Il cinema degli altri: la Francia - Pagina 6

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Il cinema degli altri: la Francia
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la-terre-outragee-posterRientra in questo filone anche La Terre Outragée (La terra oltraggiata, 2012) opera prima di Michale Boganim. Il 26 aprile 1986, in piena notte, una terribile esplosione scoperchiò il quarto reattore della centrale nucleare Vladimir Il'ič Lenin, situata tre chilometri dalla cittadina modello di Pripjat', un centro abitato da cinquantamila persone, e a diciotto da quella di Černobyl', in Ucraina, in pratica sul confine con la Bielorussia. Era capitato che l’imperizia e la superficialità dei tecnici addetti al complesso li avessero portati a violare le norme di sicurezza e a tentare un esperimento dall’esito disastroso. Si era nel pieno del ponte del 1° maggio e l’allarme fu dato in ritardo e con gravissima sottovalutazione. Questo causò una risposta lenta dell’intero sistema statale, i 336 mila abitanti furono evacuati solo quattro giorni dopo, in pieno caos organizzativo, con conseguente esposizione alle radiazioni di un vasto territorio e di migliaia di persone. Il film ha per sfondo questa situazione, colta nelle ore della tragedia e nelle conseguenze che ne sono derivate dieci anni dopo. Lo fa con le vicende di una giovane che si sta sposando proprio in quelle ore e perderà il marito, un vigile del fuoco accorso fra i primi sul luogo del disastro, e di un ingegnere che scomparirà nel caos dopo aver tentato, con poveri mezzi, di riparare quante più persone possibili dalla terribile pioggia radioattiva che si abbatté sul territorio. A distanza di un decennio la vedova e il figlio del tecnico ritornano nella città morta, fra edifici sventati e monumenti mutilati. Lei è diventata una sorta di guida turistica per visitatori professionali, lui non accetta l’idea della morte del padre. La donna potrebbe rifarsi una vita emigrando in Francia con il nuovo compagno, ma non riesce, per quanto ammalata senza speranze, ad abbandonare i luoghi dove è stata felice. Lui cerca di recuperare una memoria e un filo esistenziale brutalmente spezzato. Il film ha un taglio drammatico e quasi documentario, con immagini che straziano proprio perché rimandano a una normalità spezzata dalla follia degli uomini. E’ un testo maturo retto da una narrazione professionalmente alta e segnata da un forte impegno morale e umano.
affiche-du-film-apres-mai-d-olivier-620x0-1Après Mai (Dopo maggio, 2012) del francese Olivier Assayas rientra in qualche misura nel cinema a cavallo fra sentimenti e politica. Il film mira a tracciare un quadro, se non della generazione del mitico 1968, di quella dei loro fratelli minori. Siamo in una scuola della periferia parigina, nel 1971, dove si scontrano anarchici, maoisti, trotskisti, ciascuno con la propria verità preconfezionata in tasca, uniti solo dall’odio verso la borghesia e il Partito Comunista Francese. Il film segue, è un dato autobiografico, un giovane aspirante pittore, poi cineasta, che milita fra i libertari estremi avendo sempre di mira più l’arte che la rivoluzione. Anche se vorrebbe essere il ritratto di un’intera generazione, il regista dice ben poco sulle scelte che faranno questi ribelli, scelte che porteranno un bel po’ di loro a ritornare, a capo chino, nelle file della borghesia diventando manager, grandi avvocati, intellettuali osannati, banchieri, direttori di giornali o di reti televisive. Diceva Italo Calvino, lo citiamo a memoria, che l’estremismo è la posizione più vicina al cedimento. Ciò che manca al film è lo scavo delle ragioni profonde che, nel caos generale, hanno indotto non pochi a rientrare nei ranghi da cui provenivano, altri a sprofondare nell’inferno della droga – l’accento alla ragazza che si fa d’eroina è più scenografico che analitico - altri ancora ad abbandonarsi alla follia terrorista. A proposito di quest’ultimo argomento va detto che la breve sequenza dell’auto incendiata, perché utilizzata per un qualche reato politicamente mascherato, dice poco e niente su un tema di bruciante drammaticità. Si obietterà che questo è solo un film e non un saggio storico, ma quando un artista decide di mettere in scena il clima che ha segnato un’intera generazione, il minimo che gli si può chiedere e di essere attento agli elementi fondamentali che hanno contribuito a creare quel clima. Per il resto il film scorre bene, gli attori hanno i volti e i fisici giusti, la storia segue un percorso scarno ma lineare. Le obiezioni riguardano, dunque, il complesso del discorso, ma non sono tali da invalidare completamente l’opera.
image manquantePuò essere inquadrato nei ranghi del cinema transalpino anche il cambogiano Rithy Panh, autore de L’image manquant (L’immagine mancante, 2013). Il regista vive a Parigi, ma in gioventù ha attraversato la tragedia della follia dei Khmer Rossi. Deportato con l’intera famiglia nella foresta dopo che i nuovi padroni del paese, che governeranno dal 1975 al 1979, avevano letteralmente svuotato la capitale Phnom Penh dei suoi abitanti. La filosofia folle e criminale di Pol Pot, che guidava quel movimento, era che si doveva azzerare tutto per ricostruire un nuovo mondo non contaminato dal capitalismo. Le scuole furono chiuse, spesso trasformate in luoghi di tortura, bandite le medicine occidentali sostituite con rimedi vegetali, cancellata ogni forma d’arte che non fosse d’esaltazione del regime. Il regista ricostruisce questo terribile dramma, spesso sottovalutato dai media europei, facendo ricorso alle poche immagini di regine e integrando ciò che non c’è mai stato con una sorta di presepio del dolore costruito con pupazzi dolenti. Ne nasce un film molto toccante e bello nella costruzione stilistica. Una testimonianza davvero indimenticabile.