28 Ottobre 2014
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36° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier |
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Sito ufficiale del festival: http://www.cinemed.tm.fr/
36° Festival du Cinéma Méditerranéen de Montpellier
Il festival del cinema mediterraneo di Montpellier, giunto quest’anno alla trentaseiesima edizione, è una delle maggiori manifestazioni filmiche tese a collegare un pubblico in gran parte locale a una vocazione sostanzialmente specialistica. Nato molti anni or sono come emanazione del cineclub Jean Vigo e diventato negli anni un polo d’attrazione per le cinematografie dei paesi mediterranei, il festival ha aperto la sezione competitiva con Adios Carmen (Addio Carmen) del regista marocchino Mohamed Amin Benamraoui.
Lo scenario è quello di un villaggio nel profondo del paese colto alla metà degli anni settanta. Il dittatore Francisco Franco (1892 – 1975) sta vivendo gli ultimi mesi di vita e molti spagnoli vivono lì facendo i mestieri più disparati dopo aver abbandonato il paese alla fine della guerra civile che ha portato alla caduta della Repubblica (1936 – 1939). In Adios Carmen (Addio Carmen) la donna e suo fratello sono tra loro e hanno trovato lavoro in un cinema scalcinato: lei fa la cassiera, lui i proiezionista. Sono osservati dai nativi con un misto di disgusto (non pochi ammirano il Generalissimo considerato un umo d’ordine che ha messo in riga i comunisti) e di ammirazione per le grazie della bella spagnola. Sentimenti che travolgono anche i bambini, prematuramente diventati adulti, che guardano alla vecchia sala da proiezione come a un tempio della fantasia e delle cose proibite. Uno di questi ragazzini ha una situazione particolarmente dura: suo zio ha di fatto venduto la madre a un vedovo che lavora in Belgio, ma che non vuol sentir parlare del ragazzino. Quando la donna parte il piccolo rimane solo nelle mani del parente, un traffichino ubriacone e violento. Il film segue l’odissea di questo piccolo e punteggia la sua amicizia con la bella spagnola, la sola che dimostri simpatia umana per lui, lo difenda dallo zio e dagli altri ragazzi. Quando arriva la notizia della morte del dittatore spagnolo, la donna e il fratello riprendono la via di casa e il piccolo rimane solo anche se quella breve parentesi lo ha indotto a incontrare e amare il cinema. Il film ha un andamento molto romantico e sconta non poche ingenuità nel disegno dei personaggi, ma si ha apprezzare per lo sguardo che getta su una piccola comunità che non sembra ancora entrata nella modernità. Molte cose sono scontate, ma nel complesso il film mostra una piacevole semplicità.
Fidelio, l’Odysée d’Alice (Fidelio, l’odissea di Alice) ci porta in uno scenario dei tutto diverso, quello dell’oceano. Qui naviga una grande nave su cui Alice lavora come una degli addetti alla sala macchine. E’ una donna libera, disinibita, che a terra ha un compagno, ma non disdegna incontri sessuali occasionali. Con il capitano della nave intrattiene una quasi storia d’amore, interrotta con il ricovero dell’uomo e il suo ritorno a casa. E’ il ritratto di una donna libera e indipendente che si comporta allo stesso modo con cui gli uomini guardano e affrontano le donne. In questo è possibile intravvedere anche una componente quasi femminista, politicamente originale. Per questo ruolo Ariane Labed ha ottenuto il premio per l’interpretazione femminile al Festival di Locarno 2014, anche se a risaltare, più che delle sue virtù attoriali, è la costruzione di un personaggio abbastanza desueto. Il film sfrutta alla perfezione il contrasto fra la vastità degli orizzonti fuori bordo e la soffocante angustia degli stetti spazi della nave, in particolare quelli del locale macchine. In altre parole è un bel ritratto di donna e un’incursione disinibita nella sessualità femminile.
Dervis Zaim (1964) è un regista turco - cipriota che ha esordito con il botto nel 1997 dirigendo Capriole nella bara (Tabutta Rövaşata) il tragico ritratto di un poveraccio che per sopravvivere cattura e mangia i pavoni che adornano un famoso parco di Istanbul. Dopo di allora ha proseguito realizzando opere decisamente diverse le une dalle altre. E’ ora la volta di Balik (Pesce) che racconta una storia a forte contenuto ecologico cadenzata sui quattro principi fondamentali della filosofia surfi: la pietra, gli alberi, gli animali, il genere umano. Temi che entrano nella vicenda di un povero pescatore di lago affitto da una figlia muta e sposato con una donna dotata di poteri quasi magici. Per incrementare i suoi redditi e fare fronte sia ai debiti sia alle spese necessarie per curare la giovane, imbocca la facile scorciatoia di pesare avvelenando le acque del lago e rivendendo il gran numero di pesci morti che affiorano in superficie. Per un concatenarsi di circostanze sua moglie sarà vittima di questa pesca illegale e lui finirà in prigione. Il film parte dalla sua uscita dal carcere dopo vari anni per un permesso temporaneo e lo segue mentre tenta di ristabilire un rapporto con la figlia che, nel frattempo, ha riacquistato la parola. Il film è pieno di simboli e riferimenti, ma il dato che emerge con maggiore forza è la denuncia dello scempio che, in Turchia come altrove, si fa delle risorse naturali per cavarne facili e rapidi guadagni. La mano del regista è ferma e il racconto procede armoniosamente, ma l’eccesso di simbologia rischia di appesantire oltre il lecito l’intera opera.
U.R.
At li Layla (Vicino a lei) dell’israeliano Asaf Korman, interpretato da sua moglie Liron Ben-Schlush che ha attinto anche da una sua vicenda personale, disegna il ritratto di una giovane che si dedica con passione quasi morbosa ad assistere la sorella minore affetta da un grave handicap mentale. Le due donne vivono in simbiosi con l’ammalata che dipende totalmente dall’altra e quest’ultima riesce a fatica a conciliare il lavoro di sorvegliante di una scuola con gli obblighi di assistenza. Le due vivono e dormono assieme, con la prima che sacrifica ogni possibilità alle esigenze dell’altra. L’equilibrio si spezza quando la sorella maggiore inizia una relazione con un insegnate di ginnastica della scuola in cui lavora. Il rapporto sembra procedere bene sino al momento in cui la giovane scopre che sua sorella è incinta e si convince immediatamente che il padre sia il suo compagno. Lo caccia di casa senza aspettare giustificazioni, salvo scoprire, giorni addietro e dopo che l’handicappata è stata fatta abortire, che la sorella ha fatto l’amore con un altro minorato mentale che fa parte del gruppo che la cura. Il film finisce a questo punto lasciando in sospeso ogni esito di possibile riconciliazione o di rottura definitiva, anche se il regista ha dichiarato che la sua preferenza va alla prima soluzione. E’ un film che mette in scena un dramma familiare profondo e lacerante che ha, quantomeno, il merito di mettere l’accento su un tema solitamente oscurato: quello della sessualità fra i portatori di handicap. Un contributo fondamentale lo offrono le interpretazioni delle due protagoniste, la prima ha attraversato un’esperienza analoga e riesce a dare toni di verità ad un ruolo non facile. La minorata ha il volto di Dana Ivgy, una delle migliori giovani attrici israeliane, e riversa nel suo ruolo una lunga preparazione fatta a contatto con veri minorati mentali. In altre parole, un film emotivamente forte che porta sullo schermo una situazione tutt’altro che infrequente nella vita reale.
Na kathesai kai na koitas (Stare in piedi di lato: guardando) del regista greco Yorgos Servetas è un melodramma a forti tinte con al centro una mancata attrice che ritorna nel villaggio natale ove incontra vecchi amici e vicini che non vedeva da anni. La rimpatriata non ha un risultato positivo, con un giovane, nuovo amante che si rivela debole e insicuro, un’amica che subisce passivamente la violenza di un imprenditore locale e quest’ultimo convinto di poter fare il bello e il cattivo tempo con tutti, al punto di plagiare il giovane e farne il suo complice nel tentativo di rapimento e stupro dell’ex - attrice. Siamo dalla parti del dramma rusticano, non a caso siglato dalla fucilate con cui, nel finale, un ex-amante della donna la libera dai suoi aggressori uccidendoli entrambi. Un film di scarso interesse e dal taglio decisamente melodrammatico.
Takva su pravila (Le regole sono queste) del croato Ognjen Svillicic affronta un paio di problemi sociali di spessore: quello della violenza fra i giovani e quello dell’indifferenza delle istituzioni davanti a gravi fatti criminali. Ivo e Maja sono una coppia del tutto normale, vivono un’esistenza come tante in un grande casermone di Zagabria. Con loro abita il figlio Tomica che una mattina ritorna col viso tumefatto dopo una notte passata fuori casa. Racconta di una non meglio precisata rissa, ma dopo poco stramazza a terra, lo portano in ospedale dove spira il giorno dopo. Polizia e personale sanitario si comportano in maniera del tutto burocratica, quasi non ascoltano le richieste dei genitori, si limitano a informarli che il figlio e morto. Un’amica del ragazzo fa arrivare ai due un video girato con un telefonino in cui si vede il ragazzo, ormai esanime a terra, che continua ad essere picchiato da un suo coetaneo, uno studente di cui la ragazza conosce il nome e che gli altri non hanno neppure cercato di fermare. A questo punto il padre va a cercare il picchiatore e arriva quasi ad ucciderlo. Questa forma di vendetta privata servirà anche a rinsaldare i rapporti, sino ad allora decisamente freddi, nella coppia. La prima osservazione che viene alla mente appena visto il film, è che il regista offre una quasi legittimazione a questo padre giustiziere, stante l’indifferenza e l’ignavia delle istituzioni pubbliche. Testi assai discutibile se generalizzata e assunta a risposta politica. Il film è costruito con abilità, anche se non è privo di snodi prevedibili, ma rimane offuscato da questo approccio di fondo.
U.R.
L’unica presenza italiana in un concorso e un festival molto sensibile alla presenza del nostro cinema è stata quella de I milionari di Alessandro Piva che ha raccontato una storia criminale desunta dalla cronache, quella di un camorrista, soprannominato Alendelon, che fa carriera sin da ragazzino in un clan in cui il fratello maggiore ha un ruolo importante. Fra ammazzamenti, scontri con altri malavitosi, accordi con gruppi di malavita spagnola, arriva sino al vertice della gerarchia riuscendo (quasi) a mantenere la famiglia fuori dal giro criminale. Tutto crolla nel momento in cui le forze dell’ordine riescono a trovare le prove dei suoi delitti e lo arrestano. A questo punto si trasforma in collaboratore di giustizia, manda in prigione decine di altri criminali e inizia una nuova vita con un altro nome e in una località segreta. Il regista segue negli anni questa vicenda con un’attenzione particolare alla scenografia, tanto che l’interno grossolano e kitsch delle varie case in cui il protagonista va a vivere potrebbe essere preso a modello per decine di storie di malavita napoletana. Ciò che manca è un respiro che vada oltre il telefilm per approdare ad una storia articolata in modo giusto e connessa con precisione al mondo esterno. Va anche detto che il lavoro registico non è stato per nulla facilitato da prestazioni attoriali sotto il limite della sufficienza e pericolosamente vicine alla macchietta. In altre parole un testo modesto e di minimo valore informativo.
E’ andata ancora peggio con Certifiée Halal (Garantito Halal) dell’algerino Mahamoud Zemmouri, una commediola degli equivoci ambientata fra la Francia e l’Algeria profonda e basta su un paio di matrimoni, con relativo scambio di spose, che dovrebbero soddisfare le richieste di purezza, leggi verginità, imposte dai futuri mariti. Una delle due arriva semi drogata da Parigi e non ha la idea del fatto che il fratello l’abbia maritata, a sua insaputa, a un possidente. I caratteri sono disegnati in maniera meno che sommaria e le macchiette impazzano. In poche parole un’operina inutile e sottilmente reazionaria di cui si fa fatica a giustificare la presenza in un Festival di Cinema.
Ci si è rifatti con Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) del georgiano George Ovashvili, una coproduzione a cui hanno partecipato Georgia, Germania, Francia, Repubblica Ceca e Kazakistan. Vasto consesso internazionale per un film molto bello che si colloca fra i migliori visti nella sezione competitiva del festival. E’ un’opera quasi muta in cui si racconta la faticosa costruzione, su un’isola in mezzo a un fiume che separa Georgia e Abkhazia, di una capanna e un campo di mais. A volere tenacemente quelle cose è un vecchio contadino abkhazo aiutato da una ragazzina orfana che lui protegge. Si ritrovano entrambi nel bel mezzo dello scontro fra due eserciti (siano nei primi anni novanta e l’Abkhazia ha da poco proclamato l’indipendenza dalla Georgia), ma loro vogliono solo vivere pacificamente, sopportando con pazienza la dura fatica dei campi e la furia della natura. Difficoltà a cui si aggiungono gli odi e le irruzioni di uomini armati e famelici sia di alcol sia di sesso. Quando nel campo trovano un soldato georgiano seriamente ferito, il vecchio non esita ad accoglierlo, curarlo e nasconderlo agli stessi militari abkhazi. Ne avrà in cambio l’amara constatazione che la giovane inizia ad interessarsi al ferito, quasi un suo coetaneo, e questi non rifiuta le sue attenzioni. Il patriarca lo caccia e rimane a coltivare il granoturco con la ragazzina. Fatica vana, visto che la natura devasta ciò che gli uomini hanno risparmiato e una furiosa alluvione distrugge il campo, la capanna e si porta via la vita stessa del patriarca. Passa il tempo e un nuovo personaggio arriva sull’isolotto, ormai ridotto ad un piccolo banco di sabbia, dissotterra la bambola con cui la ragazzina giocava e la mette ad asciugare sulla barca che lo ha condotto sin li. E’ una storia apparentemente semplice, in realtà densa di significati che metaforizzano il percorso d’intere esistenze contrapponendo, lucidamente e proficuamente, la grandezza del lavoro e la poesia della vita semplice alla volgarità delle violenza armata. Un film che va oltre la denuncia della ferocia e stupidità della guerra per assumere il valore di un'opera d’altissimo profilo e grandioso contenuto morale.
U.R.
Marsella (Marsiglia) è il titolo di un film della regista spagnola Belén Macias e ruota attorno a una figura femminile, quella di Sara, a cui il tribunale ha sottratto la figlia Clara dopo che la donna, madre single, era stata privata della patria potestà essendo un’alcolizzata cronica. Un elemento fondamentale nella decisione sull’affido - assegnato a un’altra donna, Virginia – è stata la caduta dalla finestra della piccola mentre la madre era ubriaca. Ora, cinque anni dopo, la donna, che ha riottenuto l’affido della piccola, vuole portarla a Marsiglia a conoscere il padre. Non ha un’auto e un suo collega – amante gliene propone una lussuosa e veloce, a patto che assieme alla sue cose trasporti anche un borsone pieno di droga. Durante una sosta in un punto di ristoro l’auto è danneggiata da un camion guidato da un autista premuroso e sensibile. Le cose si complicano con l’arrivo dell’ex-affidataria cui la piccola aveva telefonato impaurita dopo che Sara l’aveva lasciata sola in albergo. Inizia a questo punto un confronto duro fra le due donne, aggravato dalla scomparsa della droga e dalle aggressioni dei trafficanti che la rivogliono. Finale buonista con la sorpresa che il padre naturale è morto e la madre biologica che fa un passo indietro per lasciare la piccola all’affidataria, sicura che in questo modo la bimba avrà un futuro migliore. E’ un melodramma pieno di incongruenze che vanno dalla sostanziale disponibilità dei mercanti di droga, alla comprensione del maturo camionista. Un film di buon taglio commerciale, ma del tutto trascurabile.
Le cose sono andate appena meglio con Atlit dell’esordiente Shirel Amitay che racconta i rapporti tesi fra tre sorella che hanno ereditato una grande casa di campagna in un villaggio israeliano. Una vorrebbe vendere subito, un’altra è tentata dal continuare a conservare la magione, densa di ricordi d’infanzia, l’ultima tentenna fra conservazione e vendita. Il tutto è ambientato nel 1995 quando i negoziati di pace fra israeliani e palestinesi sembravano sul punto di approdare a una solida convivenza fra i due popoli. Il processo s’interruppe la sera del 4 novembre 1995 con l’assassinio del premier Yitzhak Rabin (1922 – 1995) dopo un comizio in cui aveva espresso chiaramente la sua idea di pace. A questo episodio la regista dedica sequenze che sono fra le più belle del film, con le strade mute, le auto immobili, le portiere spalancate e la radio che dà il tragico annuncio. Il resto è un susseguirsi di chiacchiere poco concludenti, non certo sostanziata dalla presenza dei fantasmi dei genitori, uno dei quali è affidato all’attore e regista Pippo Delbono. In altre parole un film in cui i discorsi fanno premio sulle immagini e i dialoghi sul cinema.
Bastado del tunisino Najib Belkadhi mette in scena una dolorosa e disperata metafora sulle lotte per il potere nei paesi arabi. Il protagonista è un trovatello (un ristoratore lo ha raccolto in un cassonetto per l’immondizia) che vive in un quartiere – ghetto tiranneggiato da una grasso rais la cui madre, vera ispiratrice delle sue malefatte, si chiama Verde come il colore dell’Islam e la coincidenza è tutt’altro che casuale. Lo scontro fra l’orfano, che si è progressivamente affrancato, e il capobanda è cruento e passa anche attraverso un’antenna per i telefonini posta sul tetto della casa del ex- reietto che funziona da simbolo sia di modernità, sia di oggetto di dipendenza per i poveri. Ha peso anche la relazione con una giovane capace di attrarre ed ospitare gli insetti sul proprio corpo. Il confronto fra i due - con gli altri abitanti che si fanno trascinare emotivamente o per interesse dall’una o dall’altra parte - approda alla morte del protagonista e all’inizio di un nuovo dominio. E’ una conclusione pessimista che nasce, con tutta probabilità, dalla delusione per gli esiti di molte primavere arabe che alcuni anni or sono avevano alimentato speranze forse esagerate. Come dire un film molto interessante per la simbologia che veicola, ma piuttosto grossolano nella realizzazione.
U.R.
Il cartellone della sezione del festival dedicata alle migliori produzioni recenti dei diversi paesi (Panorama), che affacciano sul Mediterraneo, si è aperto fila con Étoile Filante (Stella Cadente) del produttore spagnolo Luis Minarro che approda al suo primo lungometraggio com e regista. Lo scenario è quello della successione al trono di Spagna di Amedeo d’Aosta figlio maschio secondogenito di Vittorio Emanuele II, futuro re dell'Italia unita, il quale si preoccupò attivamente di garantire, alla casata sabauda, il trono vacante nella successione spagnola del 1870. Ferdinando VII di Borbone, infatti, era morto senza eredi maschi e, in previsione di ciò, aveva abolito la legge salica a favore della figlia Isabella II, ancora bambina. Amedeo, proclamato dalla Cortes re di Spagna il 16 novembre 1870 tentò di mettere ordine e modernizzare un paese per molti aspetti ancora feudale. Sovrano illuminato e animato da idee quasi progressiste avrebbe voluto una monarchia parlamentare, un embrione di stato sociale e una alfabetizzazione per tutti, ma che finisce con l’abbandonare le sue idee, alla cui realizzazione non trova altroché ostacoli, muri e porte chiuse – a volte letteralmente. Amedeo pose fine al suo breve regno con l’atto di abdicazione pronunciato l’11 febbraio 1873, e alle dieci di sera del giorno stesso in cui in Spagna è proclamata la repubblica. Il regista segue questa vicenda con scarsa attenzione, per i fatti storici lasciati sullo sfondo, ma anche per l’ambientazione, commettendo il grossolano errore di immaginare la residenza del sovrano nel palazzo-fortezza di Castel del Monte in Puglia, monumento troppo noto per poterlo immaginare nella regione spagnola della Castiglia. Ciò che manca al lavoro di questo cineasta è il giusto respiro che consenta all’opera di essere inserita nel filone dei film storici.
Esordio decisamente più interessante è quello del trentaduenne Fabio Mollo con il lungometraggio Il sud è niente, unico film italiano della sezione. Si tratta di un racconto doloroso ma al contempo dolce ed intenso di elaborazione di un lutto, quello della giovane adolescente Grazia, interpretata dalla esordiente Miriam Karlkvist, per il fratello, misteriosamente scomparso dopo essere emigrato in Germania. Il regista focalizza il suo lavoro sul percorso d’ingresso nell’età adulta della giovane protagonista e sulla dura realtà con la quale è costretta a confrontarsi: quella familiare rappresentata dalla bottega, del padre pescatore di stocco che ha difficolta a sbarcare il lunario, e quella ambientale delle tante, troppe, strade deserte e dei cantieri mai ultimati della periferia di Reggio Calabria. Un deserto ed una desolazione non solo esteriore, ma anche interiore dove l’unica possibilità di salvezza, al di là dei soliti luoghi comuni, è rappresentata, ancora una volta, dalla fuga verso il nord.
Family Tour (Giro di famiglia), opera della regista nonché sceneggiatrice Liliana Torres, è il secondo lungometraggio spagnolo della sezione. E’ una pellicola dai toni autobiografici, dove la maggior parte degli interpreti sono familiari ed amici della cineasta. La storia è semplice: dopo un lungo periodo passato all’estero la protagonista torna a casa ad incontrare la famiglia e come spesso accade nella realtà, l’occasione si trasforma nel più classico tour di visita ai vari parenti. Tra momenti di ilarità e di malinconia per Lei sarà l’occasione di ricostruire la storia della sua famiglia e le esperienze della sua infanzia, ma anche di confrontarsi con le proprie frustrazioni, che solo la lontananza aveva in parte sopite e con i difetti ereditati. Una commedia gradevole, forse a tratti banale, ma per questo non priva spontaneità.
Quarta pellicola della sezione è il lungometraggio Pitchipoi del regista e sceneggiatore Charl Nejman. Una commedia a tratti surreale ambientata nella Parigi d’oggi, dove vive e lavora il protagonista il giovane commediante umorista Julien Schulmann (interpretato da Xavier Gallia), costretto suo malgrado ad adempiere alle volontà testamentarie del padre, un ex deportato dei campi di concertamento nazisti, di vedere le sue ceneri sparse sul suolo natio della Polonia. E’ allora che per Julien inizia un viaggio a ritroso, verso, non tanto un luogo fisico, Pitchipoi (soprannome usato dagli ebrei di Francia per descrivere la destinazione sconosciuta misteriosa e spaventosa, dove venivano indirizzati i convogli dei deportati lì, da qualche parte, lontano verso l'Oriente), quanto uno spazio temporale costruito con diverse ambientazioni, non sempre collegate fra loro e animate da fantasmi e demoni. Sono i fantasmi e demoni della coscienza di Julien e del percorso catartico che porterà al disvelamento di un terribile segreto. Un film non semplice, non certo per il vasto pubblico, poco adatto alla grande distribuzione.
Quarta pellicola della sezione è il lungometraggio Pitchipoi del regista e sceneggiatore Charl Nejman. Una commedia a tratti surreale ambientata nella Parigi d’oggi, dove vive e lavora il protagonista il giovane commediante umorista Julien Schulmann (interpretato da Xavier Gallia), costretto suo malgrado ad adempiere alle volontà testamentarie del padre, un ex deportato dei campi di concertamento nazisti, di vedere le sue ceneri sparse sul suolo natio della Polonia. E’ allora che per Julien inizia un viaggio a ritroso, verso, non tanto un luogo fisico, Pitchipoi (soprannome usato dagli ebrei di Francia per descrivere la destinazione sconosciuta misteriosa e spaventosa, dove venivano indirizzati i convogli dei deportati lì, da qualche parte, lontano verso l'Oriente), quanto uno spazio temporale costruito con diverse ambientazioni, non sempre collegate fra loro e animate da fantasmi e demoni. Sono i fantasmi e demoni della coscienza di Julien e del percorso catartico che porterà al disvelamento di un terribile segreto. Un film non semplice, non certo per il vasto pubblico, poco adatto alla grande distribuzione.
A.S.
Antigone d’oro del Comune di Montpellier con una dotazione di 15.000 € offerta dal comune e una di 2.500 € in prestazioni, offerta da Titra Film
a Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) di George Ovashvili (Georgia/Francia)
Premio della critica BNP Paribas con una dotazione di 2.000 € al regista offerta da BNP Paribas
a Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) di George Ovashvili (Georgia/Francia)
Premio del pubblico Midi Libre con una dotazione di 4.000 € al regista, offerti dal quotidiano Midi Libre
a Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) di George Ovashvili (Georgia/Francia)
Premio Nova con la dotazione di una campagna di spot nazionali per l’uscita del film
a Na kathesai kai na koitas (Stare in piedi di lato: guardando) di Yorgos Servetas (Grecia)
Premio pubblico giovane CMCAS Linguadoca con una dotazione di 2.000 € al regista offerti da CMCAS Linguadoca
a Adios Carmen (Addio Carmen) di Mohamed Amin Benamraoui (Marocco/Belgio/Emirati Arabi Uniti)
Premio JAM per la migliore musica con una dotazione di 1.200 € offerti da JAM
a Josef Bardanashvili per la musica del film Simindis Kundzuli (letteralmente L’sola del granoturco ma ribattezzato dal distributore francese Terra effimera) di George Ovashvili (Georgia/Francia)
Cortometraggi
Gran premio del cortometraggio del Comune di Montpellier con una dotazione di 4.000 € al regista offerti dal Comune Montpellier
a La Poule (La gallina) di Una Gunjak (Croazia/Germania)
Menzione speciale
a Ça peut passer à travers le mur (Questo può passare attraverso i muri) de Radu Jude (Romania)
Premio del pubblico Midi Libre-Titra Film con una dotazione di 1 000 € al regista offerti dal quotidiano Midi Libre e di 500 € in prestazioni DCP offerti da Titra Film
a Discipline (Disciplina) di Christophe M. Saber (Egitto/Svizzera)
Premio del pubblico giovane della città di Montpellier con una dotazione di 2.000 € offerti dalla città di Montpellier
a Discipline (Disciplina) di Christophe M. Saber (Egitto/Svizzera)
Premio Canal + comprendente l’acquisto per le messa in onda del film da parte di Canal+
a Stella Maris di Giacomo Abbruzzese (Italia/Francia)
Documentari
Premio Ulysse CCAS-Comune di Montpellier con una dotazione di 3.000 € al regista offerti da CCAS e dalla mediateca comunale Federico Fellini
a Our Terrible Country (Il nostro paese terribile) di Mohammad Ali Atassi, Ziad Homsi (Libano/Siria)
Menzione speciale
A Le Journal de Schéhérazade (Il diario di Scherazade) de Zeina Daccache (Libano)
Borse d’aiuto allo sviluppo
Una borsa di 7.000 € offerta dal Centre National de la Cinématographie et de l’Image Animée e una dotazione di 500 € come servizi offerti dalla società Éclair Group
al progetto Delphine D. (Delphine D.) di Lara Fremder, regista, e Gianfilippo Pedote, produttore (MIR Cinematografica, Italia/Francia/Svizzera)
Una borsa di 7.000 euro offerta dall’organizzazione internazionale della francofonia
al progetto Mime de Kaouther Ben Hania, resista, et Julie Paratian, produttrice (Sister Productions, Tunisia/Francia)
Una borsa di 4.000 € offerta dalla regione Languedoc-Roussillon
al progetto Saudade (Tristezza - malinconia) d’Antonio Méndez, regista e Janja Kralj, produttrice (KinoElektron, Francia/Spagna/Brasile)
Una borsa de 3.000 € offerta dall’associazione Beaumarchais
al progetto Le Retour (Il ritorno) di Meyar Al-Roumi, regista, e Xavier Rocher, produttore (La Fabrica Nocturna Productions, Francia)
Una residenza di scrittura offerta dal Centro di Scrittura Cinematografica Le Moulin d’Andé
al progetto Un jour, mon père est mort (Un giorno mio padre è morto) di Tamara Erde, regista, e Nathalie Vallet, produttrice (Les Films du Poisson, Francia)
Una residenza di scrittura offerta dal Mediterranean Film Institute di Atene (Gracia) unita ad un invito su una delle piattaforme di coproduzione Agora Industry nel quadro del Festival Internazionale di Salonicco.
al progetto Une famille heureuse (Una famiglia felice) di Nana Ekvtimishvili, regista et Simon Gross, co-regista e produttore (Polare Film) e a Guillaume de Seille, coproduttore (Arizona Productions, Georgia/Francia).
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