Festival Internazionale del Film di Cannes 2015 - Pagina 5

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2015
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the-sea-of-treesIl Festival ha presentato, con buona accoglienza, il secondo film italiano in concorso Mia madre di Nanni Moretti, titolo già uscito in Italia e di cui abbiamo parlato abbondantemente. Sempre in concorso si è visto The Sea of Trees (Il mare di alberi) dell’americano Gus Van Sant, opera molto attesa e che ha deluso in parte i fan di questo autore che sembra aver abbandonato la strada impervia e scabrosa segnata da opere come Elephant (2003) o Milk (2008). Qui il filo conduttore è quello del romanticismo e del sentimento sconfinante nel sentimentalismo. Uno scienziato americano, travolto dal dolore per la morte della moglie vittima di un incidente d’auto dopo essere sopravvissuta a una pericolosa operazione al cervello, decide suicidarsi nella foresta giapponese di Aokigahara, alle pendici del monte Fuji (ma il film è stato girato nel bosco di Worcester, in Massachusetts, negli Stati Uniti), luogo che Google definisce il miglior posto per morire. Arrivato a Tokyo con un biglietto di sola andata, il vedovo si fa portare in quella foresta per suicidarsi ingerendo la fatidica superdose di pillole. Ha appena iniziato a svuotare il flacone quando incontra un giapponese, anche lui sull’orlo del suicidio per essere stato declassato sul lavoro. Entrambi si avviano - fra ostacoli, cadute, intemperie varie – sui sentieri che attraversano la foresta. E’ l’occasione per l’americano di ripensare al rapporto con la moglie defunta e riconsiderare ogni giudizio e scelta. Il giapponese non riesce più ad andare avanti e l’altro lo lascia per cercare soccorsi. Quando li trova finisce in ospedale e chiede subito notizie del compagno di cui nessuno sa nulla e che i soccorritori non hanno trovato. Rimessosi dalle ferite ritorna nel mare di alberi e trova il punto in cui ha lasciato l’altro, solo che non c’è nessuna traccia umana, ma solo un’orchidea sbocciata dalla roccia. Ritornato negli Stati Uniti scopre che il nome e cognome che il giapponese gli aveva dato in realtà significano Giallo e Inverno, il colore e la stagione preferita dalla moglie defunta. In altre parole nulla scompare definitivamente, tutto resta con altra forma per cui anche la morte è solo una tappa nel divenire del mondo. Filosofia un po’ generica venata di una non piccola componente romantica per un film ben girato, ma sostanzialmente banale.
Nahid - In breveMolto migliore la scelta fatta dai selezionatori di Un Certain Regard che hanno presentato Nahid, primo lungometraggio narrativo dell’iraniana Ida Panahandeh. Nahid è una giovane divorziata che lotta con le unghie e con i denti per mantenere la custodia del figlio affidatole dalla sentenza di divorzio a patto che non si risposi. Costantemente in lotta per gli affitti non pagati, le marachelle del ragazzo e le proposte di matrimonio avanzate dai parenti, la giovane vorrebbe accettare la corte del suo datore di lavoro, ma teme di perdere il figlio. Quest’ultimo, non mostra né rispetto né affetto verso la madre preferendo la compagnia del padre naturale che continua a frequentare pessime compagnie e a non pagare i debiti di gioco. E’ il ritratto di una condizione femminile disperata e marginale, la precisa radiografia di uno dei punti di frattura di una società in bilico fra integralismo religioso e anelito alla modernità. Il cinema iraniano sta uscendo a fatica dalla cappa oppressiva che l’opprime dai tempi della presidenza (2005 – 2013) dell’integralista Mahmud Ahmadinejad (1965), quello che teorizzava la scomparsa dello Stato di Israele dalla carta geografica e ha di fatto emarginato le migliori forze del cinema iraniano. Oggi quel percorso sta mutando e film come questo, a cui vanno aggiunti vari altri titoli presenti e passati – da Lavagne (2000) di Samira Makhmalbaf, a Melbourne di Nima Javidi – indicano un punto dolente della struttura sociale del paese. Un punto di frattura che non può più rimanere in silenzio.