Anna dei miracoli

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Anna dei miracoli

I premi Oscar del 1963 coronarono (miglior attrice -Anne Bancroft-,  miglior attrice non protagonista – Patty Duke-) · Anna dei miracoli (The Miracle Worker) che Arthur Penn aveva tratto dal l’omonimo dramma teatrale di William Gibson (1914 – 2008) che prese spunto da un fatto di cronaca accaduto nel 1886 a Tuscumbia, in Alabama, ove viveva la sordo-cieca Helen Keller che famiglia affidò a un’insegnate, Anne Sullivan, che si rivelò capace di reinserirla nella società.

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Compagnia
TEATRO FRANCO PARENTI per L’ASSOCIAZIONE LEGA DEL FILO D’ORO

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La tempesta (a)

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La tempesta (a)

William Shakespeare (1564 -1616) scrisse La tempesta (The Tempest) tra il 1610 e il 1611. L’opera è tradizionalmente considerata la penultima di questo autore, l'ultima interamente sua, ed è vista da molti come il testo che segnò il suo addio alle scene. Fu rappresentata per la prima volta al Whitehall Palace di Londra il primo novembre del 1611 e in seguito, probabilmente fu messa in scena anche al Globe Theatre e al Blackfriars Theatre. 

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Compagnia
TEATRO STABILE DI NAPOLI TEATRO NAZIONALE, TEATRO NAZIONALE DI GENOVA, FONDAZIONE CAMPANIA DEI FESTIVAL – NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA

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Lucido (a)

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Lucido (a)

Rafael Spregelburd è un autore e attore argentino a cui si deve Lucido, il testo teatrale pluripremiato e che ora Jurij Ferrini, fedele all’impostazione di fondo del progetto U.R.T. (Unità di Ricerca Teatrale), ha messo in scena e interpretato. 

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TEATRO NAZIONALE DI GENOVA, PROGETTO U.R.T.

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Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato)

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Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato)

Un buon borghese, di quelli di una volta per bene e corretto, si è ritirato e ha aperto un piccolo studio medico in un paesino di campagna ove vive in condizione di quasi eremita. I figli e il fratello vanno a trovarlo e a fargli festa per il suo compleanno, ma le visite che si riveleranno null’altro che un sogno (meglio una speranza) mon servono a rimetterlo in careggiata. La vita attiva è passata, gli affetti familiari non esistono più e, in ogni caso, non riuscirebbero a lenire un male di vivere che lo attanaglia in maniera irrimediabile. Si nota all’imbrunire di è un testo melanconico dedicato a un grande attore e, non a caso, Silvio Orlando la ha scelto per questo momento della sua vita professionale.

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CARDELLINO SRL, TEATRO STABILE DELL’UMBRIA in collaborazione con NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA

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Io sono il mio lavoro

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Pino Petruzelli è un grande narratore di storie di lavoro e guerra. Il suo modo di raccontare coinvolge sia i modi stabili, sia la capacità di raccontare storie stancanti sia l’esaltazione del lavoro apparentemente normale.

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TEATRO NAZIONALE DI GENOVA, MITTELFEST

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La cena delle belve

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Roma durante l’occupazione nazista. Gli americani stanno per arrivare gli scontri di Porta San Paolo sono terminati da poco e i nazisti (settembre 1943) stanno confrontandosi con i continui attentati della Resistenza. 

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GIANLUCA RAMAZZOTTI PER GINEVRA MEDIA PRODUCTION SRL, CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA TEATRO CARCANO

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Rumori fuori scena

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Rumori fuori scena

Valerio Binasco - attore e regista diplomato alla scuola dello Stabile genovese – e attualmente direttore artistico del Teatro Stabile Torino, si è particolarmente impegnato per mettere in scena un testo dell’inglese Michael Frayn da lui completato nel 1977 ma che ha avuto la sua prima rappresentazione solo 5 anni dopo: è la cronistoria della preparazione di una commedia sexy da parte di compagnia che evidenzia molti problemi. Non parrebbe un testo che interessi ad uno Stabile, è un metateatrale (il teatro nel teatro) comico, lontano da tanti lavori su cui si impegnano strutture pubbliche. Binasco ha creduto tanto nel progetto, da curarne la regia e da proporsi anche come interprete: con una scelta non certo occasionale, interpreta il regista. L’impressione che si ha è di essere di fronte ad una commedia che richiede molto agli interpreti (sono quasi due ore e mezzo sul palcoscenico) ma con la sensazione di non essere troppo coinvolti dalla vicenda. Intendiamoci, le battute ci sono (e si ride molto), le trovate sono bene calibrate, ma vari degli interpreti danno l’impressione di non avere molta dimestichezza col teatro leggero; per creare il giusto ritmo il regista impone un frenetico correre da una parte all’altra sul palcoscenico: funziona per la durata del primo tempo ma poi, piano piano scema verso la noia. Impossibile dimenticarsi (e, purtroppo, non fare confronti) con la trasposizione cinematografica di Peter Bogdanovich del 1992 che aveva tra gli interpreti Michael Caine e Christopher Reeve; ovviamente, c’è chi valuta migliore l’edizione teatrale, ma ricordando bene scene e trovate, il giudizio qui scritto tende a considerare quei 100 minuti di film superiori ai 145 dell’edizione teatrale. Con questo, il lavoro di Binasco è sicuramente interessante e, grazie alle scenografie create con intelligenza da Margherita Palli (sono quelle della commedia che viene provata e messa in scena dalla scapestrata compagnia teatrale) vediamo anche il dietro le quinte con la drammaticità dei rapporti tra i vari componenti del gruppo. Tutto appare come in una sit com americana con dialoghi divertenti ma un po’ scontati.

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Teatro Stabile di Torino Teatro Nazionale con il sostegno di Fondazione CRT

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I figli della frettolosa

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I figli della frettolosa

Il titolo è riferito al detto popolare (ma nella sua creazione in alcuni intravvedono la filosofia delle favole di Esopo) La gatta frettolosa fece i gattini ciechi. Proprio questa capacità di scherzare su quella che in tanti valutano solo come un limite, la cecità, è il motore che rende uno spettacolo con argomenti seri e seriosi un’occasione di sorridere ma anche di pensare. Non vedere con gli occhi può permettere di potenziare altri sensi, di essere in grado di godere meglio dei profumi, di assaporare in maniera più completa il cibo, di donare alle mani la loro completa capacità tattile. Tutte cose dette e fatte capire, all’interno di un’opera intimista capace di emozionare per un’ora e più. Sul palcoscenico autentico mattatore Gianfranco Berardi, non vedente, che dimostra quanti siano i limiti che ci imponiamo per non avere la volontà ed il coraggio di superare le avversità che il destino ci ha inflitto. Con lui, artisti dotati di vista che muovono, spostano, accompagnano, aiutano in una specie di balletto chi cieco lo è davvero. Ed allora tutti assieme per dimostrare che ogni differenza può essere un dono, essere considerata come possibilità di una vittoria che gratifica chi supera barriere spesso accentuate da noi stessi in maniera inconscia. L’inizio con un trenino dall’andamento mesto, una mano per tenere il bastone bianco e l’altra da poggiare sulle spalle di chi ci precede, presenta gli otto personaggi che daranno vita alla piéce. Camminano in platea, sotto il palcoscenico e quasi faticosamente salgono gli scalini che li porteranno sul palcoscenico. Qui immediatamente la trasformazione: più sono le situazioni allegre (o vissute con ironia) che non quelle drammatiche. Si palpa la serenità, la voglia di esistere, la capacità di pensare ad un futuro da vivere autonomamente. Alcuni monologhi raccontano le storie dei vari protagonisti, dei momenti vissuti in prima persona che hanno lasciato un segno spesso indelebile. Sono scritti davvero bene da Gianfranco Berardi  e da Gabriella Casolari che condividono anche la regia e l’interpretazione: si sono incontrati nel 2001 lavorando nella produzione Viaggio di Pulcinella alla ricerca di Giuseppe Verdi di e con Marco Manchisi, da quel momento hanno iniziato un percorso che ha avuto il suo logico coronamento nella Compagnia Berardi Casolari. Siamo nel maggio 2008 e da quel momento si sono impegnati ancora di più nel creare opere originali, pensate scritte e vissute da loro nell’ambito di una produzione che può essere correttamente inserita nel microcosmo del teatro contemporaneo affondando le sue radici in quella branchia conosciuta come nuova drammaturgia. 

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Teatro dell’Elfo, Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse e Sardegna Teatro in collaborazione con Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti di Milano e di Cagliari con il patrocinio di Istituto David Chiossone Onlus e Unione Ciechi e Ipovedenti Genova

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Una mano mozzata a Spokane

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Una mano mozzata a Spokane

Nella penombra una camera da letto di un hotel non certo lussuoso: si intravvede un uomo che reagisce in maniera violenta al rumore proveniente da un mobiletto: lo apre e spara alla persona che era lì dentro rannicchiata. Si ha la sensazione che possa essere morta, ma così non è. Questo è l’inizio di Una mano mozzata a Spokane nella traduzione e adattamento del regista genovese Carlo Sciaccaluga. Primo testo scritto dal drammaturgo britannico Martin McDonagh ad essere ambiento negli Stati Uniti, al suo debutto a Broadway nel 2010 ha ottenuto buon successo di pubblico e contrastanti giudizi della critica. Commedia noir in cui spesso il timbro preferito è quello dell’esagerazione, si ride e si attende con un certo piacere quale sarà lo sviluppo della vicenda, quali le piccole e grandi trovate per trasformare una vicenda descrivibile in poche righe in una commedia da 80 minuti. Ruota tutto attorno ad un sicario di mezza età che ha segregato nella sua camera una coppia di fidanzati colpevoli di avere tentato di vendergli una mano rubata in un museo spacciandola come quella che lui sta cercando da quando era stata troncata di netto 27 anni prima a causa di montanari che lo avevano tenuto fermo mentre un treno merci gli tranciava di netto l’arto. Premesse rese ancora più grottesche dalla presenza di un addetto alla reception ex galeotto con problemi caratteriali e dalla madre dell’assassino che non risponde al telefono preoccupando l’affezionato figlio; quando ritelefona chiede della salute del suo ‘bambino’, apprensiva come tante mamme, nonostante sia caduta da un albero fratturandosi i piedi. La bravura dell’autore sta soprattutto nella creazione di gag irresistibili, alcune delle quali particolarmente macabre perché legate ad una pletora di mani mozzate. Si ride con un testo politicamente scorretto in cui l’ilarità viene alimentata da situazioni formalmente drammatiche, in cui i fidanzatini sono ammanettati sempre ad un calorifero, in cui il killer minaccia di fare esplodere tutto (ha anche una tanica piena di benzina). Ma c’è sempre una certa malinconia, tutti i personaggi sono degli emarginati, persone che probabilmente vorrebbero avere una chance per cambiare la propria esistenza.

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ariaTeatro

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Il nipote di Wittengstein

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Il nipote di Wittengstein

Per Umberto Orsini Il nipote di Wittengstein è un testo con cui raffrontarsi, rileggendolo in vari momenti della sua ormai lunghissima militanza sul palcoscenico. Il rapporto artistico col libro scritto da Thomas Bernhard è iniziato nel febbraio con la prima trasposizione del 1992 al Piccolo Eliseo – della struttura teatrale romana è stato anche direttore artistico dal 1980 al 1998 dimostrando bravura e capacità innovative – proseguendo nel 2001 con l’edizione prodotta da Emilia Romagna Teatro Fondazione che gli valse anche il Premio Ubu 2001 come miglior attore. E’ stato presentato anche al Teatro Franco Parenti di Milano nel 2002, e al Teatro Biondi di Palermo nel 2004. Nel 2007, senza sentire il passare del tempo e confermandosi nel suo percorso teatrale opera fondamentale, lo ripropone per festeggiare i 50 anni di carriera. In questa stagione lo riprende prodotto dalla sua Compagnia che Orsini ha intensamente voluto per cercare di donare vitalità di un’arte espressiva di cui in troppi decretano una crisi irreversibile. Per capire lo spirito con cui l’attore ottantacinquenne affronta il testo, può essere interessante citare le sue parole. Non cerco di interpretare un personaggio, non "faccio Bernhard", qui ho deciso di "essere Bernhard" e quindi più che fare un personaggio sono me stesso che parla con le parole di un autore grandissimo, che finirà comunque per prevaricarmi e quindi rappresentarsi. Il rapporto che si crea magicamente tra Orsini ed il pubblico è unico, dopo pochi minuti si è davanti a Bernhard, ci si dimentica che sia un attore ad interpretarlo. Il monologo, calibrato nei toni con assoluta bravura, passa da momenti di estrema dolcezza ad altri di durezza assoluta in cui sa essere odioso con quel suo modo di gettare invettive contro tutto e tutti. E’ una grande prova d’attore, la dimostrazione che ogni volta riesce ad emozionare ed emozionarsi, una prova anche fisica notevole: sul palcoscenico è da solo o, meglio, ogni tanto appare Elisabetta Piccolomini, interprete in precedenti edizioni dello stesso personaggio, timorosa domestica che deve sopportare lo scontroso ‘padrone’ – sì, padrone è il termine giusto – che la tratta male, con cui ha un continuo scontro, ma sempre rispettando il suo ruolo di sottoposta; gli unici momenti di ribellione sono nella gestione della finestra, che lei continua (ad aprire) a chiudere nonostante il volere di Bernhard. La donna pulisce per terra, scopa, lo aiuta nei frequenti cambi di costume ma non esiste, non ha una sua possibilità di essere considerata come essere umano, è un’ancella a cui è richiesto solo di lavorare. Un terzo personaggio è una donna che mai si vede e a cui ogni momento del monologo è rivolto. 

Cast, Crew, Infos - Teatro

Compagnia
Compagnia Umberto Orsini

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