13° Thessaloniki Documentary Film Festival 2011

Stampa
PDF
Indice
13° Thessaloniki Documentary Film Festival 2011
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Tutte le pagine


http://tdf.filmfestival.gr/

13mo Festival Internazionale del Documentario di Salonicco

11-20 marzo 2011

 

I documentari rappresentano un genere che ha avuto una grandissima importanza nella storia e nella formazione della cultura espressiva del cinema. Si può persino affermate che la documentazione cinematografica è fra i generi che hanno contribuito a fondare il linguaggio cinematografico visto che, i primi film, ruotavano attorno o alla riproposizione di testi teatrali o alle collane d’immagini che testimoniavano grandi eventi - incoronazioni, funerali di personaggi famosi o inaugurazione di grandi esposizioni – o offrivano allo spettatore immagini di luoghi esotici. Si racconta persino, anche se l’episodio non è sufficientemente documentato, che la prima carrellata, uno degli elementi fondamentale del linguaggio filmico, sia stata inventata casualmente da un operatore della società dei fratelli Lumière che ebbe l’idea di mostrare Venezia montando la cinepresa su una gondola e facendola navigare fra calli e campielli. Nonostante tutto questo per lungo tempo il documentario è stato considerato una sorta di fratello minore del cinema narrativo e gli sono state dedicate pochissime rassegne, soprattutto se comparare alle moltissime rivolte al cinema di finzione. Il primo merito del Festival del Documentario di Salonicco, fratello tutt’altro che minore della rassegna rivolta ai film narrativi che si tiene in questa città a dicembre, è mettere sotto i riflettori opere che solo di scorcio entrano nei programmi delle maggiori rassegne.

Se si considera, poi, che quella di quest’anno è la tredicesima edizione, per cui questa manifestazione nasce quando il genere era commercialmente risorto da poche stagioni, grazie al lavoro di Michael Moore (1954) che ha presentato Roger & Me è del 1989, si coglie appieno il valore della proposta. Valore confermato sin dalle prime proiezioni, in particolare da Agnus Dei: Lamb of God (Agnello di Dio) della giovane messicana Alejandra Sánchez che ha seguito il dramma di Jesús Romero, ora studente universitario, ma che, quando era undicenne, ha subito gravi abusi sessuali da parte di un sacerdote omosessuale. Il film si muove su due binari: la denuncia della violenza, la complicità delle gerarchie cattoliche che tentarono di negare, sino all’ultimo, l’evidenza dei fatti, e l’impatto morale e psicologico che l’evento ha avuto su una famiglia profondamente religiosa. S’inizia con il racconto del giovane che ripercorre il rapporto con il prete, la fiducia con cui la famiglia glielo affida, le varie tappe che trasformano il rapporto da quello insegnante – discepolo a una vera e propria relazione amorosa. E’ un lavoro di grande pregio che mette in luce sia il dolore del giovane e dei suoi genitori, sia il muro di gomma che la Chiesa e la magistratura oppongono alle loro richieste d’indagine. Un’opera che ha il merito di condurre l’analisi dei fatti e lo scandaglio delle psicologie senza clamore, ma con lucida determinazione. Un atto d’accusa che svela un orrore indicibile, ben rappresentano dalle fotografie pedofile che il sacerdote ha scattato all’adolescente.


 

Si fa presto a dire documentario, come se questo tipo di cinema non presentasse, come quello narrativo, i suoi filoni, le sue costanti stilistiche. Ci sono, ad esempio, gli autori che marciano nel solco della televisione, utilizzano lunghe interviste intercalate a brani giornalistici. Ne è un esempio The Oath (Il giuramento) in cui l’americana Laura Poitras costruisce in i ritratti complessi e interessanti di Abu Jandal - ex-guardia del corpo di Osama Bin Laden, combattente in Bosnia, ora autista di taxi in Yemen - e di Salim Hamdan, il primo detenuto di Guantanamo a essere giudicato da una corte militare americana. Ne nascono due posizioni abbastanza lontane, seppur unite nel rifiuto dei valori culturali dell’Occidente, cibo compreso. Il tutto situato in un quadro di assoluta normalità – la cura dei figli, le difficoltà del lavoro – segnata, tuttavia, dall’adesione a una fede concepita come totalizzante e portatrice di valori assoluti e inconciliabili. Un testo davvero interessante e forte.

Percorre la stessa strada anche Marshall Curry che affronta, in If a tree falls: A story of the Earth Liberation Front (Se cade un albero: una storia del Fronte per la Liberazione della Terra), il quadro di un movimento ecoterrorista americano. Partendo dalla metà degli anni novanta del secolo scorso e con una violenza sempre maggiore, i membri dell’ELF incendiarono fabbriche e depositi, devastarono centri commerciali, bloccarono stare, il tutto per colpire le aziende che, come quella del legno, cancellavano le foreste, ammorbavano l’aria, corrompevano l’ambiente. Il tutto ricostruito seguendo il percorso di Daniel McGowan, uno dei fondatori del gruppo, arrestato nel dicembre del 2005 e condannato a una lunga pena detentiva. E’ il quadro di un terrorismo interno che precede quello di matrice islamica, responsabile del crollo delle Torri Gemelle di New York. E’ il quado di una gioventù di buona famiglia che non si ritrova più nel benessere e nelle regole del capitalismo maturo. Un quadro originale e interessante.

Anche in questo campo ci sono, poi, gli autori che affrontano problemi di grande spessore, attraverso storie individuali, di solito basate su personaggi e situazioni particolari. L’olandese Hans Dortman mette in campo, con Goddelijk varken (Il maile divino), il rapporto fra l’uomo e gli animali, intesi come cibo. Lo fa attraverso il ritratto di un salumiere solito allevare per mesi, con amore e cura, un magnifico porcello per poi ucciderlo e trarne carne e salcicce. Durante due anni l’artigiano cura con grande attenzione l’animale, cui ha assegnato un nome latineggiante, che gli servirà da richiamo pubblicitario dopo che lo avrà ridotto in bistecche e salumi. Lo nutre e porta a passeggiare, tanto che la coppia finisce per diventare quasi un elemento turistico per il paesino in cui la storia si svolge. La riflessione è sulla crudeltà insita nelle alimentazioni non vegetariane, il tutto sostenuto con misura e garbata ironia.

Un’altra vicenda che muove su questo stesso filone, anche se coinvolge altri argomenti, è quella raccontata dall’americana Lisa Leeman che, in One Lucky Elephant, ha messo al centro del suo lavoro il rapporto fra il proprietario di un piccolo circo e l’elefantessa che lui ha comprato quando era ancora cucciola per trasformarla nell’attrazione principale dei suoi spettacoli. Con il passare degli anni scopre che l’animale perde progressivamente voglia di esibirsi, diventa inquieto, non risponde ai comandi. E’ la prova che le attenzioni di cui l’ha circondata non sono state sufficienti a sopire gli istinti profondi del pachiderma, che non riesce a sopire l’istinto di vivere in branco con altre femmine e di allevare cuccioli. Il rimedio sarà scovato in una sorta di casa di riposo all’aperto per elefantesse, ma molto probabilmente sarà solo un altro palliativo. Il film è condotto con poeticità e attenzione verso i sentimenti dell’ex circense e quelli (supposti) dell’animale, senza mai gravare sui toni o prendere la scorciatoia del predicozzo animalista.


E’ naturale che quanti lavorino nel campo del documentario s’interessino ai problemi sociali. Ecco allora due registi greci che affrontano temi attuali con grande forza e lucidità. Stelios Kpuloglou ha costruito Welcome to Europe (Benvenuti in Europa) con immagini e volti di rifugiati politici e migranti rinchiusi nei campi di accoglienza ellenici o costretti a vivere un’esistenza primitiva nei boschi, dopo essere penetrati illegalmente in territorio di quella nazione. Sono immagini forti, che denunciano condizioni orribili, alcune delle quali abbiamo già visto, spesso fuggevolmente, nei telegiornali o negli speciali televisivi, ma che qui acquistano un valore del tutto particolare per essere accostate, senza commenti e montate con ritmo lucido e concentrato in meno di undici minuti. Un'altra regista greca, Katerina Pratini, si è spinta ancora avanti raccontando la crisi attraversata dal paeseo guardando alle vicende di due donne normali.

Lo fa con Docville – 99 via Laskareos – Atene, la strada su cui si affacciano i negozi di Zoe e Athena, due piccole commercianti, l’una gestisce un emporio di cose per animali, l’altra una lavanderia – stireria ove fa anche piccoli lavori di sartoria. La prima vive sola con l’amato gatto, la seconda è vedova da poco. Entrambe non hanno di che vivere, non possono pagare le fatture e l’affitto, i loro esercizi sono desolatamente vuoti, mentre i creditori sono alle porte. Entrambe decidono di chiudere le rispettive attività e mettersi sul mercato come lavascale o collaboratrici domestiche. E’ il ritratto di una discesa sociale e un annuncio di caduta nella povertà che la regista propone senza toni reboanti, ma affidando a due splendide donne il compito di mostrare per intero la sofferenza e il terrore che le travolgono. Il film è il primo capitolo di una serie, intitolata Docville, tesa a testimoniare, con i canoni del cinema – verità, le condizioni di vita urbana in Grecia e gli effetti che le difficoltà economiche stanno causando sia sulla struttura sociale, sia sulla psicologia di quanti sono travolti. Una bella idea, il cui primo passo merita grande attenzione. Sempre restando nel campo della politica e il presente, da ricordare anche The Tillman Story (La storia di Tillman) in cui Anmir Bar-Lev, un produttore e regista americano dìorigini israeliane, ricostruisce la vicenda del giocatore di football americano, Pat Tillman, che, nel 2002, lasciò una brillante carriera da professionista per arruolarsi con i Ranger mandati a combattere la guerra afgana. Fu il secondo caduto statunitense in quella tragica spedizione e divenne subito un eroe, esaltato e utilizzato in continuazione dalla propaganda del Pentagono. Sennonché gli stessi militari furono costretti a varare, qualche tempo dopo, una commissione d’inchiesta che accertò come il giovane non fosse stato ucciso dagli odiati talebani, ma da altri soldati americani, vittima di una confusione di ordini per cui la sua pattuglia fu scambiata per una banda nemica. Grazie agli sforzi e la costanza dei suoi familiari, la verità emerse in tutta la sua gravità davanti ad una commissione d’inchiesta del parlamento. Il film segue lo svolgersi degli eventi, allinea numerose interviste, brani di cinegiornali, testimonianze di altri militari. Ne emerge un quadro intessuto di menzogne, opportunismi – tutti attribuiscono ad altri gli errori commessi – come dire l’altra faccia di quel patriottismo che, come disse un grande studioso è l’ultimo rifugio dei cialtroni.


In questo Festival i film che denunciano situazioni sociali particolarmente dolorose e complesso continuano a tenere il centro del palcoscenico. Forse è perché i punti dolenti del mondo sono talmente tanti, forse perché questi argomenti suscitano le maggiori emozioni, fatto sta che, ad esempio, il tema della marginalità sociale compare in numerose opere, nessuna della quali banale. Il testo più interessante, fra quelli visti in queste ultime ore, porta la firma del regista greco Christos Karapelis e s’intitola Raw Material (Materie prime). E’ la radiografia delle terribili condizioni di quanti, greci poveri e immigrati, cercano di coniugare il pasto con la cena girando notte e giorno per raccogliere i metalli gettati nei cassonetti dell’immondizia: vecchi elettrodomestici, televisori guasti, computer dismessi, ma anche scarti d’officina, giocattoli rotti e motocicli a pezzi. Il tutto sarà venduto a commercianti che li rivenderanno alle fonderie, ove altri disgraziati lavorano quindici ore al giorno fra polveri, rischi di ustione, calore insopportabile. Il regista ci racconta alcune di queste storie, graduando lo sguardo sulla miniscala sociale che segna anche questo mondo, da chi possiede un camioncino a quelli che sono costretti a spingere a mano, ogni giorno, un pesante carrello per chilometri e chilometri. E’ un panorama di povertà assoluta, di domicili ricavati da ammassi di cartone, di mancanza dei più elementari confort. Un mondo parallelo a quello ricco o anche, semplicemente, normale che stringe il cuore e testimonia con lucidità e senza ricorrere a tirate retoriche come la società in cui viviamo produca a ogni momento ingiustizie insopportabili.

Su un terreno analogo si muove anche la bulgara Sophia Tzavella che, in Rai Hotel (Hotel Paradiso), racconta il drammatico fallimento del tentativo, forzoso, di dare una casa stabile ai rom. Venticinque anni or sono il governo social - realista bulgaro fece costruire alcuni immensi caseggiati e vi collocò centinaia di nomadi. Come spesso capita l’operazione fu del tutto abborracciata, i palazzi edificati male, non finiti, i nateriali impiegati di pessima qualità. Oggi questi embrioni di case sono diventate un’immensa baraccopoli ove vivono migliaia di esseri umani senz’acqua corrente, sommersi dalla immondizie, privi persino dei parapetti nei terrazzini. La regista ci mostra qual è la realtà, ma non esita a unire le colpe dei politici all’incuria e alle ruberie degli inquilini. Il tutto attraverso la storia di una coppia gitana che vuole sposarsi e possedere una casa decente. Sarà l’intera comunità a farsi carico della bisogna e consentire ai due di avere un matrimonio apparentemente normale. Il film è ben costruito, fotografato magnificamente e la regista riesce a trovare qualche tratto poetico anche in mezzo ad un mondo indegno della peggiore condizione umana. C’è anche chi usa linguaggi non realisti per denunciare i medesimi crimini.

E’ il caso del disegno animaro The Greek crisis explained (La crisi greca spiegata) firmato dal gruppo Nomint che in tre minuti enuncia le ragioni che hanno portato al fallimento dell’economia ellenica. Naturalmente è un discorso volutamente schematico, ma il tratto del disegno e l’ironia collocano questo cortometraggio animato ai piani alti della riuscita artistica. Accanto a questi temi ve ne sono altri che potremmo definire più individuali, ma non meno importanti.

E’ il caso de Nel giardino dei suoni in cui lo svizzero Nicola Bellucci documenta il lavoro tenace di un musicista cieco che vive in un paesino toscano e usa la musicoterapia a favore di ragazzi ritardati o autistici. Il suo lavoro si fonde con un modo originale di sentire il mondo e stabilire con questi giovani sfortunati un canale, la musica, che lentamente li fa uscire dal loro isolamento. Il documentario è girato con molta delicatezza e vanta una fotografia straordinaria che fonde visivamente il lavoro di questo singolare artista e insegnate con la bellezza del paesaggio toscano.

 


Il cinema e il teatro hanno sempre avuto legami molto stretti, tanto che all’inizio della vita dei film, i registi si rivolgevano frequentemente a opere teatrali riportate sullo schermo in versioni ridotte e debitamente drammatizzate. La regista libanese Zeina Daccache si è impegnata in un’operazione assai simile a quella voluta da Davide Ferrario (Tutta colpa di Giuda – Una commedia con musica, 2008) nel carcere torinese delle Molinette: portare il teatro fra le mura di una prigione e usarlo come strumento di riabilitazione e recupero morale dei carcerati. Nel caso dell’italiano si trattava di mettere in scena una passione del Cristo per opera di una regista serba, qui di allestire una recita di uno dei testi più noti, sia al cinema sia in teatro: La parola ai giurati (Twelve angry men) di Reginald Rose (1929 – 2002). E' un’opera nata come telefilm e diventata un classico dopo essere stata scelta da Sidney Lumet quale soggetto della sua opera d’esordio, nel 1957. La vicenda è nota: dodici giurati sono riuniti per giudicare un ragazzo accusato di aver ucciso il padre. Sembra una cosa da nulla: ci sono le prove, una testimone oculare, perciò la prima votazione è quasi unanime, un solo giurato ha dei dubbi e costringe gli altri undici a un supplemento di riflessione, sino all’approdo a una decisione del tutto opposta a quella iniziale. Un testo di questo tipo, messo nelle mani a spacciatori, assassini, rapinatori, suscita sentimenti profondi e mette in discussione intere esistenze. Il film documenta il percorso di creazione dello spettacolo e, parallelamente, induce questo 12 libanesi arrabbiati a mettere in dubitare di certezze e stili di vita, sino a far baluginare speranze di esistenze diverse di cui, prima, non ammettevano neppure l’esistenza.

Sempre in tema di redenzione degli umili da segnalare A small act (Un piccolo gesto) dell’americana Jennifer Arnold che segue l’anno di diploma in una scuola del Kenya il cui finanziamento deve molto a un’anziana ebrea tedesca emigrata in Svezia per sfuggire al nazismo. Una tappa scolastica di grande importanza, perché solo a una decina di alunni saranno aperte le porte dell’educazione superiore e dell’università; gli altri saranno rigettati nella povertà e nella vita miserabile di villaggio. E’ un documentario inteso nel più classico dei termini, ma lineare nella costruzione e particolarmente commuovente, giacché gli esaminatori sono kenioti che sono riusciti ad affrancarsi grazie all’istruzione – due sono funzionari dell’ONU e vivono a Ginevra – e ora devono decidere chi merita una possibilità e chi, invece, termina qui la corsa verso una vita migliore.

E' molto forte anche il discorso del francese David Andrè che, in Everlasting Sorrow. Life after the Death Penalty (Dolore eterno. La vita dopo la pena di morte) segue la tragica vicenda di Sean Sellers, ucciso in un carcere dell’Oklahoma nel 1999, dopo trent'anni di detenzione. La sua terribile colpa era di aver assassinato, quando aveva appena sedici anni, la madre, il patrigno e il gestore di un negozio. Delitti orrendi, ma che non giustificano la tortura di passare tre decenni in attesa dell’iniezione letale. Inoltre era un crimine commesso da un minorenne e fu proprio il clamore suscitato dal caso a indurre la Corte Suprema a rivedere l’intera materia delle condanne a minori. Il film ha un taglio nettamente contrario alla pena di morte e allinea interviste agli esecutori, ai parenti delle vittime e agli amici del condannato. Particolarmente agghiaccianti quelle rilasciate da alcuni funzionari, fra cui una donna, che hanno collaborato materialmente all’esecuzione della condanna. Sono persone che, nel corso della loro vita lavorativa, hanno partecipato all’uccisione chi di venti, chi di trenta, chi di sessanta persone, l'hanno fatto con un burocratismo e una sostanziale insensibilità che li porta a non provare alcun ripensamento. Allo stesso modo il Pubblico Ministero che chiese e ottenne quella condanna, continua a parlare di giustizia divina anche ora che, alla soglia della novantina, quasi non riesce ad articolare parola. Sono figure riprese in case tappezzate da lazo, selle, corna di tori, simboli di una cultura della frontiera basata su un’apologia della violenza che ha ben poco a che fare con la giustizia.


 

The 13th Thessaloniki Documentary Festival – Images of the 21st Premi

Premio del pubblico:

Sezione internazionale (film di lunghezza superiore ai quarantacinque minuti)

GAZAZ TARER (Lacrime di Gaza) di Vikebe Lokkeberg, Norvegia, 2010

Sezione internazionale (film di lunghezza inferiore ai quarantacinque minuti)

OTEKI KASABA (L’altra città) di Nefin Dinc, Turchia, 2010

Sezione film greci (opere di lunghezza superiore ai quarantacinque minuti)

TO MORO MOU FTANEI (Anima buona) di Vivi Zografou e Alexis Ponse, Grecia, 2011

Sezione film greci (opere di lunghezza inferiore ai quarantacinque minuti)

SATSANG SYNDROFIA ME TIN ALITHIA (Satsang, messo a sedere dalla verità) di Marianna Astraka e Yiorgos Fotiadis, Grecia, 2011.

Premio FIPRESCI (Premio della critica Internazionale.)

Per la sezione dedicata al cinema greco

MONO OI LEXEIS SINEHIZOUN (Solo il mondo continua) di Kalliopi Legaki, Grecia, 2011.

Per la sezione internazionale

HOTEL RAI (Hotel Paradiso) di Sophia Tzavella, Bulgaria, 2010

Premio AMNESTY INTERNATIONAL

EVERLASTING SORROW, LIFE AFTER THE DEATH PENALTY (Una pena infinita, la vita dopo la condanna a morte) di David André, Francia, 2010.

Premio WWF

DEM HIMMEL GANZ NAH (Vicino al Paradiso) di Titus Faschina, Germania/Romania, 2010

Premio della Televisione pubblica greca (il premio consiste in 3.000 euro e in un passaggio sulla rete televisiva nazionale greca.)

UNE IDEE SIMPLE ET REVOLUTIONNAIRE (Un’idea semplice e rivoluzionaria) di Laetitia Moreau, Francia, 2010.

Menzioni speciali:

HOTEL RAI (Hotel Paradiso) di Sophia Tzavella, Bulgaria, 2010

DEM HIMMEL GANZ NAH (Vicino al Paradiso) di Titus Faschina, Germania/Romania, 2010

I VARDIA TOU PELEKANOU (Lo sguardo del pellicano) di Lea Binzer, Grecia, 2011

Premio della televisione pubblica greca (premio di 7.000 per un progetto di documentario per la televisione)

THE RETURN (Il ritorno), prodotto da Anita Rehoff Larsen, Sant & Usant Documentary Film, Norvegia, regia di Tone Andersen.

Premio EDN AWARD 2011 per lo sviluppo della cultura europea del documentario.

Dimitri Eipides, Direttore del Festival di Salonicco del documentario.