Plus Camerimage 2010 - Pagina 2

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Gaspar Noé è un regista visionario, lo dimostra anche in questo Enter the void (Entrare nel vuoto, nome di un locale notturno, ma anche sinonimo di nascita). Il materiale per la stampa parla di fratello e sorella molto legati, al limite dell'incesto, che vivono a Tokyo. Lui è un piccolo spacciatore, lei una ballerina di lap dance. Una notte il ragazzo è ucciso durante un'incursione della polizia in un locale notturno, ma il suo spirito rifiuta di abbandonare il mondo, sino a che non si sarà reincarnato nel feto che la donna porta in grembo. Tutto chiaro? Neanche per sogno, basti penare che il film ci mette oltre due ore e mezzo per raccontare questa storia, è interamente girato dall'altro, come se la macchina da presa fosse sempre posizionata sul soffitto di case e palazzi, che il dettaglio arriva sino a seguire lo spermatozoo che riporterà in vita il defunto, dall'eiaculazione, al passaggio nell'apparato sessuale della donna e all'impianto nell'ovulo. Tutto il resto è di conseguenza. La musica, poi, varia fra il monotono, il ripetitivo e l'improvvisamente assordante. In poche parole un giochetto presuntuoso che si traveste da discorso filosofico per inanellare sequenze ripetitive e fotografate in modo volutamente sfuocato. L'unico elemento interessante è la maestria tecnica con cui sono create immagini a dir poco impossibili, ma è un po' poco per un film in concorso ad una prestigiosa manifestazione come questa.
Mike Leight ha presentato la sua ultima fatica, Another Year (Un altro anno), che ha al centro quella che potremmo definire la famiglia perfetta. Gerri è psicologa e lavora in una struttura pubblica, Tom è geologo e sta collaborando ai carotaggi per la costruzione di una nuova fognatura londinese. Vanno d‘amore e d’accordo, amano la buona cucina, coltivano un orto biologico e curano i fiori in giardino, sono tranquilli e privi di problemi, il figlio sta percorrendo la sua strada, è andato via di casa, ma mantiene ottimi rapporti con loro. Attorno, un mondo che pare impazzito fatto com’è di persone insicure, infelici, sfortunate, incapaci di reggere il ritmo della vita. S’i inizia con una casalinga che vuole le siano prescritti dei sonniferi, altrimenti non riesce a dormire e il sonno è il solo momento in cui può allontanarsi da una vita infelice. Si prosegue - sarà una delle linee guida del film - con la donna stagionata ma ancora velleitaria, incapace di fare qualsiasi cosa pratica, tranne il lavoro d’'ufficio, pessima cuoca, innamorata insensatamente del figlio della coppia felice. Si procede con il fratello di Tom annichilito dal dolore per la morte della moglie e in pieno conflitto con il figlio. Tutto questo è cadenzato dallo scorrere delle stagioni, dalla primavera all'’inverno. Forse non è l'’opera migliore di questo regista che spesso si è rivolto a temi di forte impatto sociale come Tutto o niente (All or Nothing, 2002) o Il segreto di Vera Drake (Vera Drake, Leone d’Oro alla Mostra di Venezia 2004), ma che non ha mai disdegnato la commedia o, persino, il biografico - musicale (Topsy-Turvy, 1999). Questa volta il disegno riguarda la borghesia medio - alta. Nessuno dei personaggi ha veri problemi economici, ma tutti - tranne la coppia catalizzatrice - sono preda a malesseri e a triboli esistenziali che rendono difficile il vivere. In questo modo finiscono con ’assumere un ruolo di protagonisti, relegando sullo sfondo quelli che, a prima vista, appaiono al centro del film. Questo nel senso che le figure di questi uomini e donne turbati e insicuri costruiscono qualche cosa di molto vivo e si trasformano nei veri poli d’attrazione dello sguardo dello spettatore.
Jerzy Skolimowski è un regista polacco che ha firmato oltre venti titoli che spaziano, con risultati alterni, dal ritratto psicologico (Le départ - Il vergine, 1967) ai temi sociali (Moonlighting, 1982). Alla Mostra ha presentato la sua ultima fatica che sta in mezzo fra questi due poli. Essential Killing (Omicidi essenziali) narra di un combattente talebano catturato dagli americani in Afghanistan e trasferito in un non meglio precisato paese europeo (il film è stato girato fra Russia e Norvegia). Dopo essere stato torturato, riesce a fuggire sfruttando un incidente d’auto occorso al mezzo che lo trasporta. Ora è solo, mal equipaggiato e affamato in un deserto bianco e dovrà uccidere per sopravvivere e, nel finale, morire dissanguato. Il film tende a costruire una metafora sull’impossibilità di evadere dall’orrore della guerra. Un discorso ricco d’interesse che il regista non fa crescere sino a trasformarlo in vero apologo morale. La stessa bellezza della fotografia e il ritmo serrato del racconto finiscono per spostare il discorso più sul versante dell’avventura che non su quello della parabola. Il risultato è un film magnifico nelle immagini, perfetto nella suspense, ma quasi raggelato nel discorso. Scavando nella memoria ritroviamo un testo, Diamanti noci (Diamanti della notte, 1964) del ceco Jan Nemec sorretto da una storia e un obiettivo molto simili, anche se là erano due giovani ebrei a sfuggire ai cacciatori nazisti, ma capace di coniugare il pathos con un lucido discorso morale e politico, cosa che in questo caso manca.