28 Ottobre 2014
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36° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier |
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L’unica presenza italiana in un concorso e un festival molto sensibile alla presenza del nostro cinema è stata quella de I milionari di Alessandro Piva che ha raccontato una storia criminale desunta dalla cronache, quella di un camorrista, soprannominato Alendelon, che fa carriera sin da ragazzino in un clan in cui il fratello maggiore ha un ruolo importante. Fra ammazzamenti, scontri con altri malavitosi, accordi con gruppi di malavita spagnola, arriva sino al vertice della gerarchia riuscendo (quasi) a mantenere la famiglia fuori dal giro criminale. Tutto crolla nel momento in cui le forze dell’ordine riescono a trovare le prove dei suoi delitti e lo arrestano. A questo punto si trasforma in collaboratore di giustizia, manda in prigione decine di altri criminali e inizia una nuova vita con un altro nome e in una località segreta. Il regista segue negli anni questa vicenda con un’attenzione particolare alla scenografia, tanto che l’interno grossolano e kitsch delle varie case in cui il protagonista va a vivere potrebbe essere preso a modello per decine di storie di malavita napoletana. Ciò che manca è un respiro che vada oltre il telefilm per approdare ad una storia articolata in modo giusto e connessa con precisione al mondo esterno. Va anche detto che il lavoro registico non è stato per nulla facilitato da prestazioni attoriali sotto il limite della sufficienza e pericolosamente vicine alla macchietta. In altre parole un testo modesto e di minimo valore informativo.
E’ andata ancora peggio con Certifiée Halal (Garantito Halal) dell’algerino Mahamoud Zemmouri, una commediola degli equivoci ambientata fra la Francia e l’Algeria profonda e basta su un paio di matrimoni, con relativo scambio di spose, che dovrebbero soddisfare le richieste di purezza, leggi verginità, imposte dai futuri mariti. Una delle due arriva semi drogata da Parigi e non ha la idea del fatto che il fratello l’abbia maritata, a sua insaputa, a un possidente. I caratteri sono disegnati in maniera meno che sommaria e le macchiette impazzano. In poche parole un’operina inutile e sottilmente reazionaria di cui si fa fatica a giustificare la presenza in un Festival di Cinema.
Ci si è rifatti con Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) del georgiano George Ovashvili, una coproduzione a cui hanno partecipato Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca e Kazakistan. Vasto consesso internazionale per un film molto bello che si colloca fra i migliori visti nella sezione competitiva del festival. E’ un’opera quasi muta in cui si racconta la faticosa costruzione, su un’isola in mezzo a un fiume che separa Georgia e Abkhazia, di una capanna e un campo di mais. A volere tenacemente quelle cose è un vecchio contadino abkhazo aiutato da una ragazzina orfana che lui protegge. Si ritrovano entrambi nel bel mezzo dello scontro fra due eserciti (siano nei primi anni novanta e l’Abkhazia ha da poco proclamato l’indipendenza dalla Georgia), ma loro vogliono solo vivere pacificamente, sopportando con pazienza la dura fatica dei campi e la furia della natura. Difficoltà a cui si aggiungono gli odi e le irruzioni di uomini armati e famelici sia di alcol sia di sesso. Quando nel campo trovano un soldato georgiano seriamente ferito, il vecchio non esita ad accoglierlo, curarlo e nasconderlo agli stessi militari abkhazi. Ne avrà in cambio l’amara constatazione che la giovane inizia ad interessarsi al ferito, quasi un suo coetaneo, e questi non rifiuta le sue attenzioni. Il patriarca lo caccia e rimane a coltivare il granoturco con la ragazzina. Fatica vana, visto che la natura devasta ciò che gli uomini hanno risparmiato e una furiosa alluvione distrugge il campo, la capanna e si porta via la vita stessa del patriarca. Passa il tempo e un nuovo personaggio arriva sull’isolotto, ormai ridotto ad un piccolo banco di sabbia, dissotterra la bambola con cui la ragazzina giocava e la mette ad asciugare sulla barca che lo ha condotto sin li. E’ una storia apparentemente semplice, in realtà densa di significati che metaforizzano il percorso d’intere esistenze contrapponendo, lucidamente e proficuamente, la grandezza del lavoro e la poesia della vita semplice alla volgarità delle violenza armata. Un film che va oltre la denuncia della ferocia e stupidità della guerra per assumere il valore di un'opera d’altissimo profilo e grandioso contenuto morale.
U.R.
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