43º Sitges Festival Internacional de Cinema de Catalunya 2010 - Pagina 5

Stampa
PDF
Indice
43º Sitges Festival Internacional de Cinema de Catalunya 2010
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
Pagina 6
Pagina 7
Pagina 8
Pagina 9
Tutte le pagine

 

E' difficile fare una cernita tra i venti film in cartellone al Festival ogni giorno Procedendo per temi e attenendosi ai titoli in concorso risaltano due film di autori francesi: Rubber (Pneumatico) di Quentin Dupieux e Hybrid 3D di Eric Valette. Il primo più che un film sembra una scommessa: vincente. Fin dal prologo ripete che la finzione si sovrappone alla realtà persino in film apparentemente realisti. E il protagonista è un copertone d’automobile, pensante e quindi acerrimo nemico di chi lo maltratta. Sfruttato da alcuni agenti senza scrupoli, la ruota gommata si ribella e diventa la vendicatrice dei torti subiti. Insospettato, all’inizio, delle sue scorribande, dovrà poi affrontare apertamente chi gli dà la caccia. Thriller tragicomico di ottantaquattro minuti è girato in inglese su paesaggio desertico americano. Calorosi applausi hanno accolto le molte situazioni grottesche e a volte esilaranti.

Protagonista del secondo film è un’automobile. Non è la prima volta di una macchina diabolica protagonista di un film, ma qui tutto accade in un parcheggio sotterraneo e dura una novantina di minuti. L’auto assassina affronta sei dipendenti del garage: tre meccanici, due ragazze e il gerente. Girato in 3D su sceneggiatura di Neal Marshall Stevens, il thriller aumenta in suspense man mano che gli spazi del parcheggio si restringono e i meccanici cominciano a soccombere. Lontano da pensieri profondi, il film s’impone come test d’azione, con eroi improvvisati in situazioni sempre nuove, sino a un finale epico. Fra gli interpreti ci sono Melanie Papalia, Shannon Beckner, Oded Fehr.

 

 

E' francese anche il debutto di Romain Gavras con Notre jour viendra (Verrà il nostro giorno) con Vincent Cassel e Olivier Barthelemy. Siamo dalle parti di Pierrot le fou (1965) di Jean-Luc Godard (1930), ma in una versione nera, priva di qualsiasi speranza. Rémy, studente dai capelli rossi, maltrattato dai colleghi, lascia il liceo e incontra Patrick, psicoterapeuta, anche lui rosso di capelli. L’uno e l’altro sono in fuga, come due pellerossa banditi delle loro terre. Patrick diventa la guida, e insegna al giovane come scaricare la sua ira. Insieme incappano in avventure sulla strada e più sono minacciati, più diventano minacciosi e pericolosi. Il loro comportamento diventa progressivamente più violento, ma non conduce in nessun luogo. Sognano l’Irlanda, ma non vi approderanno proprio per la somma delle loro violenze. Superba interpretazione di Vincent Cassel che qui è stato insignito del Gran Premi Honrífic.

Parlando di violenza non si può non trattare del film di Hong Kong Wai dor lei ah yut ho (Casa dei sogni) di Pang Ho-cheung che nel 2006 vinse l’Orso d’argento a Berlino con Isabella. Ambientato prima dell’esplosione della bolla immobiliare, mostra la difficoltà per i giovani di Hong Kong di comprarsi casa. Nella città più affollata del mondo, i prezzi degli appartamenti sono alle stelle. Cheng (Josie Ho), una ragazza che svolge un paio di lavori e il cui padre è malato, si convince che l’unico modo per ottenere un appartamento sia di eliminare i concorrenti. In un film totalmente Gore, dove gli omicidi sono commessi in maniere sempre più originali e più spettacolari, la ragazza sopprime con freddezza e determinazione giovani e adulti che direttamente o casualmente intralciano la sua strada. Contratta in maniera urbana l’acquisto dell’appartamento, e si comporta da brava figlia di famiglia, poi entra in azione la personalità occulta, quella criminale, e lascia una scia di sangue.  Alla fine, come avveniva ne La cagna (La chienne, 1931) di Jean Renoir, il colpevole non paga. Cheng, infatti, ottiene il suo appartamento e il film dà l’illusione di chiudersi con un lieto fine.Dal crimine che paga all’imbroglio che si vende bene, il passaggio porta nella provincia americana dove il tedesco Daniel Stamm ha girato un mockumentary sul reverendo Marcus Cotton (Patrick Fabian) che collabora col regista per svelargli come riesce a mettere in scena (finti) esorcismi che gli permettono di mantenere la famiglia. Buon parlatore e ottimo tecnico, Marcus Cotton accetta di partecipare al film quale atto riparatore e di redenzione delle sue truffe. Stabilito l’accordo, la troupe si reca in una fattoria isolata della Louisiana, dove un padre è ricorso all’esorcista per fermare l’improvvisa morte del bestiame e incomprensibili atti della figlia adolescente. The Last Exorcism (L’ultimo esorcismo) è, appunto, quello fatto alla presenza di una troupe, accettata dal fattore e dall’esorcista, che, da una parte tenta di tranquillizzare il contadino tramite un atto condotto sulla figlia, dall’altro mostra allo spettatore i trucchi di cui si avvale Cotton per rendere plausibili i suoi miracoli. Novanta minuti di tensione, nel tentativo di illustrare il meccanismo di una pratica  molto diffusa negli Usa e un film che si lascia vedere proprio per seguire la volontà di demistificazione di quel comportamento.

Didattico, in qualche misura, il film appena citato, come la produzione ispano - italiana De mayor quiero ser soldado (Da adulto voglio essere un soldato) di Christian Molina girato in inglese con attori statunitensi (Danny Glover e Robert Englund in ruoli secondari), la partecipazione di Valeria Marini, e interpretato da Fergus Riordan, Ben Temple, Andrew Tarbet e Joe Kelly. Ne è protagonista Alex, otto anni, con due amici immaginari: uno buono, l’astronauta, e uno malvagio, il militare. Quando nascono due gemelli, Alex si sente trascurato e riesce a farsi comprare una piccola Tv per la sua stanza da letto. Dichiara il regista: un adolescente a diciotto anni avrà visto in Tv 40.000 omicidi e 200.000 atti di violenza. E l’influenza della televisione su Alex già si vede a dieci anni quando, rinunciando all’amicizia con l’astronauta, segue le istruzioni del militare e a scuola si comporta da bullo. In evidenza la difficoltà dei genitori a educare il bambino in un mondo che escluda punizioni. Alex stringe amicizia con altri allievi aggressivi fino a quando la violenza gli si rivolterà contro. Il tema affrontato dal regista nel suo quarto film è interessante, ma va detto che l’intento didattico prevale sullo spettacolo.

In fine un film totalmente americano, Super di James Gunn, regista formatosi nella Troma di Lloyd Kauffman, che con vena comica, affronta un tema molto caro agli statunitensi, il superuomo che si batte per riparare i torti. Il tema interessa anche i cinesi giudicando dal uno dei film in concorso, visto anche a Venezia, Legend of the Fist: the Return of Chen Zen di Andrew Lau. Super (Rainn Wilson), cuoco in un fast food, è sposato con una splendida cameriera (Liv Tyler). Quando uno sbandato che traffica in droga (Kevin Bacon) gli soffia la donna, lui che ha sempre amato le serie di superuomini alla tivù, si allena e si compra una maschera per aiutare poveracci in difficoltà. Lo seguirà una commessa di videoteca (Ellen Page) che lo ritiene autore di azioni eccezionali. Ottengono alcuni successi, ma ci vorrà del tempo prima di debellare la banda dell’uomo che gli ha sottratto la moglie. Volutamente comico, perché il protagonista è un ciccione d’improbabile successo, il film di Gunn fornisce un discreto passatempo.