Per Umberto Orsini Il nipote di Wittengstein è un testo con cui raffrontarsi, rileggendolo in vari momenti della sua ormai lunghissima militanza sul palcoscenico. Il rapporto artistico col libro scritto da Thomas Bernhard è iniziato nel febbraio con la prima trasposizione del 1992 al Piccolo Eliseo – della struttura teatrale romana è stato anche direttore artistico dal 1980 al 1998 dimostrando bravura e capacità innovative – proseguendo nel 2001 con l’edizione prodotta da Emilia Romagna Teatro Fondazione che gli valse anche il Premio Ubu 2001 come miglior attore. E’ stato presentato anche al Teatro Franco Parenti di Milano nel 2002, e al Teatro Biondi di Palermo nel 2004. Nel 2007, senza sentire il passare del tempo e confermandosi nel suo percorso teatrale opera fondamentale, lo ripropone per festeggiare i 50 anni di carriera. In questa stagione lo riprende prodotto dalla sua Compagnia che Orsini ha intensamente voluto per cercare di donare vitalità di un’arte espressiva di cui in troppi decretano una crisi irreversibile. Per capire lo spirito con cui l’attore ottantacinquenne affronta il testo, può essere interessante citare le sue parole. Non cerco di interpretare un personaggio, non "faccio Bernhard", qui ho deciso di "essere Bernhard" e quindi più che fare un personaggio sono me stesso che parla con le parole di un autore grandissimo, che finirà comunque per prevaricarmi e quindi rappresentarsi. Il rapporto che si crea magicamente tra Orsini ed il pubblico è unico, dopo pochi minuti si è davanti a Bernhard, ci si dimentica che sia un attore ad interpretarlo. Il monologo, calibrato nei toni con assoluta bravura, passa da momenti di estrema dolcezza ad altri di durezza assoluta in cui sa essere odioso con quel suo modo di gettare invettive contro tutto e tutti. E’ una grande prova d’attore, la dimostrazione che ogni volta riesce ad emozionare ed emozionarsi, una prova anche fisica notevole: sul palcoscenico è da solo o, meglio, ogni tanto appare Elisabetta Piccolomini, interprete in precedenti edizioni dello stesso personaggio, timorosa domestica che deve sopportare lo scontroso ‘padrone’ – sì, padrone è il termine giusto – che la tratta male, con cui ha un continuo scontro, ma sempre rispettando il suo ruolo di sottoposta; gli unici momenti di ribellione sono nella gestione della finestra, che lei continua (ad aprire) a chiudere nonostante il volere di Bernhard. La donna pulisce per terra, scopa, lo aiuta nei frequenti cambi di costume ma non esiste, non ha una sua possibilità di essere considerata come essere umano, è un’ancella a cui è richiesto solo di lavorare. Un terzo personaggio è una donna che mai si vede e a cui ogni momento del monologo è rivolto.
La commedia è basata sulla parola e la parola si trasforma in immagini, in momenti che noi ‘vediamo’ davanti agli occhi senza accorgerci che sono vivi solo nella nostra mente: la scarna scenografia diventa ricca nelle particolareggiate descrizioni di emozioni vissute dal protagonista. Il romanzo scritto nei primi anni ottanta da Thomas Bernhard sa essere feroce nei confronti di una società che l’autore disprezza, dice molto di lui e dell’amicizia con Paul, nipote del famosissimo filosofo Ludwig Wittgenstein, che soffre uno dei suoi periodici attacchi di follia. C’è molto dell’autobiografico ma anche invenzioni atte a rendere più coinvolgente la storia. E’ probabilmente uno dei suoi migliori libri, in cui unisce al suo usuale cinismo e alla capacità di raccontare molto della vita austriaca uno sguardo approfondito sul suo privato, presentato in maniera molto diretta. La regia è sempre quella originaria del settantaduenne francese Patrick Guinand.