13° Thessaloniki Documentary Film Festival 2011 - Pagina 5

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13° Thessaloniki Documentary Film Festival 2011
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Il cinema e il teatro hanno sempre avuto legami molto stretti, tanto che all’inizio della vita dei film, i registi si rivolgevano frequentemente a opere teatrali riportate sullo schermo in versioni ridotte e debitamente drammatizzate. La regista libanese Zeina Daccache si è impegnata in un’operazione assai simile a quella voluta da Davide Ferrario (Tutta colpa di Giuda – Una commedia con musica, 2008) nel carcere torinese delle Molinette: portare il teatro fra le mura di una prigione e usarlo come strumento di riabilitazione e recupero morale dei carcerati. Nel caso dell’italiano si trattava di mettere in scena una passione del Cristo per opera di una regista serba, qui di allestire una recita di uno dei testi più noti, sia al cinema sia in teatro: La parola ai giurati (Twelve angry men) di Reginald Rose (1929 – 2002). E' un’opera nata come telefilm e diventata un classico dopo essere stata scelta da Sidney Lumet quale soggetto della sua opera d’esordio, nel 1957. La vicenda è nota: dodici giurati sono riuniti per giudicare un ragazzo accusato di aver ucciso il padre. Sembra una cosa da nulla: ci sono le prove, una testimone oculare, perciò la prima votazione è quasi unanime, un solo giurato ha dei dubbi e costringe gli altri undici a un supplemento di riflessione, sino all’approdo a una decisione del tutto opposta a quella iniziale. Un testo di questo tipo, messo nelle mani a spacciatori, assassini, rapinatori, suscita sentimenti profondi e mette in discussione intere esistenze. Il film documenta il percorso di creazione dello spettacolo e, parallelamente, induce questo 12 libanesi arrabbiati a mettere in dubitare di certezze e stili di vita, sino a far baluginare speranze di esistenze diverse di cui, prima, non ammettevano neppure l’esistenza.

Sempre in tema di redenzione degli umili da segnalare A small act (Un piccolo gesto) dell’americana Jennifer Arnold che segue l’anno di diploma in una scuola del Kenya il cui finanziamento deve molto a un’anziana ebrea tedesca emigrata in Svezia per sfuggire al nazismo. Una tappa scolastica di grande importanza, perché solo a una decina di alunni saranno aperte le porte dell’educazione superiore e dell’università; gli altri saranno rigettati nella povertà e nella vita miserabile di villaggio. E’ un documentario inteso nel più classico dei termini, ma lineare nella costruzione e particolarmente commuovente, giacché gli esaminatori sono kenioti che sono riusciti ad affrancarsi grazie all’istruzione – due sono funzionari dell’ONU e vivono a Ginevra – e ora devono decidere chi merita una possibilità e chi, invece, termina qui la corsa verso una vita migliore.

E' molto forte anche il discorso del francese David Andrè che, in Everlasting Sorrow. Life after the Death Penalty (Dolore eterno. La vita dopo la pena di morte) segue la tragica vicenda di Sean Sellers, ucciso in un carcere dell’Oklahoma nel 1999, dopo trent'anni di detenzione. La sua terribile colpa era di aver assassinato, quando aveva appena sedici anni, la madre, il patrigno e il gestore di un negozio. Delitti orrendi, ma che non giustificano la tortura di passare tre decenni in attesa dell’iniezione letale. Inoltre era un crimine commesso da un minorenne e fu proprio il clamore suscitato dal caso a indurre la Corte Suprema a rivedere l’intera materia delle condanne a minori. Il film ha un taglio nettamente contrario alla pena di morte e allinea interviste agli esecutori, ai parenti delle vittime e agli amici del condannato. Particolarmente agghiaccianti quelle rilasciate da alcuni funzionari, fra cui una donna, che hanno collaborato materialmente all’esecuzione della condanna. Sono persone che, nel corso della loro vita lavorativa, hanno partecipato all’uccisione chi di venti, chi di trenta, chi di sessanta persone, l'hanno fatto con un burocratismo e una sostanziale insensibilità che li porta a non provare alcun ripensamento. Allo stesso modo il Pubblico Ministero che chiese e ottenne quella condanna, continua a parlare di giustizia divina anche ora che, alla soglia della novantina, quasi non riesce ad articolare parola. Sono figure riprese in case tappezzate da lazo, selle, corna di tori, simboli di una cultura della frontiera basata su un’apologia della violenza che ha ben poco a che fare con la giustizia.