Festival Internazionale del Film di Cannes 2015

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2015
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Festlval di Cannes 2015

http://www.festival-cannes.com/fr.html

manifestoIl Festival del Film di Cannes, giunto quest'anno alla 68ma edizione si è ormai confermato come la più importante manifestazione filmica, sia da un punto di vista culturale sia mercantile, del vecchio conteninete. In oriente ha un peso maggiore quello si Shangai, mentre si sta affermando la rassegna di Pechino da quest'anno diretta, per quanto riguarda il versante internazionale, dall'italiano Marco Müller, ex responsabile della Mostra di Venezia e del Festival di Roma.

Sul fronte occidentale ha fatto enormi passi avanti la manifestazione canadese di Toronto che ha quasi del tutto superato per importanza mercantile il californiano American Film Market. Il Festival francese mantiene un costante primato a livello di commercio con un settore mercato sempre più ampio, mentre il suo peso artistico rivaleggia con la Mostra di Venezia, il cui mercato resta più a livello di buone intenzioni che non quello di cosa realizzata. In queste condizioni il programma delle varie sezioni assume un ruolo fondamentale. Per quest'anno il quadro complessivo è il seguente:

Film d’apertura          
Emmanuelle BERCOT LA TÊTE HAUTE (La testa alta)
 

Film in concorso
Jacques AUDIARD DHEEPAN (titolo provvisorio)    
Stéphane BRIZÉ  LA LOI DU MARCHÉ (La legge del mercato)       
Valérie DONZELLI MARGUERITE ET JULIEN (Margherita e Julien)    
Matteo GARRONE IL RACCONTO DEI RACCONTI
Todd HAYNES CAROL    
HOU Hsiao Hsien NIE YINNIANG (L’assassino)    
JIA Zhang-Ke SHAN HE GU REN (Le montagne possono dividersi)    
KORE-EDA Hirokazu UMIMACHI DIARY (La nostra sorellina)    
Justin KURZEL MACBETH     
Yorgos LANTHIMOS THE LOBSTER (L’aragosta)
MAÏWENN MON ROI (Mio Re)
Nanni MORETTI MIA MADRE
László NEMES SAUL FIA (Il figlio di Saul) Opera prima
Paolo SORRENTINO LA GIOVINEZZA
Joachim TRIER LOUDER THAN BOMBS (Più forte delle bombe)
Gus VAN SANT THE SEA OF TREES (Il mare d'alberi)
Denis VILLENEUVE SICARIO
Michel Franco CRONIC
Guillaume Nicloux VALLEY OF LOVE (La valle dell’amore)
 

Un Certain Regard
Neeraj GHAYWAN MASAAN Opera prima    
Grímur HÁKONARSON HRÚTAR (Montoni)
KUROSAWA Kiyoshi KISHIBE NO TABI (Verso l’altra riva)          
Laurent LARIVIÈRE JE SUIS UN SOLDAT (Io sono un soldato) Opera prima
Dalibor MATANIC ZVIZDAN (Sole di piombo)
Roberto MINERVINI LUISIANA
Radu MUNTEAN UN ETAJ MAI JOS (Il vicino di sotto)    
OH Seung-Uk MU-ROE-HAN (Gli sfacciati)
David PABLOS LAS ELEGIDAS (Le selezionate)

Ida PANAHANDEH NAHID Opera prima
Corneliu PORUMBOIU COMOARA (Il tesoro)    
Gurvinder SINGH CHAUTHI KOOT (La quarta via)    
SHIN Suwon MADONNA          
Alice WINOCOUR MARYLAND    
 

Fuori concorso
Woody ALLEN IRRATIONAL MAN (Un uomo irrazionale)
Pete DOCTER INSIDE OUT (Vice versa)
Ronaldo DEL CARMEN    
George MILLER MAD MAX: FURY ROAD    
Mark OSBORNE THE LITTLE PRINCE (Il piccolo principe)    
 

Presentazioni di mezzanotte
HONG Won-Chan O PISEU (L'ufficio) Opera prima    
 Asif KAPADIA  AMY    
 

Programmi speciali
Samuel BENCHETRIT ASPHALTE (Asfalto)          
Souleymane CISSE OKA    
Elad KEIDAN HAYORED LEMA'ALA (Lo spirito della scala) Opera prima    
Natalie PORTMAN SIPUR AL AHAVA VE CHOSHECH (Una storia d’amore e di tenebre) Opera prima         
Barbet SCHROEDER AMNESIA          
Pavle VUCKOVIC PANAMA Opera prima


La tete hauteIl Festival si è aperto con la proiezione del film, fuori concorso, La tête haute (A testa alta) dell'attrice e regista francese Emmanuelle Bercot. E' la storia del giovane Malony da sei anni alla maggiore età. Figlio di una madre tossicomane e ben poco responsabile che lo ha allevato da sola assieme ad un fratellino più giovane. La regista lo segue nelle numerose incursioni nel campo delle irregolarità (furti d'auto, risse, aggressioni a rappresentanti dell'ordine costituito) e nei soggiorni obbligati che ne derivano in riformatori e istituti di pena. Ciò che emerge da questo lungo calvario sono sia la rabbia, ben poco socialmente motivata, che spinge il giovane a rivoltarsi continuamente contro tutto ciò che abbia anche una semplice parvenza di ufficialità, sia la pazienza (dire umanità è veramente troppo) di giudici ed educatori. Persino le guardie carcerarie appaiono assai meno violente di quanto le circostanze giustificherebbero. In definitiva la regista disegna un percorso verso la redenzione – la nascita di un figlio induce il giovane a rientrare nel mondo delle responsabilità - con un attestato, decisamente troppo generoso, di affidabilità agli organismi pubblici. A voler essere forse troppo maliziosi, viene da notare come questo film si accompagni molto bene a quel Polisse, visto qui a Cannes nel 2011, diretto da quella Maïwenn Le Besco che quest'anno ritorna in concorso quest'anno con Mon roi (Mio Re), guarda caso, interpretato anche da Emmanuelle Bercot.
notre-petite-soeur-alauneLa sezione competitiva è stata avviata da Umimachi Diary (titolo internazionale La nostra sorellina) che il giapponese Kore – Eda Hirokazu ha tratto da un famoso manga (romanzo grafico) che racconta la vita di quattro sorelle che hanno in comune il padre, ma non la madre. Le tre maggiori conoscono la più piccola al funerale del genitore e decidono di prenderla con loro nella grande, vecchia casa di famiglia in cui abitano a Kamakura, una cittadina sul bordo del mare nella prefettura di Kanagawa sull'isola di Honshū. Le quattro donne hanno speranze e aspettative diverse, ma le riuniscono in una solidarietà femminile che le vede rinunciare a occasioni di carriera e possibilità sentimentali pur di mantenere unito il nucleo che hanno formato quasi casualmente. Il film ha un andamento decisamente lento e presta più attenzione allo svilupparsi delle varie psicologie che non ai fatti che accadono. E’ un tipo di cinema in cui la riflessone morale e il gusto del paesaggio la fanno da padroni.


Il racconto dei raccontiSin dalle prime proiezioni è stato presentato un film italiano particolarmente atteso: Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Un’opera in cui il regista fa sfoggio delle sua qualità pittoriche raccontando e intrecciando tre storie delle cinquanta contenute ne Lo cunto de li cunti ovvero lo trattenemiento de peccerille (Il racconto dei racconti ovvero il divertimento dei piccini) scritte in napoletano dal nobile Giambattista Basile (1570 – 1632). Il volume è stato pubblicato postumo fra il 1634 e il 1636 e risente dell’influenza di Giovanni Boccaccio (1313 – 1375]) e del suo Decameron (1348-1353). Fra i molti racconti il regista ne ha scelto tre. Si inizia con la storia della regina che vuole diventare madre ad ogni costo per cui, seguendo i vaticini di un santone, spinge il marito a calarsi in fondo al mare per uccidere un mostro il cui cuore dovrà essere cotto, ancora pulsante, da una vergine e mangiato dalla sovrana. Il monarca muore nell’impresa e la cuciniera rimane incinta come la regina. Entrambe daranno alla luce due figli albini dall’aspetto identico, destinati a diventare amici inseparabili e simili al punto che la stessa sovrana li scambierà l’uno per l’altro. La seconda storia ha al centro un altro monarca affascinato dalla pulce che ha addestrato al punto di nutrirla con cibi succulenti che la trasformano in essere dalle dimensioni di un bue. Quando il mostruoso insetto muore il monarca mette in palio la mano della figlia fra quanti riusciranno a riconoscere a che animale appartiene la pelle esposta nella sala del trono. Vince un orco mostruoso che ottiene in premio la principessa e la relega nell’antro in cui vive fra ossa dispolpate e sporcizia. L’infelice troverà la forza di ribellersi, tentare la fuga, uccidere lo sgradito consorte e far ritorno a corte in pompa magna. La terza favola ha al centro un altro monarca che, irretito dalla voce celestiale di una donna che ha sentito cantare ma non visto, decisd di farla sua sposa. Purtroppo la cantante è una vecchia rugosa e decadente che diventerà nuovamente giovane, per un tempo limitato, grazie a un sortilegio. Sua sorella, ugualmente decrepita, si rode d’invidia e arriva a farsi scorticare viva nella speranza di ritornare anche lei giovane. Il film è segnato da un formidabile gusto pittorico (il regista alterna all’attività filmica quella figurativa) e contraddice in parte i precedenti a sua firma, fra i quali ricordiamo almeno L’imbalsamatore (2002), Primo amore (2004) e Gomorra (2008). Questa volta non ci sono riferimenti sociali, né diretti né di scorcio, e la stessa descrizione psicologica è superata dal gusto per l’immagine e il piacere del racconto. Due caratteristiche che soddisfano pienamente anche lo spettatore più esigente.
son-of-saul-01La sezione competitiva ha presentato anche Saul Fia (Il figlio di Saul) che segna l’esordio nel lungometraggio narrativo dell’ungherese Làszló Nemes. Il film ha una struttura abbastanza originale anche se ricorda da vicino quella adottata da Jan Němec per Démanty noci (Diamanti nella notte, 1964) uno dei capolavori di quella Nová Vlna che ha segnato il rinnovamento del cinema cecoslovacco negli anni sessanta. La somiglianza riguarda il modo in cui la macchina da presa è costantemente sul protagonista lasciando gli altri personaggi e il panorama sullo sfondo, spesso colto in modo indistinto o decisamente sfuocato. La storia è quella, terribile di un appartenente ai sonderkommandos (unità speciali di deportati, in gran parte ebrei, che furono scelti dalla SS per collaborare al processo di sterminio degli altri prigionieri nei lager nazisti) che, un giorno si vede passare sotto gli occhi il cadavere del suo giovane figlio. Il suo unico scopo diventa quello di dare alla salma una sepoltura degna, assistito da un rabbino. Non ci riuscirà e sarà travolto anche dalla repressione tedesca quando si troverà a partecipare, quasi per caso, a una rivolta dei deportati. La forza del film è nella capacità di ricreare l’angoscia e lo spirito incubico che regna nel campo di Auschwitz – Birkenau nell’ottobre del 1944, pochi mesi prima dell’arrivo dei soldati dell’Armata Rossa. Il film è positivamente cupo, disperato e ha il merito di ricordare a settantun anni di distanza una delle più grandi tragedie del novecento.
540500.jpg-r 160 240-b 1 D6D6D6-f jpg-q x-xxyxxHa aperto la sua competizione anche la sezione Un Certain Regard e lo ha fatto con An della regista e produttrice giapponese Naomi Kawase. Il titolo fa riferimento a una sorta di frittella doppia farcita con marmellata di fagioli rossi detti, appunto, An. Santaro, reduce dal trauma di aver causato un grave handicap a un uomo con cui si è scontrato in una rissa da bar, gestisce malamente un chiosco in cui cucina frittele. Tuttavia non è mai riuscito a realizzarne di debitamente quelle farcite di marmellata di fagioli. Un giorno gli si offre come assistente un’anziana capace di cucinare una marmellata sublime. La donna è affetta dalla lebbra e ha vissuto sino a pochi anni prima in un sanatorio interdetto ai non ammalati. La presenza della donna causa una vero e proprio rilancio dell’attività del piccolo esercizio ora affollato da estimatori di quel tipo di dolce. La donna, che ha la dote di parlare con le piante e gli uccelli, è costretta a ritirarsi e andare a morire in quasi solitudine causa i pettegolezzi della moglie del proprietario del piccolo esercizio. La donna avanza mire sul chiosco a favore di un suo giovane protetto. La scomparsa dell’ammalata funzionerà come una sorta di catarsi per Santaro che recupererà il gusto del lavoro ben fatto secondo le regole dalla tradizione culinaria. E’ un film molto delicato, che racconta una storia moralmente ineccepibile contro l’emarginazione dei lebbrosi e che vive soprattutto grazie alla straordinaria bravura dell'attrice Kiki Kirin.
mad-max-fury-road-tom-hary-nicholas-houltNel quadro del festival si è visto, a poche ore dall’uscita in tutta Europa, anche Mad Max: Fury Road dell’australiano George Miller che ha proseguito nella serie con protagonista un altro australiano, l’attore Mel Gibson: Interceptor (Mad Max, 1979). Questo primo titolo ebbe due seguiti: Interceptor - Il guerriero della strada (Mad Max 2: The Road Warrior, 1981) e Mad Max - Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome, 1985). C’è veramente poco da dire su questo videogioco trasferito su grande schermo se non che in quest’ultimo episodio prevalgono le citazioni western e il ritmo forsennato di scontri e inseguimenti debitamente enfatizzati dall’uso abilissimo del computer. Non le abbiamo contati, ma a memoria possiamo dire che in tutto il film non ci siano più di una cinquantina di veri dialoghi, tutto il resto è inseguimenti, esplosioni, immagini roboanti di auto che s'incendiano o si capovolgono. Il tutto sulla sfondo di un mondo postatomico in cui petrolio e acqua sono utilizzati da pseudo profeti quali ingredienti utili a sottomettere le masse. Davvero molto poco dal punto di vista del racconto cinematografico.


the-lobster-1Nella sezione competitiva è arrivato Yorgos Lanthimos, un giovane regista greco, è nato nel 1973, che ha una solida fama nel cinema sperimentale e nella danza filmata. The lobster (L’aragosta) è la sua quinta opera narrativa e parte da una situazione decisamente fantastica. In un futuro prossimo venturo è vietato essere soli. Se uno non ha un compagno o una compagna o è stato lasciato dal partner è arrestato e trasferito in un albergo, molto simile a una prigione, in cui dominano regole rigide la cui trasgressione è punita in modo crudele. Gli si concedono quarantacinque giorni per trovare una persona a cui accompagnarsi altrimenti verrà trasformato in un animale di sua scelta. E’ quanto capita a David che, rimasto senza compagna, finisce in questa sorta di lager da cui fugge per evitare la scelta tra diventare un animale o unirsi ad una donna che non ama. Si aggrega a un gruppo di resistenti, I Solitari, e qui scopre che le regole di comportamento sono ugualmente crudeli. Troverà l’anima gemella, una donna che è stata accecata dalla responsabile del gruppo per aver osato amare un uomo, ma per essere pari alla nuova compagna deciderà anche lui di togliersi la vista. Riassunta in questi termini la vicenda potrebbe anche sembrare interessante e densa di motivi di riflessione. Purtroppo sia per la monotonicità della recitazione di Colin Farrell, interprete principale, sia per la ripetitività delle situazioni proposte dalla regia sia, infine, per la genericità con cui il discorso è condotto il film naufraga nell’ovvio e apre non pochi varchi alla noia. In poche parole un’occasione ampiamente perduta.
HRUTARLa sezione Un Certain Regard ha presentato Hrütar (Montoni) dell’islandese Grimur Hakonarson. E’ la storia del conflitto tra due fratelli allevatori di ovini che abitano uno accanto all’altro, ma non si parlano da quarant’anni. Si riavvicinano, sempre con non poche rudezza quando debbono fronteggiare un’epidemia che colpisce le greggi e costringe le autorità ad emanare un ordine di abbattimento e disinfestazione generale. Uno dei due, quello che ha denunciato per primo la possibile infezione, accetta la disposizione e cerca di aggirala nascondendo in cantina una decina di animali. L’altro si ribella e si fa arrestare. I due ritroveranno un momento di solidarietà quando si uniranno per salvare da una nuova requisizione le bestie nascoste. Finiranno in una tempesta di neve e rischieranno la morte per assideramento. A questo punto sarà proprio il fratello più ribelle a salvare la vita all’altro. Il film non ha nulla di straordinario se non la maestosità dei paesaggi e l’immagine della frugalità di vita di questi allevatori usi restare soli per molti mesi con l’unica compagnia degli animali a cui badano.


the-sea-of-treesIl Festival ha presentato, con buona accoglienza, il secondo film italiano in concorso Mia madre di Nanni Moretti, titolo già uscito in Italia e di cui abbiamo parlato abbondantemente. Sempre in concorso si è visto The Sea of Trees (Il mare di alberi) dell’americano Gus Van Sant, opera molto attesa e che ha deluso in parte i fan di questo autore che sembra aver abbandonato la strada impervia e scabrosa segnata da opere come Elephant (2003) o Milk (2008). Qui il filo conduttore è quello del romanticismo e del sentimento sconfinante nel sentimentalismo. Uno scienziato americano, travolto dal dolore per la morte della moglie vittima di un incidente d’auto dopo essere sopravvissuta a una pericolosa operazione al cervello, decide suicidarsi nella foresta giapponese di Aokigahara, alle pendici del monte Fuji (ma il film è stato girato nel bosco di Worcester, in Massachusetts, negli Stati Uniti), luogo che Google definisce il miglior posto per morire. Arrivato a Tokyo con un biglietto di sola andata, il vedovo si fa portare in quella foresta per suicidarsi ingerendo la fatidica superdose di pillole. Ha appena iniziato a svuotare il flacone quando incontra un giapponese, anche lui sull’orlo del suicidio per essere stato declassato sul lavoro. Entrambi si avviano - fra ostacoli, cadute, intemperie varie – sui sentieri che attraversano la foresta. E’ l’occasione per l’americano di ripensare al rapporto con la moglie defunta e riconsiderare ogni giudizio e scelta. Il giapponese non riesce più ad andare avanti e l’altro lo lascia per cercare soccorsi. Quando li trova finisce in ospedale e chiede subito notizie del compagno di cui nessuno sa nulla e che i soccorritori non hanno trovato. Rimessosi dalle ferite ritorna nel mare di alberi e trova il punto in cui ha lasciato l’altro, solo che non c’è nessuna traccia umana, ma solo un’orchidea sbocciata dalla roccia. Ritornato negli Stati Uniti scopre che il nome e cognome che il giapponese gli aveva dato in realtà significano Giallo e Inverno, il colore e la stagione preferita dalla moglie defunta. In altre parole nulla scompare definitivamente, tutto resta con altra forma per cui anche la morte è solo una tappa nel divenire del mondo. Filosofia un po’ generica venata di una non piccola componente romantica per un film ben girato, ma sostanzialmente banale.
Nahid - In breveMolto migliore la scelta fatta dai selezionatori di Un Certain Regard che hanno presentato Nahid, primo lungometraggio narrativo dell’iraniana Ida Panahandeh. Nahid è una giovane divorziata che lotta con le unghie e con i denti per mantenere la custodia del figlio affidatole dalla sentenza di divorzio a patto che non si risposi. Costantemente in lotta per gli affitti non pagati, le marachelle del ragazzo e le proposte di matrimonio avanzate dai parenti, la giovane vorrebbe accettare la corte del suo datore di lavoro, ma teme di perdere il figlio. Quest’ultimo, non mostra né rispetto né affetto verso la madre preferendo la compagnia del padre naturale che continua a frequentare pessime compagnie e a non pagare i debiti di gioco. E’ il ritratto di una condizione femminile disperata e marginale, la precisa radiografia di uno dei punti di frattura di una società in bilico fra integralismo religioso e anelito alla modernità. Il cinema iraniano sta uscendo a fatica dalla cappa oppressiva che l’opprime dai tempi della presidenza (2005 – 2013) dell’integralista Mahmud Ahmadinejad (1965), quello che teorizzava la scomparsa dello Stato di Israele dalla carta geografica e ha di fatto emarginato le migliori forze del cinema iraniano. Oggi quel percorso sta mutando e film come questo, a cui vanno aggiunti vari altri titoli presenti e passati – da Lavagne (2000) di Samira Makhmalbaf, a Melbourne di Nima Javidi – indicano un punto dolente della struttura sociale del paese. Un punto di frattura che non può più rimanere in silenzio. 


CarolTodd Haynes ha presentato in concorso un film per cui ha preso spunto dal romanzo Carol (The Price of Salt / Carol) scritto da Patricia Highsmith (1921 – 1995), con lo pseudonimo Claire Morgan, nel 1952. L’ambientazione è quella di New York all’inizio degli anni cinquanta, quando infuria, anche se nel film se ne fa solo un rapido accenno, la caccia alle streghe scatenata dal senatore ultraconservatore Joseph McCarthy (1908 – 1957) e dalla sua Commissione per le Attività Antiamericane (House Committee on Un-American Activities) contri gli ipotetici sovversivi annidati nelle strutture pubbliche. Ovvio che in questo clima la relazione sentimentale fra Teresa, giovane commessa di un grande magazzino, e la sofisticata Carol, moglie di un imprenditore facoltoso, finisca per fare scandalo e scatenare scontri legali collegati alla causa per la custodia della figlia intentata dalla moglie al marito. Tutto sembra risolversi con la fuga delle due donne verso l’ovest, percorso interrotto dalle malizie di un segugio prezzolato dall’uomo che resite al divorzio, ma che serve come detonatore per l’amore fra le due. Finale ottimista con la riconciliazione a viso aperto fra le due amanti. Il film punta più sulla ricostruzione d’epoca che non sull’analisi di un clima morale profondamente ammorbato da pregiudizi e perbenismo. Centra il primo obiettivo con una ricostruzione sobria, ma efficace, mette quasi definitivamente da parte il secondo focalizzando, con una recitazione (Cate Blanchett, anche produttrice, e Rooney Mara) oltremodo intensa e personale, più i personaggi che l’ambiente. Ne risulta un’opera di grande professionalità, ma che lascia il senso di una certa incompiutezza e più domande non risolte che non questioni sviscerate.
Mon roiMaïwenn Le Besco ha diretto Mon Roi (Mio re), radiografia esasperante e ripetitiva della storia d’amore fra l’avvocatessa Tony e il ristoratore ricco e donnaiolo Georgio, con tanto di grande amore, passione travolgente, rottura e riconciliazione, forse come preambolo a una nuova rottura. Il tutto narrato attraverso i ricordi della donna (interpretata da Emmanuelle Bercot che abbiamo già incontrato in veste di regista del film d’apertura A testa alta, mentre il bel tenebroso e drogato è Vincent Cassel) ricoverata in un centro di rieducazione medica dopo aver subito una dolorosa rottura dei legamenti del ginocchio in seguito a una caduta dagli sci. Siamo, in altre parole, dalla parti di quel cinema melodrammatico e sentimentale caro a Claude Lelouch, tuttavia senza l’eleganza la lievità e la raffinatezza espressiva dell’autore di Un uomo e una donna (Un homme et une femme, 1966). Qui dominano i toni grevi, il sesso patinato, ma opportunista, le recitazioni più gridate che ispirate. In poche parole un prodotto commerciale di ben scarso spessore espressivo.
ZVIZDANA Un Certain Regard è stata presentata la coproduzione fra Croazia, Slovenia e Serbia, Zvizdan (Sole di piombo) diretta dal croato Dalibor Matanić. Sono tre storie d’amore interpretate dagli stessi attori in ruoli diversi che cadenzano tre decenni di tragedia della ex- Jugoslavia. Si inizia nel 1991, quando la Croazia dichiara la propria indipendenza da Belgrado, con l’amore – alla Giulietta e Romeo compreso finale cruento – fra un serbo e una croata. La seconda tappa è datata 2001 con madre e figlia che ritornano nella fattoria travolta dalla guerra e la giovane intreccia una storia, più sessuale che romantica, con un carpentiere a cui le due donne hanno chiesto aiuto per rimettere in sesto la casa travolta dai combattimenti. Si finisce nel 2011 quando un uomo, che si era allontanato da quei luoghi, attratto dalla modernità e le occasioni offerte da Zagabria, ritorna fra le braccia della donna che aveva abbandonato quando era rimasta incinta. Il tema del film è la necessità di andare oltre il passato per recuperare il senso della vita e dell’amore, ma il film semplifica troppe cose per risultare convincente.


Lourder than bombsIsabelle Reed è una celebre fotografa i cui scatti compaiono spesso sul New York Times e l’agenzia per cui lavora la tiene in gran conto. Dopo aver documentato gli orrori delle guerre asiatiche e mediorientali decide di lasciare il lavoro per restare con marito e figli. Poco dopo muore in un incidente d’auto che ha molti tratti del suicidio. Tre anni dopo l’agenzia per cui lavorava affida a un suo compagno d’avventure e amante, ma solo durante le spedizioni di lavoro, il compito di allestire una mostra delle sue migliori foto. Lui accetta, ma decide di scrivere un pezzo in cui si svela la vera caratteristica della morte della donna. Vedovo e orfani vanno in crisi davanti a quest’improvviso bagno di verità, il rampollo più giovane, in particolare, vacilla pericolosamente, rifiuta di parlare con il padre e scrive lunghi brani in cui rivive il rapporto con la madre. Dopo varie turbolenza, collegate anche alla relazione segreta che il vedovo intrattiene con un’insegnate del figlio minore, le cose si sistemano e il piccolo nucleo di superstiti ritrova una parvenza di serenità. Lourder Than Bombs (Più forte delle bombe), visto in concorso, porta la firma del norvegese Joachim Trier ed è una storia familiare con abbondanti venature melodrammatiche che sbandiera, come fiori all’occhiello, le interpretazioni - per ha verità entrambe piuttosto piatte - di Isabelle Huppert e Gabriel Byrne. E’ uno di quei film falsamente anticonformisti, in realtà prevedibili dalla prima all’ultima inquadratura.
la-loi-du-marche-vincent-lindonIl livello del concorso e della selezione francese è stato notevolmente alzato dalla presentazione di La loi du marché (La legge del mercato) di Stéphane Brizé interpretato da Vincent Lindon e da un fitto stuolo di non professionisti. Thierry ha cinquantun anni, una famiglia con un figlio handicappato ed è disoccupato da venti mesi. Ha fatto i corsi di aggiornamento che gli sono stati consigliati dai centri per l’impiego ma non ne ha tratto grande beneficio, visto che tutti avevano assai poco a che fare con la sua precedente attività, quella di capocantiere nell’edilizia. Ora gli si offre la possibilità di lavorare come sorvegliante in un supermercato, accetta ma si rende presto conto che la caccia ai piccoli taccheggiatori - che rubano per aver da mangiare sino alla fine del mese - o far licenziare, in qualche caso causandone il suicidio, le commesse che si sono rese colpevoli di piccole infrazioni non sono cose che fanno per lui. Meglio allora lasciar perdere e ritornare a casa, magari con la prospettiva di trovare un lavoro più umile ma dignitoso. Il film ha un taglio di un quasi documentario e fa parte di quel filone sociale in cui eccelle il migliore cinema francese. Il regista non esprime o suggerisce giudizi, lascia lo spettatore libero di valutare situazioni e personaggi. Questo senza rinunciare a dire la sua nel presentare situazioni cariche di significati. In questo senso la lunga sequenza d’apertura nell’ufficio dell’addetto al sostegno di chi cerca lavoro ha un valore a un tempo emblematico e politico. Non un capolavoro, ma un bel film a cui va dato merito di svelare il mondo gretto e crudele che si cela dietro le luci dei grandi centri commerciali.
11075255 901713976539905 8941668856913870621 oIl thailandese Apichatpong Weerasethakul è un autore particolarmente caro al Festival di Cannes, il suo Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives (Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti) ha ottenuto la Palma D’Oro nel 2010 e altri suoi titoli sono stati presentati con successo nella sezione Un Certain Regard, la stesa in cui quest’anno si è visto Rank Ti Khon Kean (Il cimitero dello splendore). E’ una metafora, poeticamente e visivamente elaborata, della storia thailandese di questi ultimi decenni vissuta attraverso una serie di simboli come quello dei militari che giacciono addormentati e immobili nel letti d’ospedale: ricordo dell’atteggiamento attendista assunto dalla forza armate durante la prima fase del governo di Thaksin Shinawatra, periodo a cui seguì un intervento diretto nella politica con il colpo di stato del 19 Settembre 2006. Non tutto è chiaro per uno spettatore che non conosca a fondo la storia e la cultura di quel pase, ma nonostante ciò il film affascina per la perfezione della composizione visiva, la felicità delle invenzioni e la passione che trasuda ogni inquadratura.


Marguerite-et-Julien-in-concorso-a-Cannes-2015-620x413Valerie Donzelli (1973), regista, attrice e sceneggiatrice francese, per Marguerite et Julien (Margherita e Giuliano) ha ripreso in mano il copione scritto all’inizio degli anni settanta da Jean Gruault (1924) per François Truffaut (1932 – 1984) affidandone l’aggiornamento a Jérémie Elkaïm. La storia nasce da un episodio di cronaca criminale accaduto nel 1603 quando fratello e sorella furono giustiziati a Parigi sulla Place de Grève dopo essere stati processati e condannati per adulterio e incesto. La regista ricorda quella vicenda collocandola in un tempo non ben definito che ha alcuni aspetti degli anni venti, ma non ha problemi a mettere in scena radio, elicotteri, abiti polizieschi moderni. Il tutto per una perorazione a favore dell’amore, anche di quello incestuoso. Tale è il sentimento che lega, sin dalla più tenera infanzia Julien a Marguerite, sua sorella minore di quattro anni. Entrambi sono figli di Jean III di Ravalet, signore de Tourlaville, un nobile che con una famiglia di ben tredici figli e un fratello abate. Il film è molto curato e realizzato con attenzione e bravura mettendo in luce sia l’ingiustizia delle norme che colpiscono questo sentimento sia il loro presentarsi immutate nel corso dei secoli. Molto probabilmente la sceneggiatura scritta per François Truffaut prestava maggior attenzione allo spirito ribelle dei giovani nei confronti di una struttura sociale troppo codificata, ma l’accentuazione romantica che ne fa la regista non stride con la difesa di un profondo sentimento umano, anche quando si colora d’incesto. In definitiva un film che si segue con piacere e che riserva qualche sorpresa espressiva anche se non va oltre il racconto ben costruito e affascinante.
sicario-benicio-del-toroDifficile, invece, capire le ragioni della presenza in concorso di Sicario firmato dal Canadese Denis Villeneuve e costellato di attori prestigiosi, da Benicio Del Toro a Emily Blunt, da Josh Brolin a Jon Bernthal. È la storia di uno scontro senza regole fra un cartello di narcotrafficanti messicani e una non meglio precisata forza di polizia americana supportata da un enigmatico consigliere colombiano che vuole vendicare l’uccisione di moglie e figlio. Al gruppo si aggrega, più per spinta dei superiori che per decisione propria, una giovane agente dell’FBI che crede nell’uso dei metodi legali e nel rispetto delle norme giuridiche. Davanti alla violenza dei trafficanti si dovrà ricredere e spingersi sino a giustificare l’uso di torture e uccisioni. Si è detto che non sono chiare le ragioni per cui un film di questo tipo è stato messo in programma, questo non tanto per la scarsa qualità del prodotto che, anzi, funziona benissimo e tiene dell’attenzione dello spettatore per due ore abbondanti, ma per la sua natura di produzione commerciale a tutto tondo che non aggiunge nulla né al linguaggio del cinema, né alla morale. Da quest’ultimo punto di vista, anzi, presenta non poche sbavature finendo per giustificare l’abbandono della legalità in nome dell’efficienza anticrimine.
mariaUn Certain Regard continua ad allineare titoli che, se non eccellenti, quantomeno hanno il merito di presentare temi e situazioni poco note. Tale è Alias Maria del giovane regista colombiano Josè Luis Rugeles Gracia. E’ la storia di una tredicenne militante della FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia - Ejército del Pueblo) che riceve l’incarico di accudire il neonato del capo mentre il grosso della colonna guerrigliera ripiega su posizioni più sicure. Quella che sembrava un facile diversione si rivela piena d’insidie e pericoli. Il piccolo gruppo – oltre a Maria ci sono il responsabile della missione e amante della giovane, un ragazzino e un nero che proviene dalla città, ma combatte da tempo – incrocia un gruppo di volontari anti guerriglieri, poi deve vedersela con la povera famiglia contadina cui è stato deciso di lasciare il neonato, infine assiste a un massacro in cui i militanti filogovernativi sterminano l’intero gruppo dirigente di un villaggio. Non sopportando la violenza Maria, che è incinta e si sente ordinare dal compagno di abortire perché solo i capi possono avere mogli e figli, abbandona i compagni e si avvia sola verso un futuro incerto ma sperabilmente più pacifico. Il film ha il merito di guardare con lucidità agli orror della  guerra e ai dolori che essa infligge alle madri. Una prospettiva imparziale che anela, come ha detto il regista presentando il film, a un periodo di pace dopo anni di massacri


GiovinezzaPaolo Sorrentino ha ambientato Youth (Giovinezza) in una albergo svizzero ai piedi delle Alpi, lo stesso in cui Thomas Mann (1875 – 1955) ha collocato il suo capolavoro La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924). Qui si ritrovano - assieme ad una variegata clientela internazionale che comprende nobili, giocatori un tempo famosi, attori sulla cresta dell’onda - due artisti amici da tempo immemorabile e che hanno superato l’ottantina. Fred (Michael Caine) è stato un famoso compositore e direttore d’orchestra che ha rinunciato definitivamente alla bacchetta e allo spartito dopo la scomparsa della moglie, una soprano con cui ha passato la vita. In realtà scopriremo, quasi alla fine del film, che la donna è ancora viva ed è ricoverata a Venezia colpita da demenza senile. Il musicista non vuole più sentire parlare di concerti, rifiuta un lucroso contratto per le sue memorie e rimanda a casa delusi, per ben due volte, gli emissari della regina d’Inghilterra che vorrebbero ritornasse a dirigere in occasione del compleanno del principe consorte. Mick (Harvey Keitel) è un noto regista di cinema che non ha perso la speranza di riprendere in mano la macchina da presa per filmare quello che lui stesso definisce il suo capolavoro. Due atteggiamenti opposti davanti alla vecchiaia che ritrovano una scintilla comune nella contemplazione del corpo nudo della modella rumena Maladina Ghenea, qui nel ruolo di Miss Universo. I giorni passano uguali e monotoni nel sontuoso albergo - sanatorio e i due amici hanno modo di punzecchiarsi sul passato (un tempo hanno ambito alle grazie della stessa donna e la figlia del musicista ha sposato il rampollo del cineasta) e riflettere sullo scorrere del tempo. Il finale è tragico e beffardo a un tempo: quello dei due dotato di maggior ottimismo si suicida, l’altro accetta di dirigere, nonostante i precedenti rifiuti, alla presenza della sovrana inglese. E’ una profonda, bella e toccante riflessione sulla vecchiaia, non priva di ironia – la stessa che accompagna la scelta del titolo – in cui si scandagliano sia la decadenza causata dallo scorrere degli anni, sia la forza vitale che accompagna l’esistenza di qualunque essere umano indipendentemente della primavere che ha alle spalle. Con questo titolo e con i precedente Mia Madre di Nanni Moretti e Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, la selezione italiana si è presentata ad altissimo livello, anche se è una forza che maschera la reale debolezza della nostra cinematografia.
Mountains may departL’altro film in concorso è stato Shan He Gu Ren (Le montagne possono andarsene) del cinese Jia Zhang-ke autore, nel 2000, di un pregevole ritratto generazionale: Zhantai (Piattaforma). Anche questo nuovo film ha un andamento simile, solo che i personaggi e gli anni che mette in scena appartengono ad una fase successiva. L’epoca è il quarto di secolo che va del 2000 al 2025, in un futuro ormai prossimo. I personaggi sono tipici: il lavoratore che si sacrifica senza accettare compromessi e finisce coll’ammalarsi nella miniera di carbone comperata da un amico affarista che finirà col fuggire in Australia per sottrarsi alla giustizia che ha scoperto le sue malefatte finanziarie. E’ il quadro di una società complessa e in costante movimento dove la caccia al denaro sembra giustificare qualsiasi cosa, ma che, per lo stesso motivo, travolge anche alcuni sani valori del passato. Tutto questo è visto attraverso un triangolo amoroso, quello che si sviluppa attorno alla bella Tao contesa dall’intraprendente e arrogante Zang e il modesto e corretto Lianzi, che marcherà i destini di tutti e tre. La donna finirà divorziata e sola, privata del figlio che il marito faccendiere ha ottenuto in custodia, mentre l’altro contendente contrarrà in miniera una grave malattia che lo porterà vicino alla morte. Nel finale futuribile incontriamo in Australia il figlio del fuggitivo e assistiamo al suo amore per una matura insegnate di cinese che lo convince a ritornare dalla madre in patria. E’ un film meno compatto e significativo dei precedenti di questo regista, ma è anche un’opera di valore e uno sguardo privo di paraocchi sulla realtà del paese.
MadonnaMeno interessante Madonna della sudcoreana Shin Su-Won presentato a Un Certain Regard. La storia ruota attorno all’erede del proprietario di una clinica di lusso che vuole mantenere in vita ad ogni costo il padre, gravemente ammalato di cuore, ben sapendo che alla morte del genitore tutte le ricchezze andranno ad enti benefici. Arriva a far sequestrare una poveraccia incinta che si prostituisce dopo essere stata violentata da un autista della fabbrica di cosmetici in cui lavora, lo fa per farne trapiantare il cuore nel corpo del padre. Un’onesta addetta alle cure del vecchio ammalato, cui il figlio avido commissiona la ricerca dei parenti della prigioniera per carpirne l’autorizzazione al trapianto, manderà all’aria il piano e lo farà anche per scacciare il senso di colpa che porta in se per aver ucciso il neonato cui aveva dato vita in solitudine in una prato. In poche parole una storia decisamente melodrammatica per un film in cui non mancano i momenti patetici.


the assassinIl taiwanese Hou Hsiao Hsien è una delle figure di maggior rilievo del cinema contemporaneo. Nella sua filmografia figurano molti titoli, spesso di produzione e in coproduzione con la Francia, che hanno segnato il cinema dei nostri giorni. Basti ricordare Zui hao de shi guang (Tre volte, 2005) e Le voyage du ballon rouge (Il viaggio dei palloncino rosso, 2007). Nella sezione competitiva del festival ha proposto Nièyǐnniáng (L’assassina) suscitando molti entusiasmi e altrettante perplessità. I primi nascono dall’aspetto estetico dell’opera, dominato da immagini paesaggisticamente perfette e da interni sontuosi. Il tutto cadenzato da una musica affascinante. I dubbi derivano dall’eccessiva peculiarità della vicenda raccontata che è ambientata nella Cina durante la dinastia Tang (618 – 907), quando una giovane, educata alle alti marziali e all’assassinio da una suora, ritorna nella sua famiglia dopo anni d’esilio. Il suo compito è uccidere il cugino, Tian Ji’an, governatore della provincia di Weibo e in rotta con il regno. Il film è preceduto da un prologo in bianco e nero e racconta il conflitto fra la giovane esperta di arti guerresche e la corte della provincia, in particolare con il parente. Forse questi conflitti svelano quelli attuali fra le forze al potere in Cina, ma ciò passa in secondo piano davanti all’evidenza del gusto di raccontare e illustrare del regista. E’ un film perfettamente confezionato, ma il cui significato profondo rischia di sfuggire a non pochi spettatori.
SiriDheepan del francese Jacques Audiard ha al centro un militante delle Tigri Tamil che combattono il governo centrale dello Sri Lanka per realizzare uno Stato Socialista in quella parte del paese. Disgustato dagli orrori della guerra fugge in Francia costruendosi una famiglia fasulla con una profuga ventiseienne e una ragazza di nove anni che fa passare per moglie e figlia. A Parigi ottiene l’incarico di fare il custode di un’immobile situato alla periferia della città. Il casermone sorge in un territorio degradato, preda di bande giovanili che si contendono il traffico della droga e la gestione della criminalità. Lentamente il rapporto con le donne che ha portato con se e continua a presentare come moglie e figlia, migliora al punto che quando la prima finisce in mezzo a una sparatoria fra bande rivali, lui recupera l’esperienza guerrigliera e ammazza un bel po’ di nemici. L’ultima sequenza ci mostra la famiglia che si è trasferita a Londra ed è diventata una vera unione. Il film lascia non poche perplessità sul modo in cui il paese asiatico è descritto come un inferno e la Francia un terreno di guerra continua fra bande criminali, mentre l’Inghilterra ha i tratti di un quasi paradiso. Per quanto riguarda le psicologie dei personaggi appaiono decisamente schematiche e del tutto prevedibili. In poche parole un titolo tutt’altro che indimenticabile.
comoaraUn Certain Regard ha messo in cartellone un divertente film del rumeno Corneliu Porumboiu: Comora (Il tesoro). La storia è flebile, ma gestita con grande abilità. Un impiegato di un’agenzia di gestioni immobiliari conduce una vita tranquilla, dal tran – tran d’ufficio alle serate passate a leggere al figlioletto le avventure di Robin Hood. Un giorno bussa alla sua porta un vicino che ha bisogno di ottocento euro se vuole conservare la proprietà dell'appartamento soggetto a un pesante mutuo bancario. Lui quei soldi non li ha ma cede all’altro quando questi gli rivela che, in realtà, la somma gli serve per ingaggiare un tecnico e un rilevatore di metalli onde scoprire dove si nasconda un tesoro che il nonno ha sepolto nel giardino della casa di campagna di famiglia. Si convince e parte con il vicino alla ricerca della mitica fortuna. Dopo un giorno e una notte di sondaggi infruttuosi i due disseppelliscono una cassetta che contiene un bel po’ di azioni della Mercedes - Benz, le portano in banca e scoprono che valgono quasi due milioni di euro. Una vera fortuna che l’impiegato utilizza per comperare una manciata di gioielli veri da mostrare al figlio come parte del tesoro, preziosi che finiranno nelle meni di un gruppo di bambini che li useranno come cose di poco valore. Il film è denso d’ironia – tutta la fase della ricerca è lieve e spiritosa – e gioca abilmente sui sogni di ricchezza di una generazione che disprezza (giustamente) il comunismo di un tempo, ma rischia  di essere travolta dal capitalismo selvaggio che lo ha sostituito.


Valley of loveValley of love (Valle dell’amore) del francese Guillaume Nicloux vorrebbe avere un taglio ironico sin dal titolo, visto che si svolge per intero nel Death Valley National Park (Parco nazionale della valle della morte), una depressione che fa parte del Grande Bacino che si estende fra Sierra Nevada e Stato del Nevada. Una zona nota anche perché al centro c’è il punto più basso del Nord America, ottantasei metri sotto il livello del mare. Qui si ritrovano due coniugi francesi divorziati, ciascuno dei quali ha ricevuto una lettera dal figlio fotografo, morto suicida sei mesi prima. Una missiva in cui si chiede loro di trovarsi in un punto della valle, a una cert’ora di un giorno preciso. Se adempiranno all’impegno lui li rincontrerà, fornendo segni precisi della sua presenza. I due, che hanno i nomi degli attori che li interpretano (Isabelle Huppert e Gérard Depardieu), sono separati da tempo, ma mantengono un forte legame. Lei è diventata vegetariana e crede cecamente nel materializzarsi del figlio; lui è decisamente scettico, ma si lascia trascinare dall’ex – moglie. Il film è tutto nei dialoghi fra questi due mostri del cinema francese e poco conta se, alla fine, si registrerà una qualche presenza misteriosa. Film d’attori all’ennesima potenza, trova la sua giustificazione solo nelle performance dei protagonisti e nella bellezza dei panorami che offrono all’ufficio del turismo della Valle della Morte un'ottima occasione promozionale.
chronic-cannes-film-festivalChronic (Cronico) - film di produzione americana, ma diretto dal messicano Michel Franco (1979) - è un altro testo per attori. Il regista ha vinto nel 2012 il premio messo in palio dalla sezione Un Certain Regard con Después de Lucía (Dopo Lucia). In questo caso a mettersi in luce è Tim Roth nel ruolo di un infermiere che cura pazienti a domicilio assistendo malati di Aids, tumore, reduci da infarti e adolescenti in sedia a rotelle. Svolge i suoi compiti con grande professionalità e una passione che maschera il rimorso per aver fatto morire il figlio handicappato piuttosto che consegnarlo a una vita di umiliazioni e dolore. La sua dedizione causa terribili equivoci, così quando accudisce oltre l’orario di lavoro un architetto colpito da ictus e gli consente di guardare film pornografici, i parenti dell’ammalato lo denunciano per molestie sessuali. Licenziato dall’agenzia per cui lavora, continua ad occuparsi come free – lance di malati terminali sino ad incontrare una donna affetta da tumore che gli chiede di ucciderla. Dopo qualche esitazione l’accontenta, ma anche lui, poco dopo muore investito da un’auto. Film d’attori si è detto, testo in cui la descrizione del personaggio e degli ambienti che frequenta fanno premio su qualsiasi altra considerazione segnando in modo limitativo un’opera che, tuttavia, contiene non pochi elementi d’interesse.

macbeth13William Shakespeare (1564 – 1616) scrisse Macbeth nel 1603 in onore dell’ascesa al trono del re scozzese Giacomo I. Quel testo, il più breve della teatrografia del Bardo, è rimasto nella memoria collettiva come un saggio fondamentale sull’avidità e la spregiudicatezza nella conquista del potere. L’immagine del condottiero che diventa re uccidendo il sovrano legittimo e quanti intralciano il suo cammino e quella della moglie, suggeritrice e ispiratrice del delitti di cui si macchia il marito, sono sempre state lette come esempi di cupidigia e insensibilità morale. Molti sono i registi cinematografici che hanno tratto spunto da questa tragedia per i loro film, si va da Orson Welles (Macbeth, 1948) a Akira Kurosawa (Trono di sangue, 1957) da Roman Polanski (Macbeth, 1971) all’ungherese Béla Tarr (Macbeth, 1982). Impossibile dare conto, poi, di quelli teatrali che si sono cimentati con questo copione.E’ ora la volta dell’australiano Justin Kurzel che ha proposto, nella sezione competitiva del festival, una versione del dramma segnata da molto sangue e un forte realismo nelle scenografie e nei costumi dei personaggi. Esclusi questi elementi, il film non presenta grandi novità stilistiche o interpretative, in ogni caso non tali da segnalarlo come una lettura originale della vicenda. Messa in ombra la figura della regina, una Marion Cotillard, qui quasi solo decorativa, tutto il peso dell’opera ricade sulle spalle di Michael Fassbender più preoccupato della cura della sua immagine che dei triboli psicologici del personaggio. Ne emerge un film più decorativo che ispirato, una proposta che, se fosse stata avanzata sul palcoscenico avrebbe suscitato molte più perplessità che entusiasmi.
masaan-mos-size-650 041615051145Masaan, presentato dalla sezione Un Certain Regard e diretto dall’indiano Neerraj Ghaywan ci porta nella città santa di Bènerés, sulle rive del fiume Gange, per seguire le vicende di quattro giovani indiani. Devi ha accettato di fare l’amore in un alberguccio con il suo primo amante. Quando sono scoperti dalla polizia l’uomo si suicida consentendo al capo degli agenti di ricattare pesantemente Pathak, padre della ragazza, minacciando una denuncia per complicità e relativo scandalo. Il genitore gestisce un banco di oggetti sacri vicino alla spianata su sui divampano le pire che bruciano i cadaveri. Fra gli addetti a questo triste compito c’è anche Jhonta che studia da ingegnere ferroviario nonostante il padre lo voglia al lavoro sui rogni. Grazie a Facebook conosce e s’innamora di una giovane appartenente a una casta superiore, ma lei muore in un incidente stradale. I due giovani rimasti soli s’incontreranno sulle rive del fiume, iniziando - forse - una nuova vita meno triste di quella che hanno vissuto sino ad allora. Il film traccia un ritratto terribile della condizione delle donne in una società ancora segnata dalla divisioni di casta e disegna in modo quasi documentaristico l’inferno in cui sono costretti a vivere i bruciatori di cadaveri. Un film decisamente interessante anche appare scarsamente sviluppato l’intento di mettere in luce le contraddizioni fra il permanere di costumi ancestrali e la tensione tecnologica dell’India moderna.


I premi

Concorso lungometraggi

dheepan-film-1030x615Palma d’Oro
DHEEPAN di Jacques AUDIARD

Gran premio della giuria
SAUL FIA (Il figlio di Saul) di László NEMES

Premio della regia
HOU Hsiao-Hsien autore di NIE YINNIANG (L’assassina)

Premio della giuria
THE LOBSTER di Yorgos LANTHIMOS

Premio per l’interpretazione femminile
Rooney MARA interprete di CAROL di Todd HAYNES
Emmanuelle BERCOT interprete di MON ROI di MAÏWENN

Premio per l’interpretazione maschile
Vincent LINDON interprete di LA LOI DU MARCHÉ (La legge del mercato) di Stéphane BRIZÉ

Premio della sceneggiatura
Michel FRANCO autore di CHRONIC (Cronici)

Concorso cortometraggi

Palma d’oro
WAVES '98 di Ely DAGHER

Camera d'or (premio alla migliore opera prima)

LA TIERRA Y LA SOMBRA di César Augusto ACEVEDO presentato dalla Settimana della Critica