Antalya Film Festival 2008

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Antalya Film Festival 2008
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I premi
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ImageIl festival del cinema di Antalya è una delle maggiori rassegne turche di film e fra le più importanti del bacino mediterraneo. Per la verità si dovrebbe parlare dei festival del cinema di questa città, visto che alla manifestazione di vecchia data – quest’anno ha segnato la 45ma edizione – rivolta alla produzione nazionale da quattro anni se n’è aggiunta una seconda, Eurasia Film Festival, di respiro internazionale. Nonostante questo sdoppiamento la parte che continua a raccogliere il maggiore interesse è proprio quella destinata al cinema turco che, quest’anno, si è rivelato particolarmente ricco di titoli interessanti. Ve diamone alcuni tenendo anche conto dei premi assegnati dalle tre giurie ospitate dalla manifestazione: quella che doveva assegnare i maggiori premi, quella della critica internazionale e quella per la produzione nazionale.
Il mercato – Un racconto sul commercio
Il mercato – Un racconto sul commercio
Il maggior riconoscimento della sezione nazionale, quello per la migliore sceneggiatura e quello per il miglio interprete, Tayanç Ayaydýn, sono andati a Pazar - Bir ticaret masali (Il mercato – Un racconto sul commercio) dell’inglese, ma attivo nel cinema turco Ben Hopkins. Il film è girato in Turchia, interpretato da attori turchi, coprodotto da un’azienda locale ed è opera d’indubbio interesse. Vi si raccontano le difficoltà, i traffici e i crimini cui ricorre un piccolo mercante che, pur di riuscire ad aprire un negozio di telefonini, non esita a derubare il dispensario di un ospedale e a sottomettersi ad una banda criminale. La forza del film è nella descrizione, minuta e tutt’altro che retorica, del tortuoso percorso imposto dalla ricerca di un benessere anche se miserabile e limitato. In questo modo la regia sviluppa un discorso lucido e attuale sulla condizione di migliaia di esseri umani costretti a agire in modo banditesco pur di sopravvivere nella terribile lotta imposta dalle condizioni economiche. Un tema che si salda con uno sguardo sofferto e ammirato su un paesaggio infernale, ostile e indifferente ai drammi degli uomini. Un atro punto di forza è nell’interpretazione Tayanç Ayadin che misura toni e gesti in modo da non trasformare il suo personaggio né in un martire né in malfattore d’impronta tradizionale.
Punto
Punto
Vari riconoscimenti – premio della giuria della critica internazionale, premio speciale, miglior regia, migliore musica, miglior sonoro decretati dalla giuria principale – sono andati a Nokta (Punto) con cui Derviş Zaim prosegue il discorso avviato cineasta con Canneti beklerker (Aspettando il Paradiso, 2006). Un canovaccio che lega religione e sensi di colpa. Il film inizia in un’era lontana, attorno al 1400, quando i mongoli invasero la Turchia. In un deserto di sale un calligrafo, che ha scritto alcune parole sacre sul terreno, rifiuta di mettersi in salvo sin che suo figlio non gli porterà l’inchiostro necessario a completare le parole tracciate disegnando il puntino mancante a una lettera. Salto ai giorni nostri, sempre nello stesso deserto, ove un giovane studioso di calligrafia subisce violenze e muore per aver commesso un crimine religioso e civile: con un complice ha rubato e cercato di rivendere un prezioso Corano. Il film è girato con un numero limitato di piani sequenza, interamente nella solitudine del deserto e non risparmia scene cruente. La costruzione è sapiente e ben orchestrata, gli interpreti abbastanza bravi, il senso complessivo del film oscilla fra una sorta di forte religiosità – chi attenta alle cose sacre mal gliene incoglie – e un discorso quasi dostoevskiano sul delitto e il castigo. La cosa più interessante è l’abilità della regia nel condurre il racconto utilizzando quasi solo piani sequenza e immagini in campo medio. Altro punto di forza l’utilizzazione simbolico – narrativa del paesaggio. Convince meno l’esplosione di violenza che punteggia il finale, peraltro con toni più simbolici che realisti. In poche parole un film interessante da un punto di vista linguistico, ma non privo di ambiguità tematiche.
I bambini dell’altra parte
I bambini dell’altra parte
Il cartellone di quest’anno ha visto l’esordio di un numero notevole di nuovi cineasti, quello che ha ottenuto il premio riservato alla migliore opera prima è stato Aydýn Bulut, autore di Başka semtin çocuklari (I bambini dell’altra parte). E’ un testo che potremmo definire di tradizione güneyana, nel senso che mette assieme argomenti politici di grande peso – la guerra curda, il reducismo, la delinquenza, la miseria, la corruzione politica – inserendoli in un tessuto di cinema popolare gangsteristico con personaggi appena abbozzati, storia a forti tinte, accumulo di scontri sanguinolenti. A voler essere pignoli si potrebbe citare persino il western all’italiana, tenuto conto del duello finale in cui entrambi i contendenti soccombono. La storia è quella di un reduce deciso a vendicare il fratello che crede essere stato ucciso da un altro ex – militare e che, invece, è stato ammazzato per gelosia da un amico. Attorno ci sono storie di donne contese o desiderate, fratelli malvagi e trafficanti vari. In poche parole siamo sulla linea del cinema turco degli anni settanta e tale è anche il tono del colore, slavato e approssimativo, così come vari altri elementi tecnici. Un giudizio complessivo non può prescindere dalla generosità degli intenti e dal possibile impatto popolare, anche se molta acqua è passata sotto i ponti dagli anni d’oro del cinema di Yilmaz Güney. In sintesi un film che ha il gusto di cose vecchie, generose e sorpassate.

Il mio solo raggio di sole
Il mio solo raggio di sole
Nella parte più anziana della manifestazione, 45mo Golden Orange Film Festival, ha coronato Hayat var (Il mio solo raggio di sole) di Reha Erdem, una delle voci più interessanti e autentiche del cinema turco contemporaneo. Lo si era capito ai tempi di Beş Vakit (Tempi e venti, 2006), lo conferma questo nuovo lavoro in cui si racconta la terribile infanzia di una quattordicenne che vive con il padre e un nonno rancoroso costretto a letto da una grave malattia. La madre si è risposata con un poliziotto, da cui ha avuto un altro figlio, e compare saltuariamente in una casa che sta letteralmente andando in rovina. Il genitore possiede una piccola barca con cui percorre il Bosforo facendo commerci minuti con i marinai delle navi alla fonda. Sono traffici, il più delle volte, illegali che lo porteranno ad essere arrestato. Abbandonata a sé stessa Hayat, questo il nome della ragazzina, è costretta a difendersi dalle aggressioni sessuali degli adulti e a scoprire i primi segni di una sessualità limpida quanto compromessa dall’ambiente in cui è costretta a vivere. La liberazione, l’unico raggio di sole, nascerà dal rapporto con un coetaneo con cui fuggirà verso il mare aperto. Lo stile di questo cineasta è lento e dettagliato, non ha fretta di precorrere gli eventi, segue lo scorrere del tempo reale registrando con minuzia e lucidità ciò che si sviluppa con il procedere della storia. Non esprime giudizi su questa umanità derelitta e miserabile, che vive accanto e sul mare con, all’orizzonte, il panorama di Istanbul, una città impassibile e irraggiungibile che sembra appartenere ad un altro mondo. Il suo è un cinema della realtà, ricco di piccole, fondamentali osservazioni come quella che registra, periodicamente, i calci che la ragazzina infligge ad un tacchino: unico essere che le è inferiore e su cui può spadroneggiare. In questo raccontare disteso il regista eccede, qualche volta, in ripetizioni, ma, nel complesso, ci consegna un film di grande valore e commozione.
Autunno
Autunno
Un secondo importante riconoscimento, il Premio SIYAD, è stato assegnato a Üç maymun (Tre scimmie) di Nuri Bilge Ceylan di cui abbiamo parlato sia dal festival di Cannes, ove ha ottenuto il premio per la migliore regia, sia al momento della sua uscita sugli schermi italiani. Un altro alloro, il Premio NETPAC, ha coronato Sonbahar (Autunno), opera prima di Özcan Alper, un ottimo film che affronta con giusta misura temi drammatici. Il ventiduenne Yusuf è stato condannato, nel 1997, a dieci anni di prigione per aver partecipato ad un movimento comunista. Scontata la pena, nel corso della quale ha subito enormi vessazioni e ha partecipato ad uno sciopero della fame che lo ha minato irrimediabilmente nel fisico, ritorna a vivere con la madre in montagna, vicino ad una città che si affaccia sul Mar Nero. Qui ritrova un antico compagno d’infanzia e conosce una giovane prostituta georgiana che fa il mestiere per mantenere il figlioletto che ha lasciato in patria. Fra i due nasce, progressivamente, un legame sentimentale destinato a non avere sbocco: la donna ritornerà in Georgia e lui morirà. Il film mette in campo numerosi temi: dalla delusione per le speranze rivoluzionarie e giovanili, alla durezza del mondo post - sovietico. A questo proposito vale la pena citare una battuta del dialogo che sintetizza assai bene il dramma di un’intera generazione. Dice la donna che è nata in regime realsocialista, “E tu hai fatto dieci anni di prigione perché volevi il comunismo?”. Il racconto è pervaso da un senso di malinconia e frustrazione che non lascia spazio a speranze di sorta, solo il nipote del protagonista, che vuol diventare medico, accende un piccolo bagliore in una situazione plumbea. Il regista evita ogni pessimismo di maniera mostrando lo sguardo forte e lucido di chi sa vedere la realtà senza pregiudizi. Altri due elementi di pregio li offrono una fotografia davvero eccezionale, ma questo è un dato ormai accertato per gran parte del cinema turco, e un’utilizzazione narrativa del paesaggio che rafforza e rende ancor più drammatico l’intero discorso.
Il vaso di Pandora
Il vaso di Pandora
Vari altri titoli hanno ottenuto riconoscimenti per aspetti artistici specifici vediamone alcuni. Il riconoscimento alla miglior attrice protagonista è andato a Övül Avkýran, interprete di Pandora’nin Kutusu (Il vaso di Pandora) di Yeşim Ustaoǧlu, una regista di grande forza e prestigio. Il suo secondo film, Güneşe yolculok (Viaggio verso il sole) una delle prime opere turche che affrontavano il dramma delle persecuzioni cui è sottoposto il popolo curdo, ha destato molto interesse e raccolto allori in moltissimi festival. Questo suo ultimo lavoro, coronato con il massimo premio dell’ultimo Festival di San Sebastian, mette al centro il dramma dell’Alzheimer e lo fa con toni che evitano sia il facile sentimentalismo, sia il melodramma. Un’anziana che vive in campagna si ammala di questa terribile forma di demenza senile, le figlie, che abitano da tempo in città, tentano inutilmente e commettendo errori su errori, di assisterla. Solo un nipote saprà capirla e accompagnarla con dolcezza verso una fine a mezzo fra l’eutanasia e il ricongiungimento con la natura. Il film è costruito molto bene e girato con abilità, sfruttando al meglio la duttile arte della novantenne attrice francese Tsilla Chelton. Ne emerge un racconto toccante e realistico, un quadro in cui il dolore per la malattia si mescola ad un forte senso di accettazione del termine della vita.

Coscienza
Coscienza
Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral è un melodramma a forti tinte in cui ritroviamo molti fra i personaggi che hanno reso famoso il genere: il ben maliardo che perde la testa per amore, la moglie che si vendica dei ripetuti adulteri del marito, l’ambiente torbido dei locali notturni, i colpi di scena a ripetizione, le scene madri, gli atteggiamenti gridati. Ci sono amatori di questo tipo di film, ma noi non siamo fra questi, anche perché ci aspettiamo sempre un distacco netto fra la direzione e il ribollire della materia. In questo caso, invece, si ha la netta sensazione di un’adesione pressoché totale del sentire del cineasta ai materiali che ha per le mani, un processo d’identificazione che inquina la lucidità della regia marcando una forte distanza dalla lucidità politica che arricchisce i suoi primi film. Ci riferiamo, in modo particolare, allo splendido Hakkai’de bir mevsim (Una stagione nell’Hakkari, 1983) in cui, anche grazie alla forte sceneggiatura di Onat Kutlar e della lucidità del racconto di Ferit Edgü da cui il film prendeva le mosse, si è potuto parlare a ragione di nuovo cinema turco. La storia raccontata questa volta mette assieme luoghi comuni del genere: la moglie tradita che intreccia una relazione con la rivale, il bel tenebroso che perde la testa per la bella di turno sino a giungere all’omicidio, il mondo ambiguo dei locali notturni si second'ordine. Il tutto raccontato, recitato e costruito in modo volutamente sopra le righe, senza un filo d’ironia. E’ questa mancanza di una qualsiasi forma di distacco dal narrato a costituire il maggiore, imperdonabile, difetto del film.
Il mio Marlon e Brando
Il mio Marlon e Brando

Gitmek (titolo internazionale: Il mio Marlon e Brando), primo lungometraggio di Hüseyin Karabey è un film profondamente politico basato su una storia vera che racconta una bella storia d’amore inserendola armoniosamente in un contesto tragico: lo scoppio della seconda guerra irakena, vista nei territori curdi di confine fra Turchia, Iran e Iraq. Una donna corpulenta, simpatica e umanissima, ama un irakeno e tenta di raggiungerlo passando per il territorio iraniano. Arriverà all’appuntamento, ma rimarrà sola perché l’amato è morto nel tentativo di fuggire dal paese in fiamme. Il tema personale – la storia d’amore – s’intreccia con il terrore della guerra, la repressione della polizia, la scomparsa di ogni speranza. Le sequenze in Iran, con la protagonista guardata dagli uomini come un animale strano perché viaggia da sola, valgono più che un intero saggio sull’oppressione della donna. Un film intelligente, forte e coraggioso che grava quasi per intero sulle spalle di Ayça Damgaci che dimostra come una vera attrice non abbia bisogno dell’avvenenza fisica per mostrare la sua arte.
Il libro dei compiti per le vacanze
Il libro dei compiti per le vacanze
Fra i titoli non premiati, ma che hanno molto interessato vale la pena citare almeno Tatil kitabi (Il libro dei compiti per le vacanze), primo lungometraggio del trentunenne Seyfi Teoman. Vi si sente l’influenza del cinema di Reha Erdem sia per i tempi distesi del racconto, sia per l’occhio complice e sentimentale con cui guarda al mondo della campagna, ai suoi riti, alla dura fatica che impone a chi vi abita. La storia raccontata è semplice: nel corso di una calda estate un piccolo imprenditore è colpito da emorragia celebrare e muore, il fratello ne prende in mano gli affari e, con molta ragionevolezza, mette a posto le cose. Convince il figlio maggiore a continuare a frequentare la scuola militare, difende il più piccolo dalla sopraffazione dei compagni, tranquillizza la moglie sulla fedeltà del defunto, rimette in moto l'azienda. E' un tipo di cinema che sembrerebbe fatto di niente, ma che, in realtà, dovrebbe essere ricco di piccole, importantissime lezioni di vita. E’ proprio su questo versante che la regia mostra preoccupanti cigolii. Il ritratto dei personaggi, infatti, è spesso affidato più al bozzetto che al disegno sapiente ed accurato, allo stesso modo il dolore e le gioie legate a questa vita difficile sono più suggerite che realmente espresse. In altre parole il film promette assai più di quanto in realtà non conceda, lasciando lo spettatore perplesso e, in parte, deluso.

L’ultimo boia
L’ultimo boia
Qualche nota, per completezza d’informazione, su altri titoli in cartellone non particolarmente esaltanti. Son Cellar (L’ultimo boia) di Þahin Gök è un film vecchia maniera, con attori che gigioneggiano per far dimenticare una cronica inespressività e interpretano una storia vecchiotta e prevedibile sin dall’inizio, per giunta raccontata in modo tradizionale. Siamo nel periodo in cui, a seguito del colpo di stato del 1980, il paese è governato dai generali. Un Pubblico Ministero, cui i soldati hanno ucciso un figlio, militante di sinistra, finisce in galera ingiustamente accusato di aver ucciso un militare. In prigione ha modo di affezionarsi e proteggere un poveraccio, anch’egli falsamente imputato della morte della moglie e dell’amante. Il disgraziato, attorno a cui ruota il film, accetta di fare il boia pur di essere liberato; toccherà proprio a lui impiccare l’ex – magistrato. La storia è raccontata in modo sommario e non sfugge ad una sostanziale ambiguità politica, invocando genericamente democrazia e giustizia senza neppure tentare uno sguardo un poco più ampio e motivato. In questo modo la grossolanità del disegno psicologico si somma ad una genericità alquanto fastidiosa, resa ancor più insopportabile da una diffusa falsificazione di ambienti (mai viste carceri più linde e guardiani più comprensivi) e situazioni che diventano insopportabili, ad esempio, nelle sequenze degli interrogatori da parte dei militari golpisti la cui massima violenza si sfoga in qualche schiaffone. In poche parole un film mal costruito e sostanzialmente mistificante.
Tre mele sono piovute dal cielo
Tre mele sono piovute dal cielo

Gökten üç elma düþtü (Tre mele sono piovute dal cielo), opera prima di Raþ¡t Çelikezer è un film modesto pieno di luoghi comuni che vanno dall’ex-militare burbero che, alla resa dei conti, si rivelerà comprensivo, alla giovane prostituta per ragioni economiche, al ragazzo sbandato, ma che, al momento opportuno, sa essere attivo e saggio. In film come questo la storia, con tanto di ambiguo lieto fine – un omicidio è stato compiuto ed occultato – non conta molto. Importa, piuttosto, la prevedibilità dei personaggi e la superficialità della descrizione delle psicologie. Inutile cercare, nelle quasi due ore di proiezione, il più timido aggancio alla realtà o la minima riflessione sociale, politica o estetica. Tutto è sulla superficie dello schermo e scorre insapore verso un giusto oblio.
Il messaggero
Il messaggero

Ulak (Il messaggero) di Çaǧan Irmak appartiene al filone del cinema turco che, se non si può dire islamico in senso stretto, tuttavia concede molto spazio al religioso, magari pescando dalla tradizione cristiana mescolata con elementi mussulmani. Un cantastorie arriva in un villaggio dalla collocazione geografica imprecisata in un tempo ugualmente non definito, per raccontare storie ai bambini e metterli in guardia contro i cattivi che hanno ucciso i veri profeti. Una tragedia arrivata dall’esterno sterminerà tutti, salvando la vita solo ai piccoli e a pochi adulti che, seguendo un detto evangelico (lasciate che i piccoli vengano a me), fuggiranno verso la luce lasciandosi alle spalle distruzione e morte. Un racconto pieno di simboli buoni a vari usci e, per questo, generici più che interessanti. Un film di grande produzione, girato in modo abbastanza claustrofobico e dal discorso decisamente ambiguo.

Il regalo per Stalin
Il regalo per Stalin
Veniamo ora alla parte internazionale parlando brevemente di alcuni titoli. Podarok na stalinu (Il regalo per Stalin) del kazako Rustem Abdrashev è uno di quei film generosi nelle intenzioni quanto schematici nella confezione. Siamo nel 1949, quattro anni prima della morte del dittatore sovietico, in uno sperduto paese del Kazakistan fra deserto, mandrie di pecore e una ferrovia che sembra congiungere due lembi dell’orizzonte. Qui un ex-combattente della seconda guerra mondiale, ove ha perduto un occhio, lavora come manovale addetto ai binari. Un giorno, da uno dei tanti terni di deportati (ebrei, nazionalisti, elementi antipartito vari) è calata, fra le altre, la salma di un piccolo israelita. Il ferroviere si accorge subito che il bimbo è ancora vivo e lo sottrae agli aguzzini trasformandolo in un nipote acquisito. Il film ruota attorno a questo rapporto bimbo – anziano, entrambi privi di qualsiasi altra parentela. Fanno da coro un medico polacco internato perché dissidente, una ragazza, anche lei ex – detenuta, sistematicamente violentata dal poliziotto locale e dall’ufficiale in capo al distaccamento militare che controlla la regione. Il film ritrae questo panorama doloroso le cui stazioni sono cadenzate dai ricordi del bimbo che, divenuto anziano, è emigrato in Israele. E’ un lavoro politicamente appassionato e apertamente schierato che non esita a collocare tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. A questo proposito fanno testo le immagini degli uomini di potere: violenti, razzisti, stupratori. Nel finale un vento tempestoso, scatenato dal primo esperimento nucleare sovietico, esploso lì vicino, spazza ogni cosa quasi a simboleggiare la tempesta che sta per abbattersi su tutto e tutti negli ultimi anni della dittatura stalinista. Una scelta che ha più il valore di una trovata di regia che non l’esemplificazione di un tema motivato e pregante.
Sogno
Sogno
Il sud coreano Kim Ki Duk è fra gli autori più amati e più evitati dai critici. Il suo cinema è costruito su una grande raffinatezza formale unita a improvvisi scarti grandguignoleschi. Sono elementi che si ritrovano anche in questo Bi-mong (Sogno) con l’aggiunta di una robusta vena fantastico - surreale. Un giovane artista sogna di essere il responsabile di un grave incidente stradale, causato, mentre seguiva l’auto di una sua ex fidanzata. Tuttavia il mezzo responsabile del fatto risulta, inequivocabilmente, guidato da una donna affetta da gravi turbe mentali e sonnambulismo. Inizia a questo punto una complessa vicenda in cui l’uomo e la donna scoprono che, quando si addormentano, sognano gravi disgrazie in cui sono entrambi sono destinati ad essere coinvolti. La soluzione sembra essere quella di dormire uno per volta, ma neppure il dolore causato da gravi automutilazioni impedisce all’uomo di addormentarsi e spingere la ragazza al suicidio. Si ucciderà anche lui e solo in questo modo si unirà all’amata che ha assunto, temporaneamente, la forma di una farfalla. Non tutto è chiaro in un film che non è fra i migliori di questo autore e in cui circola troppa violenza fine a se stessa. La mano del grande regista si scorge facilmente dietro non poche sequenze, quella finale in modo particolare, ma nel complesso il film non convince.
Più tardi capirai…
Più tardi capirai…

Plus tard, tu comprendras… (Dopo capirai…) è l’ultima fatica dell’israeliano Amos Gitai che ha portato sullo schermo il libro autobiografico del francese Jérôme Cléments. E’ un testo sul ricordo dell’Olocausto e sul senso di smarrimento legato al riaffiorare nella memoria delle terribili sofferenze e delle scelte crudeli che molti sono stati costretti a compiere. Il filo conduttore è offerto da un funzionario che scopre fra le carte della madre, gravemente ammalata, le prove della decisione lacerante che suo nonno ha dovuto fare per salvare la figlia. Solo la morte dell’anziana lenirà, forse, il dolore, ma sarà sufficiente che la storia sia riaperta per ragioni burocratiche per far divampare nuovamente la disperazione. Non è l’opera migliore del regista israeliano, vi si sente un che di artificioso dovuto, con tutta probabilità all’essere costretto entro i binari di un’opera già costruita, il libro autobiografico di Jérôme Clément, ma anche una struttura narrativa eccessivamente intellettualizzata e, nello stesso tempo, troppo frammentaria. Il dato più importante è un dolore e una malinconia del vivere oppressi dal peso di un passato che troppi hanno frettolosamente dimenticato, ma che minaccia di ritornare ancor più violento ed esteso.
Il nido vuoto
Il nido vuoto

El nido vacio (Il nido vuoto) del regista e produttore l’argentino Daniel Burman rappresenta un passo falso nella filmografia di un autore che ha dato migliori prove con Un crisantemo estalla en Cincoesquinas (Un crisantemo esplode in Cincoesquinas, 1998) e Todas las azafatas van al cielo (Tutte le hostess vanno in cielo, 2002). Qui siamo davanti ai triboli e ai pruriti erotici di un maturo commediografo in crisi creativa, turbato dalla sempre maggiore indipendenza dei figli e dal desiderio della moglie di farsi una vita propria. Un terreno già più volte arato che non rivela nulla di nuovo se non una crescere, irrefrenabile di noia.

Mukha
Mukha

Mukha è il film d’esordio del giovane russo Vladimir Kott che, con quest’opera, ha già vinto due premi prestigiosi: quello del festival di Shanghai e quello della rassegna del cinema per ragazzi di Zlín. E’ difficile concordare con i giurati di quelle manifestazioni, in quanto il testo appare inesorabilmente prevedibile nel racconto e vecchiotto nello stile. E’ la storia dell’incontro fra un camionista e una ragazza ribelle, che l’adulto accetta come figlia, anche se la relazione che ha avuto anni addietro con la madre è stata del tutto platonica. Dovrebbe essere il ritratto sia di una gioventù insoddisfatta e ribelle sia quello di un rapporto difficile che finisce per restituire a due esseri umani un nuovo senso della vita. Dovrebbe, ma tutto rimane a livello di superficie, di facile prevedibilità, mentre il suggestivo paesaggio della provincia russa, con le sua miseria e arretratezze, non è sfruttato neppure per un momento. Ciò che resta è una buona professionalità cui, tuttavia, mancano completamente idee originali. Il solo dato veramente positivo è nell’interpretazione della ventiduenne Alexandra Tyufey i cui scatti d’umore esemplificano bene il carattere del personaggio. Il suo partner, Alexey Kravchenko, precipita, invece, nella maniera più convenzionale e si fa notare solo per il ricordo di, quando, ancora bambino, esordì nello straordinario Idi i smotri (Va e guarda, 1985) di Elem Klimov.
Roman Polanski: ricercato e desiderato
Roman Polanski: ricercato e desiderato
Con Roman Polanski: Wanted and Desired (Roman Polanski: ricercato e desiderato) la documentarista Marina Zenovich ha realizzato un’approfondita inchiesta sulla vicenda che ha coinvolto, nel 1977, il famoso regista franco - polacco, quando fu accusato di ogni turpitudine nei confronti di una tredicenne che stava fotografando per conto della rivista Vogue. Il cineasta ha dato risposte contraddittorie a chi gli chiedeva come erano andate realmente le cose: ha ammesso un rapporto sessuale, ma ha sempre negato stupro e violenza. Fatto sta che, dopo molti mesi di iter giudiziari, compreso il soggiorno forzato in un centro d’esame mentale, decide di fuggire a Parigi, ove fu accolto con ogni onore. Non è mai più ritornato negli Stati Uniti, ove pende tutt’ora un processo nei suoi riguardi, neppure nel 2003, in occasione dell’assegnazione del Premio Oscar al suo film Il pianista (The Pianist, 2002). La regista ricostruisce queste complesse vicende facendo ricorso a testimonianze e materiali d’epoca e disegnando un quadro complesso e intrigante che non prende apertamente parte per il regista, ma svela i tortuosi meccanismi della giustizia americana, con tanto di decisioni prese più per soddisfare la sete dei media che non quella della legge. Un bel documentario intelligentemente costruito e obiettivo, quanto può esserlo qualsiasi presa di posizione umana.
Fiamma & Limone
Fiamma & Limone

Flammen & Citronen (Fiamma & Limone) del danese Ole Cristian Madsen è un polpettone hollywoodiano – televisivo in cui si raccontano le gesta e la morte di due eroi della Resistenza danese che, nel 1944, tennero in sacco per molti mesi i nazisti, giustiziando collaborazionisti, spie e ufficiali dei servizi investigativi dell’esercito occupante. Presi in giochi più grandi di loro, fra interessi dei fuorusciti di Londra, agenti doppiogiochisti e ambigui politicanti furono uccisi nel corso di due cruente incursioni naziste che misero a ferro e fuoco le case in cui si erano rifugiati. In verità uno solo di loro morì per il piombo tedesco, l’altro riuscì a suicidarsi prima di essere catturato. Il film è un grande spettacolo pieno di botti e colpi di scena, qualche sequenza blandamente erotica e molti momenti d’azione. Un prodotto destinato sia al consumo meno esigente, sia ad un facile uso televisivo. In ogni caso poco a che fare con un grande Festival di Cinema.
Genova
Genova
L’inglese Michael Winterbottom è autore prolifico e molto discontinuo. La sua filmografia conta ben trenta titoli, fra film per il grande schermo e lavori televisivi, in meno di vent’anni. Una massa tanto imponente, cui si aggiunge, in alcuni casi, anche l’impegno nella produzione e nel montaggio, non poteva sfuggire al rischio dell’andamento a singhiozzo. Infatti, in questo elenco vi sono titoli importanti, come Butterly Kiss - Il bacio della farfalla (Butterfly Kiss, 1995) e Cose di questo mondo (In This World, 2002), testi interessanti per la sperimentazione linguistica che contengono (24 Hour Party People, 2002 - 9 Songs, 2004) e opere decisamente minori se non trascurabili. Genova appartiene a queste ultime, sia per la superficialità con cui tratteggia la psicologia dei personaggi, sia per lo sguardo, fra il turistico e il coloniale, con cui osserva la grande città mediterranea. Un padre e le due figlie, colpiti da poco da un grave lutto: la madre è morta in un incidente d’auto causato – in parte – dalla più giovane delle ragazze, decidono di passare un’estate a Genova ove il vedovo ha l’occasione di tenere un corso di letteratura inglese. I caldi mesi estivi serviranno per elaborare adeguatamente il lutto da parte di tutti e per consentire alla maggiore delle ragazze di scoprire la propria sessualità. In opere di questo tipo le cose che contano maggiormente sono il tratteggio delle psicologie e lo stile con cui la storia è narrata. Sono proprio questi due elementi che fanno difetto al film, con personaggi disegnati con l’accetta e con una raffigurazione visiva che oscilla fra il turistico e banale. In poche parole un film mancato sotto molti punti di vista.
Dean Spanley
Dean Spanley
Toa Fraser, inglese di famiglia originaria delle isole Fiji, ha tratto Dean Spanley da un libro di Lord Dunsany, ne è nato un film pesante, dal greve andamento teatrale, pieno di dialoghi e povero di cose da guardare, ricco di trovarobato e del tutto scollegato al clima, l’Inghilterra edoardiana del 1904. Un anziano bislacco disprezza il figlio, causa del ricordo che ha del gemello, morto nella guerra con i boeri. Un giorno i due incontrano uno strano religioso che parla loro della metempsicosi e dichiara di esserne un testimone diretto, avendo vissuto una precedente esistenza come cane. La cosa commuove l’anziano e lo riconcilia con il figlio superstite. Come già detto molte parole, sfoggio di gigioneria da parte di Peter O’Toole un mare di noia.
Il canto del passero
Il canto del passero

Avaze gonjeshk-ha (Il canto del passero) di Majid Madidi ha vinto l’Orso d’Argento all’ultimo Festival di Berlino e la cosa ha suscitato interesse in quanto da molto tempo il cinema iraniano non presentava opere di rilievo. Infatti, sono note le dure condizioni cui devono sottostare gli artisti in quel paese, ove i dettami integralisti religiosi la fanno da padroni, soprattutto in attività come il cinema che, per vivere, hanno bisogno di un diretto rapporto con il potere e la finanza pubblici. Visto il film, si capisce perché lo si è lasciato produrre e le ragioni della giuria berlinese. La storia che scorre sullo schermo è quella, intrisa di toni neorealisti filtrati attraverso l’esperienza del cinema popolare di Yilmaz Güney, della vita grama di un padre di famiglia che lavora in una fattoria in cui si allevano struzzi e che è licenziano perché se n’è lasciato scappare uno. In cerca di lavoro scopre di guadagnare assai di più facendo il guidatore di moto taxi. Nello stesso tempo suo figlio ha deciso di impiantare, con alcuni amichetti, un allevamento di pesci in una vecchia cisterna. La sete del successo economico spingerà genitore e figlio a impegnarsi appassionatamente nelle nuove attività che si riveleranno assai meno facili di quanto immaginato da entrambi. La parte migliore è nella descrizione del lavoro del guidatore di motocicletta nel traffico della grande città, in lite continua con gli altri motociclisti, e nella descrizione dei rapporti con clienti spesso arroganti. Ciò che suscita non poche perplessità è la filosofia di fondo, che sembra persa di peso da quella cattolica (il denaro è lo sterco del Diavolo) unita ad uno sguardo eccessivamente consolatorio - rassegnato sulla sorte degli umili. Il bilancio complessivo, tuttavia, segnala un’opera interessante e, in molti momenti, appassionante, girata con grande abilità e con un interprete, Mohammad Amir Naji, di grande intensità.

Khamsa
Khamsa
RICONOSCIMENTI SPECIALI.
Premio alla carriera: Yılmaz Atadeniz
Premio al successo: Hülya Avşar
Premi onorari: Kevin Spacey, Paul Verhoeven, Maximilian Schell, Zbigniew Preisner, Michael York.
Premi per il contributo dato all’arte del cinema: Mickey Rourke, Marisa Tomei, Adrien Brody, Michael J Werner per Fortissimo Films.
Premio alla memoria: Müşfik Kenter
Premio per il lavoro svolto nell’industria del cinema: Aydın Mesut Yurteri.
Premio per la scenografia del festival: Filiz Akın.
4° INTERNATIONAL EURASIA FILM FESTIVAL
Miglior film: Khamsa di Karim Dridi
Miglior regista: Aruitemo aruitemo (Anche se continua a camminare) di Hirokazu Koreeda.
Premio SIYAD: Üç maymun (Tre scimmie) di Nuri Bilge Ceylan.
Premio NETPAC: Sonbahar (Autunno) di Özcan Alper.
Premio giuria della critica: Nokta (Punto) di Derviş Zaim.
Premi alla cultura e all’arte del Ministero della coltura e il turismo della repubblica turca: Muhterem Nur, Eşref Kolçak, Yücel Çakmaklı.
Premio per lo sviluppo di sceneggiature in coproduzione: A Handful of Fate (Una manciata di destini) di Ali Vatansever.
Premi della sezione competitiva nazionale
Miglior film: Pazar - Bir ticaret masali (Il mercato – Un racconto sul commercio) di Ben Hopkins.
Premio speciale della giuria: Nokta (Punto) di Derviş Zaim.
Premio al miglior esordiente: Aydın Bulut per Başka semtin çocuklari (I bambini dell’altra parte).
Miglior regista: Derviş Zaim per Nokta (Punto).
Miglior sceneggiatura: Ben Hopkins per Pazar - Bir ticaret masali (Il mercato – Un racconto sul commercio).
Migliore musica: Mazlum Çimen per la musica di Nokta (Punto) di Derviş Zaim.
Miglior attore: Tayanç Ayaydın interprete di Pazar - Bir ticaret masali (Il mercato – Un racconto sul commercio) di Ben Hopkins.
Miglior attrice: Nurgül Yeşilçay interprete di Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral.
Miglior attore non protagonista: Volga Tekinoğlu interprete di Gitmek ( titolo internazionale: Il mio Marlon e Brando) di Hüseyin Karabey e Başka semtin çocuklari (I bambini dell’altra parte) di Aydin Bulut.
Migliore attrice non protagonista: Övül Avkıran interprete di Kutusu (Il vaso di Pandora) di Yeşim Ustapǧlu.
Migliore fotografia e premio Kodak: Zekeriya Kurtuluş per la fotografia di Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral.
Miglior direttore artistico: Türker İşçi per la direzione artistica di Başka semtin çocuklari (I bambini dell’altra parte) di Aydin Bulut.
Miglior montaggio: Mustafa Preşeva per il montaggio di Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral.
Miglior sonoro: Kostasvi Variopiotis per il sonoro di Nokta (Punto) di Derviş Zaim.
Migliori effetti speciali: Burak Balkan per Üç maymun (Tre scimmie) di Nuri Bilge Ceylan.
Miglior lavoro di laboratorio: Fono Film per Gökten üç elma düştü (Tre mele sono piovute dal cielo) di Raş¡t Çelikezer e Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral.
Migliori costumi: Zeynep Sırlıkaya per Pazar - Bir ticaret masali (Il mercato – Un racconto sul commercio) di Ben Hopkins.
Miglior trucco e acconciature: Vesey Üsten per Vicdan (Coscienza) di Erden Kiral.
45mo ANTALYA GOLDEN ORANGE FİLM FESTIVAL
Miglior film narrativo – Premio SIYAD: Hayat var (Il mio solo raggio di sole) di Reha Erdem.
Miglior documentario: Adakale sözlerim çoktur (Storie di Adakale) di İsmet Arasan
Premio speciale della giuria: Nefes (Respiro) di Cüneyt Birol.
Miglior cortometraggio: Gemeinschaft (Comunità) di Özlem Akın.