro di Emily Brontë (1818 –1848), pubblicato nel 1847, la sceneggiatura trasforma in africano il protagonista della storia che, sulla pagina è un orfano dalla pelle scura, forse uno zingaro. Questo passaggio consente di dare al film un tono attuale, facendo leva sul razzismo dei giorni nostri e sulle sue radici in un passato non poi così lontano. In questo l’amore fra Catherine e Heathcliff, la figlia del fattore bianco e il trovatello di colore, si carica di significati. E’ una storia d’amore che ha per sfondo la brughiera del North Yorkshire, nel nord – est dell’Inghilterra. Un paesaggio aspro, freddo, ventoso che bene si sposa alle passioni violente dei personaggi. La scelta della regia, tuttavia, cozza con una struttura d’immagini di taglio televisivo – abbondanza di dettagli e primissimi piani, macchina da presa costantemente addosso agli attori – che toglie modernità e autonomia al film, confinandolo sul terreno dell’opera professionalmente perfetta, ma poco originale. A ben guardare il solo dato sicuramente positivo è rintracciabile nel realismo con cui il cineasta guarda alla vita e alle condizioni dei protagonisti, mettendo da parte le bellurie e le raffinatezze scenografiche che hanno segnato precedenti versioni di questo testo, a iniziare da quella firmata da William Wyler nel 1939, interpreti Merle Oberon, Laurence Olivier e David Niven.
altIl piatto forte della giornata l’ha proposto Ermanno Olmi con Il villaggio di cartone, presentato fuori concorso.

Poco dopo l’uscita di Centochiodi Ermanno Olmi (1931) aveva dichiarato che quello sarebbe stato il suo ultimo film e che aveva deciso di ritornare all’amato mondo del documentario. Le negatività politiche, sociali e culturali subentrate nella situazione del paese devono averlo convinto della necessità di cambiare avviso e rimettersi dietro la macchina da presa per raccontare storie di ampio valore metaforico. Tale è Il villaggio di cartone presentato fuori concorso. Un vecchio prete, parroco di una chiesa sconsacrata, perché non serve più, aspetta malinconicamente di morire portandosi dietro dubbi e domande senza risposta che l’hanno tormentato anche quando i fedeli accorrevano numerosi alla messa. In una notte di tempesta, mentre da fuori giungono rumori di guerra, un gruppo di africani entra nell’edificio vuoto e v’improvvisa una tendopoli, appunto un villaggio di cartone. Il sacerdote li accoglie e aiuta sin che può contro ottusi rappresentanti della legge e le trame di altri africani, pronti a sfruttare i loro compagni più sfortunati. Il tutto sino alla partenza della maggioranza dei migranti verso la Francia, un nuovo viaggio della speranza dall’esito quanto mai incerto, e la decisione di un piccolo gruppo di ritornare a casa perché: laggiù l’Africa vive, mentre in Europa muore. Il regista inserisce nel film molti elementi dell’iconografia cattolica – la natività, con il piccolo nero che nasce sotto la croce, Giuda che tradisce i propri simili, la violenza del mondo e la disperazione dei giusti – ma lo fa senza caricare nessun elemento di soverchi dati ideologici. Sembra quasi di assistere a un presepio, una Sacra Rappresentazione popolare non inquinata da forzature mercantili. Il discorso è chiaro e mira alla necessità di un recupero dei valori fondamentali della religione e al riscatto della fede dalle contaminazioni mondane perché fare il bene è più importante dell’aver fede. E’ un film a tesi, a tratti quasi ingenuo ma vigoroso nella perorazione morale. E' una grande lezione di vita, prima ancora che di cinema, da un maestro schivo e tenace.

Sempre fuori concorso si è visto anche Questa storia qua che Nicola Giuliano e Francesca Cima hanno dedicato al cantante Vasco Rossi. Un noioso spot musicale che non aggiunge nulla a quanto già sapevano né sul piano sociale – la vita del cantautore sembra essersi svolta in un mondo parallelo senza nessun contatto con il nostro – né su quello musicale, tenuto conto dei pochi brani proposti, tutti senza alcun approccio minimamente critico.


altDiciamolo subito: il secondo film italiano in concorso, Quando la notte che Cristina Comencini ha tratto dal suo libro omonimo, è stato una delusione. E’ un’opera che fallisce sia sul piano dei dialoghi, popolati di battute involontariamente esilaranti, sia su quello del racconto, scarsamente approfondito, sia, infine, su quello degli attori con Filippo Timi del tutto inguardabile. La storia, che avrebbe anche potuto contenere qualche elemento d’interesse, racconta di una giovane madre che attraversa quella tipica fase, attorno ai due anni del figlio, che alimenta sentimenti contrastanti verso il piccolo, sentire che, in qualche caso, sfiora l’odio. E’ un momento particolare per una donna, una fase in cui lei si sente inadeguata ai compiti, sempre più gravosi, che lo attendono e che, nello stesso tempo, subisce il conflitto fra il suo destino di madre e casalinga e il volersi realizzare appieno sul piano umano e, in non pochi casi, professionale. Tale è la condizione di Marina che il marito spedisce in una sperduta casa di montagna, di proprietà di un uomo burbero e non meno complessato, la moglie l’ha lasciato e lui non riesce a darsi pace, che di professione fa la guida alpina. Grandi panorami, molte scene madri – il piccolo piange in continuazione – bronci che sfociano in una storia sentimentale che avrà sbocco pratico solo alcuni anni dopo. Il film non funziona sul piano della costruzione e dell’indagine psicologica e neppure su quello, appena velatamente accennato, della condizione della donna moderna stretta fra ruolo materno e lavoro. In poche parole, è un film brutto e, a tratti, imbarazzante.
altE’ andata appena meglio con Hahithafut (Lo scambio) dell’israeliano Eran Kolirin. E’ un’altra storia di disadattamento, questa volta di un professore di fisica dell’università di Tel Aviv che, improvvisamente, scopre l’esistenza di altri mondi oltre a quello accademico. La cosa lo travolge al punto di indurlo a non andare al lavoro, passeggiare senza meta, mettersi a spiare le vite degli altri. L’idea che, a un certo momento della vita, si possa capire quanto limitata e unilaterale è la nostra esistenza è abbastanza interessante, ma per portarla a termine ci sarebbe voluto, oltre a un regista più esperto, anche un autore ben più raffinato e attento alle sfumature psicologiche.
altVelleitario e poco sopportabile è anche 4:44 Last Day on Earth (4 e 44 ultimo giorno sulla terra) dell’americano Abel Ferrara. Gli studiosi scoprono che la vita sul pianeta finirà alle quattro e quarantaquattro di un certo giorno: troppe sono state le offese fatte alla terra in termini d’inquinamento, spreco delle risorse, dilapidazione delle forme di vita. Ora il vaso è colpo e non c’è più nulla da fare se non attendere la fine. E’ quanto fa una copia newyorkese – lui (Willem Dafoe) è uno scrittore e regista lei (Shanyn Leight) una pittrice – che passano le ore che li separano dalla fine facendo più volte l’amore, parlando su skype con amici e parenti oppure guardando semplicemente il cielo. L’idea potrebbe anche essere buona se la regia la sviluppasse minimamente senza rimanere al palo dalla prima all’ultima sequenza. E’ un film velleitario, fragile, prevedibile e, anche in questo caso, compromesso da una recitazione gigionescamente pietosa.
altPer fortuna è arrivato il film sorpresa a riequilibrare il bilancio della giornata. Ancora una volta la Mostra ha dato il meglio guardando a oriente. Ren Shan Ren Hai (Gente di montagna, gente di mare) è l’opera seconda di Cai Shangjun e si riallaccia al filone che ruota attorno ai prezzi, umani e sociali, che la Cina paga per il suo straordinario progresso economico. E' la storia di un cavapietre che vuole vendicare il fratello che un avanzo di galera ha assassinato per rubargli la motocicletta. La sua ricerca diventa una sorta di percorso negli inferi della Cina di provincia, fra poliziotti corrotti, trafficanti di droga, piccoli spacciatori, miniere clandestine in cui i lavoratori sono trattati come bestie e uccisi brutalmente non appena trasgrediscono a qualche ordine. Sia detto per inciso, il problema delle miniere di carbone prive di autorizzazione e rese profittevoli dall’inesausta fame di energia del paese, è stato oggetto di vari articoli anche da parte della stampa italiana. Qui quel doloroso inferno lo vediamo con i nostri occhi e ne misuriamo per intero la tragicità. Una bolgia di disperati tanto crudele che il protagonista, quando scopre l’uccisore del fratello, preferisce salvargli la vita rompendogli un braccio e impedendogli di andare a lavorare proprio nelle ore in cui lui, esasperato e disgustato, fa saltare in aria il pozzo d’estrazione. E’ un film di grandissima forza, importante per la denuncia politica che lo attraversa, ma anche per il rigore stilistico della regia e, finalmente, per la bravura degli attori.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha proposto El Languaje de los Machetes (Il linguaggio dei machete) dell’esordiente messicano Kyzza Terrazas. E’ il ritratto della disperazione e dell’impotenza di una coppia di giovani di Città del Messico – lei fa la cantautrice rivoluzionaria, lui si atteggia poeta e scrittore – che aborriscono la società in cui vivono. Sono disgustati sino al punto di progettare un attentato suicida che fallirà perché la bomba che la donna porta addosso non esplode, mentre l’uomo si defila, ancora una volta, pochi minuti prima dell’azione. Il film utilizza tutti gli elementi classici di questo cinema, immagini sgranate, cinepresa costantemente sui personaggi, droga, alcol e grandi discorsi. Nulla di nuovo e un sovraccarico di passione che non solleva il film oltre la soglia del già visto


altL’ultimo terrestre di Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi, è il terzo film della pattuglia italiana in concorso, alla Mostra. E’ un’opera liberamente tratta dal romanzo a fumetti, gli inglesi direbbero graphic novel, Nessuno mi farà del male (2011) che raduna racconti e storie scritte e disegnate da Giacomo Monti (1975). Lo scenario è un mondo in dissoluzione in cui dominano truffe, violenze, indifferenza. In questo quadro si annuncia l’arrivo degli alieni e ognuno inizia a prepararsi all’evento come più gli conviene o meglio sa. Ci sono i pochi che perseguono la fiducia e la comprensione, c’è chi è disposto ad accogliere i nuovi venuti a braccia aperte, ma solo per servirsene, chi trasforma in business le attese di massa. Nel film tutto questo è visto attraverso gli occhi di un cameriere che lavora in una sala Bingo, vive una vita solitaria e ha come unico amico un transessuale. Anche questo puntello gli sarà tolto da un vergognoso ricatto ordito dai suoi colleghi di lavoro ai danni di un capocameriere e che costerà la vita al trans mentre lui assiste al delitto senza nulla fare. Un barlume di speranza si accende nel finale: forse l’arrivo degli alieni sarà l’occasione per premiare i giusti e condannare i malvagi. Il regista, anche lui autore di romanzi a fumetti, è all’esordio nel lungometraggio e il punto d’inciampo del suo lavoro, come già accade ad altri registi che portano sul grande schermo racconti grafici, è nel non riuscire a superare la dimensione bidimensionale della pagina disegnata. Non si tratta di usare strumenti tecnologici nuovi, poiché certi film americani di questo tipo soffrono dello stesso disagio anche se girati in 3D. Il problema è nella struttura narrativa nel suo complesso e, in particolare, dello spessore psicologico dei personaggi. In questo il cameriere attorno a cui ruota l’intera storia continua, malgrado ogni sforzo, a restare un personaggio a due dimensioni, a disagio sul grande schermo. 
altQuasi a volere stabilire un paragone forzato, prima del film italiano è stato presentato Killer Joe dell’americano William Friedkin (1939), uno dei maestri del cinema hollywoodiano. Il film è tratto dal testo teatrale omonimo scritto da Tracy Letts (1965) nel 1993. Un’origine drammatica che pesa sullo sviluppo del racconto, le cui scene chiave sono spesso realizzate in luoghi chiusi e devono quasi più ai dialoghi che alle azioni. La vicenda raccontata ruota attorno a tre sgangherati texani che assoldano, senza averne le disponibilità, un poliziotto killer con l’incarico di assassinare una vecchia alcolizzata, ex-moglie di uno e madre dell’altro, per incassarne l’assicurazione. Solo che, da pasticcio a pasticcio, le cose vanno a rotoli, anche grazie al doppio gioco della donna che forma il terzo lato del triangolo – l’attuale moglie di uno dei due, che tresca con l’attuale amante della donna da uccidere. Una trama basata su personaggi e situazioni che sarebbe difficile costruire in modo più degradato, ma che contribuisce assai bene a mettere assieme una storia avvincente e a fornire un quadro impietoso di quell’altra faccia degli Stati Uniti che si cela dietro lo sfavillio dei grattacieli. E’ un film dalla costruzione classica e dalla struttura robusta.
altIl terzo titolo in concorso della giornata portava la firma di un grande autore russo, anche se, in questo caso, si tratta di una produzione tedesca. Con Faust Alexander Sokurov riprende in modo molto libero il dramma, parte prima (1808) e seconda (1832), di Johann Wolfgang von Goethe (1749 – 1832). Lo fa immergendo il film in colori verdastri, paesaggi lunari e seppellendo i personaggi sotto un diluvio di parole. Il procedimento è lo stesso usato nelle altre opere di questo cineasta dedicate alla natura del potere: Moloch (1999) su Adolf Hitler, Taurus (2000) su Vladimir Ilyich Lenin e Il sole (2005) sull’imperatore giapponese Hirohito. Di nuovo c’è una spinta ancor più accentuata all’utilizzazione della parola letteraria e un rafforzarsi dell’interesse per la sconfitta. Nel caso in questione la rovina del professore, che stringe un patto con il demonio, non deriva tanto dalle sottili arti del maligno, quanto dalla cupidigia dell’uomo. Una cupidigia che, tuttavia, appare più che necessitata dalle amare condizioni in cui il genere umano è costretto. In definitiva è un film dalle forti componenti artistiche e dallo spessore intellettuale spinto all’estremo.
altLa Settimana Internazionale della Critica ha presentato Totem, opera prima della tedesca Jessica Krummacher. Fiona, una ragazza forse d’origine straniera, va a lavorare come domestica nella famiglia Bauer: padre, madre, una figlia adolescente, un bambino piccolo. Lo scenario è quello della Ruhr, una regione tedesca nella Renania Settentrionale - Vestfalia densamente popolata, 5,3 milioni di abitanti, e una delle aree urbane più grandi d’Europa. La vita in famiglia scorre sui binari della normalità piccolo – borghese, ma nasconde pulsioni anche bislacche, come quelle che agitano la madre, alle prese con i segni di una menopausa precoce, che alleva due bambolotti come fossero veri bimbi. Non sono neppure del tutto lineari i comportamenti degli altri membri della famiglia: il padre ritorna a casa solo nei fine settimana e mostra crescenti attenzioni sessuali verso la giovane, ma trascura la moglie. La figlia ha una relazione con un ragazzo più anziano, quasi a compensare l’indifferenza paterna. Il figlio più piccolo è capriccioso e dispotico nei confronti della cameriera. Nell’ultima sequenza scopriremo che la ragazza ha deciso da tempo di chiudere la sua presenza in famiglia con un gesto irreparabile. Il film è liberamente tratto da un fatto di cronaca ed è il saggio di diploma alla scuola di cinema a Monaco di Baviera della regista. L’intento è svelare il verminaio che si cela sotto l’apparente regolarità borghese, le tensioni mascherate da normalità, l’indifferenza di ciascuno verso i problemi e i crucci degli altri. E’ un’opera costruita con immagini fredde e stile oscillante fra il documento sociale e il filmino di famiglia. Ne nasce un quadro agghiacciante segnato da opportunismo individuale e lacerazioni esistenziali. Un testo di buon livello che colpisce per la maturità e la linearità del linguaggio.


altJonnie To, figura di punta del cinema di Hong Kong, è un cliente abituale della Mostra di Venezia, ove ha presentato, nel 2006, Exiled e ha fatto parte della giuria dell’edizione del 2008. E’ ritornato in concorso con Life Without Principle (Vita senza principi) che ruota attorno a tre personaggi: un’impiegata di banca, da poco promossa al rango di venditrice di titoli e fondi, un piccolo yakuza fedele senza riserve al clan cui appartiene, un ispettore di polizia onesto e capace che conduce una tranquilla vita piccolo borghese. La bancaria ha per cliente un usuraio, solito ritirare in contanti cospicue somme di denaro. Un giorno, per un sommarsi di casi, il cravattaro finisce ucciso da un rapinatore, proprio quando ha in borsa 5 milioni di dollari hongkonghesi, anche se in realtà formalmente ne ha prelevati dieci. Gli altri cinque li ha affidati frettolosamente all’impiegata che, in questo modo, si trova in mano una somma rilevante che nessuno sa che le è stata consegnata. Lo stesso giorno il poliziotto deve alternare la rischiosa attività quotidiana con le lamentele della moglie, che vuole un nuovo appartamento in una zona di pregio. Il piccolo malvivente, infine, fa da congiunzione inconsapevole fra questi personaggi, traendone a sua volta un congruo profitto economico, anch’esso arrivatogli in tasca in modo casuale. La regia giostra con grande abilità queste tre vicende, alternando tempi e luoghi, raccontando prima ciò che capiterà dopo. E’ un processo narrativo che richiede una grande lucidità nell’incastrare le diverse vicende e i tempi in cui si sviluppano nella costruzione di un ampio affresco in cui ogni gesto finisce coll’essere dominato dall’ossessione del denaro: tutto si svolge nelle ore in cui esplode la crisi dell’economia greca. E’ una produzione di chiaro impianto commerciale, ma che riesce a sviluppare un discorso coerente e socialmente complesso. Accade, in altre parole, la medesima cosa che si nota nel migliore cinema americano, quando la spettacolarità e la malia del racconto si sposano all’attenzione per il mondo reale.

altL’ultimo titolo in concorso è stato Texas Killing Fields (da noi uscirà col titolo Le paludi della morte). E' il secondo lungometraggio dell’americana Ami Canaan Mann che ha già alle spalle una corposa carriera di autrice televisiva, oltre ad essere figlia di Michael Mann che coproduce il film ed è uno dei maggiori registi del cinema hollywoodiano contemporaneo. Lo spunto è nato da una serie di fatti di cronaca risalenti ad alcuni anni or sono quando, nella zona paludosa che fiancheggia l’interstatale 45 nei pressi di Texas City, a una trentina di minuti d’auto a sud di Houston, si scoprono ì resti di una cinquantina di donne che erano state vittime di aggressioni sessuali. E’ in quest’atmosfera, cupa e violenta, che si muovono due detective della cittadina texana, uno dei quali proveniente dalla polizia di New York e oppresso dal ricordo di un’operazione finita male e costata la vita alla sequestrata. I due ci si mettono di buzzo buono per rintracciare un assassino seriale di donne e bambine, anche se il poliziotto locale, anche lui uscito da una burrascosa storia con una collega, tende più a limitare l’azione al raggio della circoscrizione, piuttosto che seguire il filo delle indagini, anche a costo di invadere campi altrui. Come abbastanza prevedibile, alla fine il colpevole pagherà il fio dei suoi misfatti, pur lasciandosi dietro ferite, morali e materiali, che impiegheranno tempo a rimarginarsi. Il film è lontano dall’essere una pietra miliare del cinema, anche di quello di genere, ma conferma la capacità narrativa e la professionalità di cui dispongono i cineasti americani. Vale a dire si segue dal primo all’ultimo fotogramma senza guardare l’orologio neppure una volta. Scusate se è poco!

altLa Settimana Internazionale della Critica ha chiuso malamente i battenti presentando, fuori concorso, Missione di pace, film d’esordio di Francesco Lagi. Un capitano dell’esercito, incaricato di trovare e arrestare un criminale di guerra jugoslavo, si trova nei guai quando gli capita fra capo e collo il figlio pacifista, verboso e pseudorivoluzionario. Il ragazzo riesce a mettere in subbuglio la già sgangherata pattuglia di militari italiani, ma sarà anche l’artefice della riuscita della missione. Siamo dalle parti di una sorta di Armata Brancaleone mal costruita, abborracciata, diretta in modo approssimativo e con un sottofondo razzista dimostrato dal modo in cui è rappresentato il ricercato: un selvaggio violento e stupido. E’ un cinema di bassissima qualità, del tutto privo di fantasia e inventiva, la migliore testimonianza delle ragioni per cui i nostri film risultano indigesti, totalmente inesportabili e fastidiosi.

Conclusioni

Anche se non è facile concentrare in poche righe il giudizio su una manifestazione complessa quale la Mostra Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia, possiamo almeno dire che il cartellone non ha deluso le aspettative, proponendo almeno quattro titoli di ottimo livello. Ci riferiamo a The Ides of March (Le idi di marzo) di Gorge Clooney, Carnage (Carneficina) di Roman Polanski, Dark Horse (Pecora nera) di Todd Solondz e People Mountain People Sea (Gente di montagna gente di mare) di Cai Shang Jun. Da notare che due sono versioni cinematografiche di drammi teatrali e la cosa con è priva di significato. Abbiamo messo momentaneamente da parte Faust di Alexander Sokurov, in quanto opera tanto personale e colta da meritare una valutazione quasi estranea al solo mondo del cinema. Quattro, o cinque, titoli non sono pochi per qualificare il programma di una rassegna cinematografica, per questo, da questo punto di vista, si può dire che la manifestazione ha raggiunto il suo obiettivo. Si badi bene, stiamo parlando di ciò che è parso a noi, non di ipotesi sulle scelte della giuria che dipendono da una serie di fattori tanto ampia (valutazioni personali, ragioni diplomatiche, equilibri commerciali ...) da rendere impossibile ogni seria previsione. Nel complesso è stata una manifestazione meno affollata del solito, il numero dei giornalisti si è assottigliato e il pubblico, anche se statisticamente più numeroso dello scorso anno, qualche volta ha dovuto essere invogliato con generose elargizioni di biglietti omaggio. La cosa non sorprende, quando si mettono in conto le difficoltà economiche, gli alti prezzi del Lido e una generale disaffezione degli spettatori, in particolare dei giovani, verso il cinema di qualità. Anche questi sono segni dei tempi che possono rattristare, non essere ignorati.

altI premi

Leone d’Oro: Faust di Aleksandr Sokurov

Leone d’Argento: Cai Shangjun per Ren Shan Ren Hai (Gente di montagna, gente di mare) di Cai Shangjun

Premio Speciale della Giuria: Terraferma di Emanuele Crialese

Coppa Volpi (femminile): Deanie Yip per A Simple Life di Ann Hui

Coppa Volpi (maschile): Michael Fassbender per Shame di Steve McQueen

Premio Mastroianni (attore rivelazione): Shôta Sometani e Fumi Nikaidô per Himizu di Sion Sono

Premio Osella per la miglior sceneggiatura: Yorgos Lanthimos e Efthimis Filippou per Alpsdi Yorgos Lanthinos

Premio Osella per la miglior fotografia: Robbie Ryan per Wuthering Heights di Andrea Arnold

Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis: Là-Bas di Guido Lombardi

Premio Orizzonti: Kotoko di Shinya Tsukamoto

Premio speciale della giuria: Whore’s Glory di Michael Glawogger

Premio Orizzonti Cortometraggio: In attesa dell’avvento di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato

Premio Orizzonti Mediometraggio: Accidentes Gloriosos di Mauro Andrizzi e Marcus Lindeen

Premio Controcampo italiano: Scialla! di Francesco Bruni.