Antalya Film Festival 2008 - Pagina 4

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Antalya Film Festival 2008
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L’ultimo boia
L’ultimo boia
Qualche nota, per completezza d’informazione, su altri titoli in cartellone non particolarmente esaltanti. Son Cellar (L’ultimo boia) di Þahin Gök è un film vecchia maniera, con attori che gigioneggiano per far dimenticare una cronica inespressività e interpretano una storia vecchiotta e prevedibile sin dall’inizio, per giunta raccontata in modo tradizionale. Siamo nel periodo in cui, a seguito del colpo di stato del 1980, il paese è governato dai generali. Un Pubblico Ministero, cui i soldati hanno ucciso un figlio, militante di sinistra, finisce in galera ingiustamente accusato di aver ucciso un militare. In prigione ha modo di affezionarsi e proteggere un poveraccio, anch’egli falsamente imputato della morte della moglie e dell’amante. Il disgraziato, attorno a cui ruota il film, accetta di fare il boia pur di essere liberato; toccherà proprio a lui impiccare l’ex – magistrato. La storia è raccontata in modo sommario e non sfugge ad una sostanziale ambiguità politica, invocando genericamente democrazia e giustizia senza neppure tentare uno sguardo un poco più ampio e motivato. In questo modo la grossolanità del disegno psicologico si somma ad una genericità alquanto fastidiosa, resa ancor più insopportabile da una diffusa falsificazione di ambienti (mai viste carceri più linde e guardiani più comprensivi) e situazioni che diventano insopportabili, ad esempio, nelle sequenze degli interrogatori da parte dei militari golpisti la cui massima violenza si sfoga in qualche schiaffone. In poche parole un film mal costruito e sostanzialmente mistificante.
Tre mele sono piovute dal cielo
Tre mele sono piovute dal cielo

Gökten üç elma düþtü (Tre mele sono piovute dal cielo), opera prima di Raþ¡t Çelikezer è un film modesto pieno di luoghi comuni che vanno dall’ex-militare burbero che, alla resa dei conti, si rivelerà comprensivo, alla giovane prostituta per ragioni economiche, al ragazzo sbandato, ma che, al momento opportuno, sa essere attivo e saggio. In film come questo la storia, con tanto di ambiguo lieto fine – un omicidio è stato compiuto ed occultato – non conta molto. Importa, piuttosto, la prevedibilità dei personaggi e la superficialità della descrizione delle psicologie. Inutile cercare, nelle quasi due ore di proiezione, il più timido aggancio alla realtà o la minima riflessione sociale, politica o estetica. Tutto è sulla superficie dello schermo e scorre insapore verso un giusto oblio.
Il messaggero
Il messaggero

Ulak (Il messaggero) di Çaǧan Irmak appartiene al filone del cinema turco che, se non si può dire islamico in senso stretto, tuttavia concede molto spazio al religioso, magari pescando dalla tradizione cristiana mescolata con elementi mussulmani. Un cantastorie arriva in un villaggio dalla collocazione geografica imprecisata in un tempo ugualmente non definito, per raccontare storie ai bambini e metterli in guardia contro i cattivi che hanno ucciso i veri profeti. Una tragedia arrivata dall’esterno sterminerà tutti, salvando la vita solo ai piccoli e a pochi adulti che, seguendo un detto evangelico (lasciate che i piccoli vengano a me), fuggiranno verso la luce lasciandosi alle spalle distruzione e morte. Un racconto pieno di simboli buoni a vari usci e, per questo, generici più che interessanti. Un film di grande produzione, girato in modo abbastanza claustrofobico e dal discorso decisamente ambiguo.