47° Festival Internazionale del Film di Salonicco - Pagina 3

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47° Festival Internazionale del Film di Salonicco
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Rapporti di famiglia
Per quanto riguarda il concorso internazionale, si sono imposti all’attenzione alcuni titoli. Iniziamo con quello che ha ottenuto il maggior numero di palmares: massimo premio della sezione competitiva (Golden Alexander), riconoscimento collettivo alle interpreti come migliori attrici, premio del pubblico. E' Gajokeui tansaeng (Rapporti di famiglia), opera seconda del sudcoreano Kim Tae-yong, il cui primo film Yeogo goedam II (Memento Mori, 1999) ha suscitato molto interesse e vinto un premio al Sundance Film Festival del 2001. Al centro del film c’è il tema delle relazioni fra donne già presente nell’opera prima ove due ragazzine giuravano di seguirsi nella morte. Questa volta si parla di tre generazioni di donne che devono fare i conti con uomini irresponsabili e pasticcioni. Sono loro il vero pilastro della vita familiare e, anziane o giovani, incarnano uno spirito d’indipendenza e una forza di carattere che, se non rischiassimo di essere fraintesi, potremmo definire virile. Di madre in figlia, di sorella in cugina queste femmine di ferro superano le difficoltà e i guai in cui le gettano i maschi e trovano pace in un finale in cui la famiglia è ricostruita come un gineceo solidale che mette alla porta gli uomini, tranne uno il più insicuro e poetico, destinato forse ad un uso riproduttivo comune, quantomeno comunemente gestito. Il film è accattivante, originale nel modo di raccontare, solido nella costruzione. Roma wa la n’touma (Meglio Roma di te) dell’algerino Tariq Teguia ha vinto il Premio della riconciliazione, strana scelta per un’opera che offre un quadro terribile della disperazione, le vessazioni, il vuoto in cui sono immersi i giovani di quel paese costretti a fare i conti fra tradizioni che sconfinano nel fanatismo, polizia violenta e corrotta e la mancanza di futuro. Zina e Kamel sono fidanzati ed entrambi subiscono le conseguenze di una guerra non dichiarata, fra esercito e GIA islamica, che in dieci anni ha prodotto più di 100 mila vittime. Basta che una notte si attardino in un bar di periferia, per essere fermati da poliziotti dai metodi sbrigativi e costretti ad attendere il mattino in un rifugio di fortuna, per il subentrato coprifuoco. Il locale sporco e diruto in cui dormono è il simbolo eloquente di un paese disastrato. E' un film semplice, ma efficace nel suo raccontare una storia apparentemente privata, in realtà molto simbolica.
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La bella vita
Da segnalare anche Day Night Day Night di Julia Loktev, che quest'anno ha vinto il premio Regards jeunes alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes. La storia ruota attorno la preparazione e la tentata attuazione di un attentato a Times Square, dove una giovane dovrebbe farsi esplodere uccidendo decine di passanti. Nulla è detto sulle ragioni che spingono la terrorista ad immolarsi, così come non sapremo se la mancata esplosione dello zaino - bomba sia causata dal mal funzionamento dell’innesto o se tutta la cosa è stata montata per un qualche secondo fine. Quel che è certo che l’immagine finale della ragazza che piange, sola e abbandonata da tutti, in un angolo di strada ci dice non poche cose sulla disperazione che l’ha spinta ad un gesto tanto estremo. La forza del film è nella descrizione precisa e minuziosa della psicologia di questa suicida che Luisa Williams interpreta in modo straordinario.
Schöner Leben (La bella vita) del tedesco Markus Herling mette assieme alcune storie di solitudine e disperazione sullo sfondo della vigilia di Natale, C’è l’amante abbandonato che non riesce a darsi pace e sprofonda nell’alcolismo, la donna divorziata che non sa come recuperare i soldi necessari ad offrire un pasto decente ai figli e arriva a progettare una rapina, c’è l’attore in crisi che ritrova fiducia quando ottiene l’applauso dei passeggeri di un vagone del metro dopo un’esibizione estemporanea, c’è la donna sola e in carriera che vuole registrare un filmato da mandare al ragazzo africano che ha preso in adozione a distanza e il conduttore del metrò a cui è affidata. Quest’ultimo episodio è il più commuovente perché l’uomo nasconde un terribile segreto e, quando riuscirà a farne partecipe l’occasionale compagna, ritroverà la gioia di vivere. Sono storie che trovano una casuale confluenza in un vagone della metropolitana e che disegnano, nel complesso, una conclusione in carattere con lo spirito di quelle ore. E’ un film dal tessuto sostanzialmente ottimista, generoso e interessante, ma nulla più. Generoso e interessante, ma nulla più. The point del canadese Joshua Dorsey è stato costruito sulle esperienze e le interviste realizzate a 35 giovani che abitano nel sobborgo degradato di Point St. Charles, a Montreal, un quartiere comunemente detto The point. I ragazzi hanno poi interpretato se stessi in una decina di storie di piccolo spaccio, feste casalinghe, gelosie e partite di pallacanestro. Il film ricorda molto Kids (1995) di Larry Clark, con un senso decisamente minore di compiacimento e di ricerca dello scandalo a tutti i costi. Ciò che più interessa è l’immagine di questi ragazzi cui la vita non offre alcuna prospettiva se non il sesso, come antidoto alla noia, o i traffici illeciti, come unico modo di raccattare un po’ di denaro. Un quadro degradante di una delle tante periferie del mondo ricco.