11° Festival del Cinema Europeo - Pagina 4

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11° Festival del Cinema Europeo
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Due vite per caso
Due vite per caso
Due vite per caso, opera d’esordio di Alessandro Aronadio segue un modello di racconto non nuovissimo e che richiede una grande padronanza di tempi e meccanismi narrativi. E’ il tipo di storia che procede su binari paralleli partendo da un fatto e ipotizzandone le varie conseguenze. In questo caso il tamponamento causato da un’auto guidata da due ragazzi, uno dei quali deve correre al Pronto Soccorso per farsi ricucire una ferita a un dito che si è causato aprendo una lattina di birra. Il mezzo investito è un’autocivetta della polizia i cui occupanti - prima versione - prendono assai male la cosa, maltrattano i due investitori e li denunciano accusandoli di resistenza alla forza pubblica. Nella seconda ipotesi il tamponamento non avviene, l’auto investitrice si ferma in tempo e gli agenti se ne vanno senza neppure chiedere ai documenti ai due ragazzi. Da quei due percorsi, uno dei quali marcia verso una vita normale da giovane impegnato contro il razzismo con padre colpito da infarto, malore da cui esce sano e salvo. Il secondo percorso, invece, vede uno dei ragazzi arruolarsi nei carabinieri, essere comandato alla repressione di una manifestazione non autorizzata e diventare l’assassino di una giovane manifestante che non è altro che il se stesso che abbiamo visto nella prima storia. Il racconto è tutt’altro che lineare e la vicenda si snoda in maniera per nulla armonica. Due soli dati positivi: una fotografia efficace e curata o una confezione complessivamente segnata da una buona professionalità. L’impressione è che il regista si sia posto un obiettivo non alla sua portata affrontando un modello di racconto in cui contano al massimo la perfezione degli incastri. Nel complesso è una buona promessa per il futuro piuttosto che una sicura affermazione per il presente.
Yilmaz Güney
Yilmaz Güney
Fra le varie sezioni del festival ce n’erano due di particolare interesse. La prima era una retrospettiva dedicata al cineasta turco Yilmaz Güney, l’altra una panoramica sul più recente cinema di quel paese. Per quanto riguarda il maestro turco ricordiamo come Il cinema di Yilmaz Güney la conoscenza del suo cinema in Italia, ha preso il via dalla Mostra del Cinema d’Autore che si tenne a Sanremo nel marzo 1976. Questa manifestazione era stata idea da Mino Zucchelli ed ebbe le prime edizioni a Bergamo città da cui trasmigrò dopo le contestazioni subite nel 1968. Ancor prima che si accendessero gli schermi dell’Ariston, Leonardo Autera aveva suscitato la curiosità di molti con un articolo, apparso su Il corriere della sera, in cui si raccontava di questo straordinario regista che dirigeva i film dal carcere. Infatti, Yilmaz Güney era stato condannato, nel 1974, a sedici anni di prigione per l’omicidio di Sefa Mutlu, pubblico ministero della prefettura di Yumurtalık, una cittadina della Turchia settentrionale, nella provincia Adana. La ricostruzione dei fatti - una lite fra supporter di destra e membri della troupe che stava girando Endişe (Inquietudine, 1974), film che sarà portato a termine dal suo assistente Serif Gören – lasciò molti dubbi, tanto che la maggior parte degli osservatori concordano ancor oggi sul fatto che l’attribuzione dell’omicidio al regista - che non negò mai di aver partecipato alla rissa, ma esclude di essere l’assassino del magistrato – fu, per il governo turco, una ghiotta occasione per sbarazzarsi di un oppositore particolarmente scomodo. Non si deve dimenticare, infatti, cha già in precedenza, nel 1961, il cineasta era stato imprigionato, per diciotto mesi (questa la pena sancita in appello mentre la prima condanna era di ben sette anni e mezzo di carcere e due e mezzo d’esilio), con l’accusa di aver pubblicato un racconto definito comunista in cui si rivendicava l’uguaglianza di tutti gli uomini. Nel 1970 era stato nuovamente arrestato con l’accusa di aver dato ospitalità ad alcuni giovani anarchici ricercati per l’uccisione di un diplomatico israeliano in Turchia. Sarà liberato quattro anni dopo sia per un’amnistia generale, sia in seguito alle prese di posizione di molti intellettuali europei fra cui Jean - Paul Sartre. E’ facile capire come la biografia di un personaggio di questo calibro, unita al fatto che continuasse a dirigere i suoi film dal carcere, abbiano alimentato la curiosità di giornalisti e critici.
Inquietudine
Inquietudine
Per quanto riguarda questo inconsueto metodo realizzativo se n’è già parlato molto per cui varrà la pena di ricordarlo per sommi capi. Il regista scriveva in carcere le sceneggiature, dettagliatissime sia per punti di ripresa sia per movimenti di macchina, che poi affidava ad autori in cui aveva una totale fiducia e che lo ripagavano eseguendo minuziosamente le sue indicazioni. Spesso riusciva ad ottenere l’autorizzazione a visionare in carcere i materiali girati prima del montaggio finale, ma questa pratica incorreva in numerosi ostacoli. Per quanto riguarda, ad esempio, Dusman (Il nemico, 1979) il direttore dell’isola prigione in cui era rinchiuso gli concesse una sola proiezione. La cosa fu organizzata nell’unico cinema esistente sul posto e doveva essere un fatto assolutamente privato. Tuttavia, quando il regista si presentò, la sala era già strapiena: tutti i detenuti rinchiusi nel carcere e che godevano di un regime di semilibertà, si erano precipitati ad assistere all’evento. A questo punto fu inevitabile accoglierli come spettatori con l’avvertenza che se vi fosse stato anche un solo rumore, la proiezione sarebbe stata interrotta. Per quasi quattro ore, raccontò lo stesso cineasta, nessuno fiatò nonostante le immagini fossero ancora mute e ordinate, in modo approssimativo. Per quanto riguarda i cineasti che co-firmarono i suoi film durante la detenzione, di solito si rifiutarono di partecipare a festival o ritirare premi attribuiti ai film di cui risultavano autori con la motivazione che quelle opere erano in realtà del cineasta imprigionato. Così fu, ad esempio nel caso del primo riconoscimento di grande importanza attribuito a Sürü (Il gregge, 1979) dal Festival di Locarno (Pardo d’Oro), Düşman (Il nemico, 1979), menzione d’onore e premio OCIC al Festival di Berlino 1980, entrambi diretti da Zeki Ökten e Yol, firmato anche da Serif Gören e coronato con la Palma d’Oro al festival di Cannes 1982. In tutti questi casi, il primo elemento d’interesse, come confermano gli articoli scritti dagli inviati alle manifestazioni, furono proprio le particolari condizioni che avevano segnato la realizzazione delle opere e la straordinaria biografia dell’autore. A proposito di quest’ultima si deve ricordare come, nella seconda metà degli anni settanta, la popolarità di questo regista e la resa commerciale dei suoi film fossero grandissime. Non solo le edicole di Istanbul erano piene di suoi poster, ma sue fotografie si trovavano nei luoghi più impensati come saloni da barbiere e bar. Per quanto riguarda la resa commerciale delle opere era sistematicamente superiore a quella dei film stranieri di successo, come la serie 007. Per inquadrare correttamente il fenomeno bisogna dire che erano anche gli anni in cui, causa una violenta controversia fra produttori angloamericani e distributori – esercenti turchi, i grandi film hollywoodiani arrivavano nelle sale del paese con vari anni di ritardo rispetto alla data di realizzazione.