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11° Festival del Cinema Europeo
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Yilmaz Güney
Yilmaz Güney
Forse sono utili anche alcune note riferite alla fuga del regista dalla Turchia alla fine del 1980. In passato si è sussurrato di un coinvolgimento di Gian Maria Volontè, la cui barca era in zona proprio in quei mesi, nell’uscita dal paese del regista che fruiva di un periodo di permesso concesso in occasione del Ramadan. Personalmente ricordo di aver appreso la notizia da La Gazette de Lausanne che mi capitò sottomano nel corso di un convegno organizzato dalla sezione svizzera della FIPRESCI. Ebbi subito il dubbio che si trattasse di una messa in scena per mascherare in qualche modo l’uccisione del regista da parte dei militari golpisti che avevano assunto il potere, per la terza volata nella storia del paese, il 13 settembre del 1980. Per fortuna questi dubbi furono presto fugati dalla notizia del suo arrivo in Svizzera.
Yilmaz Güney
Yilmaz Güney
Sempre a proposito della fuga dalla Turchia ricordo che fu lo stesso regista a raccontare come avesse deciso di abbandonare il paese, dopo anni di detenzione, quando si era convinto che i militari e le forze di destra avevano deciso di ucciderlo. Lo stesso Yilmaz Güney narrò come un giorno si venne a trovare in una parte del carcere relativamente solitaria e qui aveva notano un noto killer del Lupi Grigi (formazione parafascista in cui ha militato anche Mehmet Ali Ağca, che il 13 maggio 1981 attentò alla vita di Papa Giovanni Paolo II) che muoveva verso di lui con un coltello in mano. Allora il regista scostò i lembi della giacca e mise in mostra il calcio della pistola che portava infilata nella cintura, a tale vista l’altro girò sui tacchi e si dileguò. Alla domanda: ma come facevi ad avere una pistola in carcere? Il cineasta rispose con la massima serietà: come sarei potuto sopravvivere in prigione se non fossi stato armato?. Vero o falso che sia, l’episodio risponde alla mitologia che il regista ha creato attorno a se e ai suoi personaggi e ne illustra assai bene il carattere di uomini coraggiosi, disposti a violare qualsiasi regola pur di sopravvivere e far trionfare quella giustizia di cui si sentono portatori unici.
Yol
Yol
Ritorniamo al discorso sulle opere di quest’autore e le maggiori rassegne. Sin dall’inizio molti critici posero l’accento, e confermarono dopo la definitiva affermazione dopo la Palma d’Oro a Yol, sulla confluenza nel suo lavoro di tre filoni: il western, americano e italiano, la miglior lezione neorealista, particolarmente evidente in opere come Umut (Speranza, 1970) e Zavallilar (I poveri, 1975), e l’impegno fantastico – sociale tipico del cinema novo brasiliano. Quest’ultimo considerato più sul versante di Nelson Pereira dos Santos (Rio 40 Graus, Rio 40 gradi, 1955 e Vidas Secas, 1963) che non su quello di Glauber Rocha (Deus e o Diabo na Terra do Sol, 1964 e Terra em Transe, 1967). Nel cinema di quest’autore, infatti, è sempre il realismo a prevalere, anche quando il melodramma e il fantastico vi fanno capolino. Paradossalmente si deve notare come con l’esilio sia venuta meno quella forza esplosiva che serpeggiava nel suo cinema e coniugava popolarità del periodare con vigore politico. Infatti, l’anno successivo alla conquista della Palma d’Oro, nel 1983, il regista presentò, sempre al festival di Cannes, Duvar (La rivolta), film prodotto da Marin Karmitz, girato in un'abbazia francese nei pressi di Senlis trasformata nella sezione minorile di un immaginario carcere turco. Il film è ispirato a un fatto di cronaca, una ricolta avvenuta nel 1976 in una prigione di Ankara, e mostra solo in alcuni momenti la forza creativa ed espressiva che sorregge sia le opere popolari, sia quelle dal carcere di questo grande cineasta.