05 Novembre 2007
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29° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier |
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Il Festival del Cinema Mediterraneo di Montpellier ha celebrato la ventinovesima edizione rendendo omaggio, come è consuetudine di questa manifestazione, al cinema italiano. Lo ha fatto con una retrospettiva dedicata a Marcello Mastroianni e un omaggio al poliziesco allitaliana che ha messo in cartellone film di Enzo G. Castellari (La polizia incrimina, la legge assolve, 1973; Il grande racket, 1976; Il giorno del cobra, 1980), Romolo Guerrieri (La polizia è al servizio del cittadino?, 1976), Marino Girolami (Italia a mano armata, 1976), Umberto Lenzi (La banda del gobbo, 1977), Sergio Sollima (Revolver, 1973). Le due iniziative hanno raccolto un vasto pubblico che, nel caso della notte del polar italien, ha seguito le proiezioni sino allalba. Le luci più intense si sono appuntate sulla competizione internazionale che ha visto vincitori Eduart (Edoardo) di Angelici Antoniou, che ha ottenuto il massimo riconoscimento, lAntigone dOro, e Riza del turco Tayfun Pirselimoglu, vincitore del premio della critica.
La storia utilizzata dalla regista greca nasce da una vicenda vera e racconta di un albanese che emigra clandestinamente in Grecia con la speranza di diventare una rock star. Il nuovo paese si rivela più simile ad un inferno che ad un paradiso e lui precipita nella miseria e finisce col prostituirsi ad un omosessuale facoltoso che tenta di derubare. La vittima lo scopre e lui luccide. Arrestato nel corso di una retata, è espulso verso il paese dorigine dove il padre lo denuncia per un vecchio furto da lui commesso e di cui è stata incolpata sua madre. Subisce una condanna a cinque anni di prigione che lo obbliga a sperimentare la ferocia e il degrado delle galere albanesi. Nel corso di una rissa con i membri del clan che controlla il carcere, riceve una pugnalata, ma è salvato da un medico tedesco che sta scontando una lunga pena detentiva per aver venduto medicinali scaduti che hanno causato la morte di decine dammalati. Evade dal carcere grazie ai tumulti che accompagnano la caduta di Sali Berisha, nel 1996, in seguito allo scandalo delle società a piramide che hanno saccheggiato i risparmi di milioni di poveracci. Una volta ritrovala la libertà, preferisce riprendere la via della Grecia, confessare il delitto e scontare la pena in una prigione ellenica dove il vero protagonista della storia, si trova tuttora. Il film è un bel documento sociale, metà del quale dedicato alla vita carceraria. In questo ha punti in comune con altre opere che hanno trattato lo stesso argomento. La seconda parte, invece, è segnata da un taglio mistico espiatorio, non banale. Il pregio maggiore è nella costruzione della storia in cui la regista esprime al meglio una capacità di misurare la drammaticità degli eventi e rendere avvincenti anche passaggi di cui lo spettatore avveduto coglie facilmente sviluppi e conclusioni.
Riza presenta molti elementi interessanti. In primo luogo è un testo che rientra decisamente nel filone del nuovo cinema turco, ma che si ricollega anche alla ricerca espressiva inaugurata da Omer Kavur con Anayurt Oteli (Hotel Madrepatria, 1987). Al centro della storia cè un camionista nei guai perché il suo mezzo è in panne e l'aggiustatura è molto costosa. Lui denaro non ne ha, ha già impenno tutto ciò che possiede ed esaurito ogni possibilità di credito. Passa i giorni, preda di una cupa disperazione, in una stanza con molti letti in un alberghetto miserabile. Al vertice dello sconforto uccide e rapina un immigrato illegale afgano che sta tentando di raggiungere lItalia con la nuora. Il frutto del delitto è sufficiente a pagare la riparazione e si apre persino uno spiraglio di normalità con il possibile riallaccio della relazione con una matura vedova di cui è stato lamante e che aveva abbandonata brutalmente anni prima. Tuttavia neppure questa possibilità di ritorno ad un barlume di normalità costituisce una vera via duscita dal grigiore e la tristezza in cui è immerso. Il finale è aperto, forse il delitto sarà punito oppure tutto continuerà come prima. Il film contiene molti elementi non proprio originali, ad iniziare dalla quasi unità di luogo, le cenciose stanze dellalberghetto che ricordano lambientazione del citato film di Omer Kavur o quella del non meno importante Masumiyet (Innocenza, 1997) di Zeki Demirkubuz, ma ha anche il merito di allargare al panorama di una grande città, una Istanbul fotografata in codo straodinario nei suoi aspetti meno turistici e più miserabili, un discorso che altri autori di questa nuova tendenza rivolgono al rapporto città campagna, con privilegio di questultima.