Festival di Cannes 2006 - Pagina 4

Stampa
PDF
Indice
Festival di Cannes 2006
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Tutte le pagine
Lunedì 22 maggio – Quarto / Sesto Giorno.
Il fine settimana ha portato, come di consueto una gran massa d’invitati, addetti ai lavori e curiosi. Sugli schermi sono passati sei titoli, ne diamo conto sommariamente. Meglio non prestare troppa attenzione a Red Road (Strada Rossa) opera prima dello scozzese Andrea Arnold. E’ una storia poliziesca, dai tratti più che prevedibili, che ha al centro una donna agente, addetta al controllo delle telecamere che sorvegliano la città. Scopre, per caso, che è stato messo in libertà il responsabile della morte accidentale di marito e figlia. Per vendicarsi ordisce una trappola, in cui il tipo cade come un allocco, per farlo accusare di stupro. All’ultimo si pente e lo fa liberare. Il lutto è stato elaborato con buona pace di tutti e la vita continua. Il film è diligente, ma quasi inesistente sul piano espressivo.
Selon Charlie (Lo dice Charlie) di Nicole Garcia è uno di quei film francesi che più non si potrebbe. E’ un esempio di sceneggiatura professionale, attori di livello, storia moderatamente originale. In una cittadina sulle rive dell’Atlantico in inverno, nel corso di tre giorni, sette personaggi incrociano le loro storie. C’è il sindaco che ama una ragazza ben più giovane di lui e che deciderà di rischiare la carriera per rimanere con lei. C’è il professore di scienze del liceo, ex ricercatore artico, tentato di abbandonare tutto per ritornare all’antica passione. C’è lo studioso di successo che ritorna nella città natale per partecipare ad un importante congresso e che coglie l’occasione per tentare di convincere il professore di liceo, suo antico compagno, non solo di studi, a ritornare a lavorare con lui. C’è la moglie dell’insegnante che lo tradisce con un operaio inquieto, c’è il figlioletto di quest’ultimo sballottato fra difficoltà adolescenziali e odio – solidarietà verso il padre. C’è il ladruncolo da quattro soldi che, per rubare un televisore, rischia l’accusa d’omicidio. Dovrebbe essere uno spaccato di vita, ma la regista non riesce a rendere realmente indicativi i personaggi, preferendo affidarsi alla bravura degli attori e rinunciando ad approfondire il discorso. Una mezza delusione.
L’opera più interessante è stata Iklimler (I climi) del regista turco Nuri Bilge Ceylan, un autore che, con solo quattro lungometraggi all’attivo: Uzak (Distante, 2002), Mayis sikintisi (Nubi di maggio, 1999), Kasaba (La cittadina, 1998), incarna una delle voci nuove del cinema mondiale. Questo suo ultimo lavoro è fedele allo stile antonioniano che predilige: lunghi piani - sequenza, poche parole, immagini perfette di un paesaggio freddamente indifferente alle turbe emozionali dei personaggi. La storia ha al centro la crisi sentimentale ed esistenziale di un professore d’arte e di una direttrice artistica televisiva. Vanno in vacanza al mare e lì esplode il conflitto, lei tenta di ucciderlo e suicidarsi, causando un incidente stradale, poi lo lascia. Passano i mesi e lui è sempre più solo e melanconico, neppure un ritorno di fiamma con un’ex – amante, per la verità più simile ad uno stupro che ad un atto d’amore, serve a lenire la malinconia e il dolore. La compagna, nel frattempo, ha accettato di seguire la lavorazione di una serie tv che si gira all’interno del paese, in zone gelide e innevate. Lui parte alla sua ricerca e, quando la trova, riesce a convincerla di essere cambiato e pronto a trattarla come un essere umano autonomo e non come una sua proprietà. Lei si lascia persuadere, ma bastano pochi gesti, prima del ritorno ad Istanbul del compagno, a farle capire che nulla è mutato e lui è sempre il maschilista, mentitore e soprafattore di sempre. Il film termina su un primissimo piano della donna, dal cui viso traspare l’incertezza sul da fare. Il film è una meraviglia per il modo in cui dissemina piccole tracce, ma pesanti come macigni, sul carattere dei due protagonisti. E’ l’opera femminista più importante e intelligente vista negli ultimi anni, una perorazione a favore dell’indipendenza delle donne che non dimentica, anzi evidenzia, il dolore, la melanconia, l’insicurezza psicologica degli uomini. Un film perfetto con una fotografia eccezionale – il regista viene da questa professione – e con un amore per la protagonista, compagna di vita del cineasta, che traspare da ogni inquadratura che gli è dedicata. Un’opera forte ed espressivamente straordinaria.
Un critico, quando si trova davanti ad opere che lo sconcertano e che non capisce, ha il dovere di dirlo chiaramente ai lettori. A me è capitato di provare questa sensazione vedendo Southland Tales (Racconti della terra del sud) di Richard Kelly. Il dossier stampa parla di una Los Angeles del 2008, dopo che un attentato nucleare ha distrutto una parte degli Stati Uniti e un geniale inventore tedesco ha ideato una fonte inesauribile d’energia che sfrutta il movimento delle onde del mare. Peccato che il marchingegno determini anche un’alterazione dell’asse terrestre che ha effetti letali sulla mente degli uomini. Si scatena così un conflitto fra il potere autoritario e una pattuglia di resistenti che va dai neomarxisti alle porno star redente. Lo scontro termina con la distruzione dei cattivi e l’arrivo di un nuovo Gesù. Tutto questo è scritto, ma sullo schermo le cose appaiono talmente imbrogliate e piene di strizzate d’occhio alla realtà americana da risultare confuse, incomprensibili, insopportabilmente lunghe (2 ore e 40 di proiezione). E' una fatica enorme per uno spettatore cui si concedono solo battute oscure e messaggi pomposi.
Con Laitakaupungin Valot (Le luci della sera) Aki Kaurismäki prosegue, con coerenza stilistica e testardaggine tematica, il discorso sull’ingiustizia e l’inaccettabilità della società capitalista, meglio di quella moderna senza aggettivi. Al centro del film c’è un personaggio solitario, silenzioso, destinato ad esser gabbato e deluso da tutti quelli che lo circondano. Koistinen fa con precisione il suo lavoro di guardiano notturno, sogna di mettere su un’azienda sua, ma è deriso ed emarginato dai colleghi. Un giorno incontra una donna che s’interessa a lui, ma lo fa solo perché complice di una banda che vuole svaligiare una gioielleria che sui sorveglia. Gli carpisce codici e chiavi permettendo ai complici di rubare. Il guardiano è accusato di essere il ladro e finisce in prigione. Qui s’incupisce ancor più, al punto di respingere gli approcci della padrona di un chiosco di panini, la sola che crede in lui. Quando esce dalla prigione, la banda continua a perseguitarlo, facendogli perdere il posto di lavapiatti che ha appena trovato e picchiandolo a sangue. Malconcio, sanguinante, senza lavoro sarà solo la proprietaria del chiosco a porgergli una mano che lui l’accetta. Il film è girato con il consueto stile freddo, le inquadrature precise, i personaggi ridotti a caratteri simbolici. E' un testo forte e rivoluzionario, ma che ha il difetto di presentare discorsi già fatti in Mies vailla menneisyyttä (L’uomo senza passato, 2002) e Kauas pilvet karkaavat (Nuvole in viaggio, 1996).