Il cinema degli altri: la Francia

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du rififi chez les hommes 102846 Il cinema francese e il suo mercato sono fra i maggiori in Europa, anzi molti lo considerano il più importante del vecchio continente con i suoi 204 milioni di ingressi (2012) e una quota di mercato del prodotto nazionale superiore al 40 per cento. Valori in lieve decrescita rispetto al più recente passato, tuttavia maggiori di quelli italiani dove i biglietti venduti, tanto per fare un esempio, si sono aggirati, nel 2011, attorno ai 101 milioni e la quota nazionale di mercato nell’aprile 2012 ha sfiorato il 39 per cento. Quella francese è una condizione di forza che affonda le radici anche in una politica di sostegno pubblico fra le più robuste e avanzate. Partendo da questa considerazione è impossibile riassumere nello spazio di cui disponiamo un quadro esaustivo delle molte caratteristiche che caratterizzano il film francese.  Quello che è possibile fare è individuare alcuni capitoli che colgono le caratteristiche più evidenti di questo cinema, il tutto senza alcuna pretesa di esaustività o di disegno globale di un quadro ricco di sfumature. Lo facciamo, per giunta, basandoci sulle opere comparse negli ultimi tre anni nei cartelloni di alcuni grandi festival cinematografici, con la convinzione che si tratti del meglio e del più indicativo fra quanto realizzato da quell’industria. Per semplicità procediamo per capitoli.

l-enfance-du-mal-de-olivier-coussemacq-4462448qyjpzIl poliziesco e il noir.

Un tipo di film in cui il cinema d’oltralpe eccelle da sempre. Solo per fare qualche esempio ricordiamo il successo mondiale di Rififi (Du rififi chez les hommes, 1955) di Jules Dassin e l’intera opera di un maestro del cinema come Jean-Pierre Melville (1917 – 1973). Venendo a tempi più vicini ricordiamo  L'enfance du mal (L’infanzia del male, 2010), un thriller classico nei contenuti e nello sviluppo scritto e diretto da Olivier Coussemacq. Celine ha quindici anni, la madre in carcere e una maturità ben superiore a quella di un'adolescente. Aiutata dal fidanzatino, ricatta uomini che vogliono accompagnarsi a lei e dai quali pretende molto denaro, ma non si limita a questo. Si trasferisce nel giardino di una bella villa e si fa scoprire dal proprietario, un giudice che, impietosito, le offre un pasto caldo. La moglie sente subito un certo trasporto affettivo per la ragazza, che vede come la figlia che non ha avuto. Tra alti e bassi, il rapporto nella nuova famiglia temporanea andrebbe per il meglio se la giovane non si facesse mettere incinta dal giudice. Scopriremo che tutto fa parte di una trama per far uscire dal carcere la madre, come dire che, a suo modo, la nostra è una brava ragazza. In alcuni momenti l'ingenuità del magistrato raggiunte l’incredibile, il personaggio della moglie alterna eccessivi slanci di amore ad astio, il fidanzatino è un normale ragazzo borghese che per lei si trasforma in delinquente. La vera debolezza del film si registra sul versante degli attori: Anaïs Demoustier quando ha girato il film aveva venticinque anni e, già all’epoca, era poco credibile come quindicenne, Pascal Greggory è un giudice che non crede a quello che fa e dice, Ludmila Mikaël innervosisce offre una prova in cui non mette alcun impegno.
presum coupablePrésumé Coupable (Presunto colpevole, 2011) di Vincent Garenq basato sulla vera storia di Alain Marécaux, un esempio di come l’accanimento giudiziario possa trasformare degli innocenti in mostri. Un uomo e sua moglie vivono, assieme ai due figli, in un misero sobborgo di Boulogne-sur-Mer. Una tragica notte del 2001 irrompe la Polizia, lo arrestano e lo trattano come un pericoloso malvivente. Lui scopre a stento di essere accusato di appartenere ad una pericolosa banda di pedofili franco - belgi che, tra l’altro, hanno usato anche i propri figli per filmati porno. Assieme a lui finiscono in galera altre dodici persone ma per lui l’accusa, gravissima, è anche di avere abusato del figlio. Domande non invasive fatte ai ragazzini con l’aiuto degli psicologi portano a risposte che il giudice inquirente valuta come accuse pesanti. La madre dell’uomo muore, la moglie lo lascia, i figli vengono affidati ai nonni. Pur avendo un avvocato che gli crede e nonostante l’assoluta mancanza di prove rimane in prigione. Intraprende un lunghissimo sciopero della fame, si rivolge alle autorità e, alla fine, ogni accusa decade. Il film è tratto dal libro Chronique de mon erreur judiciair scritto dallo stesso protagonista come tragico diario di un’avventura che non deve essere dimenticata e far riflettere sull’infallibilità che certi magistrati credono di avere. Splendida la prova di Philippe Torreton, che, per vivere meglio il personaggio, ha realmente perso più di venti chili. Il film gira tutto attorno al protagonista con un personaggio perfettamente delineato mentre gli altri sono appena accennati.
polisse1Merita un cenno anche Polisse (Lucido, 2011) di Maïwenn Le Besco. La regista, che è anche una famosa attrice, racconta una serie di aggressioni a bambini affrontate dalla squadra per la repressione dei crimini sui minori (BPM = Brigade de Protection des Mineurs) di Parigi. Sono vicende di pedofilia, prostituzione giovanile, violenze su ragazzi e ragazze. L’elenco è abbastanza variegato, ma rischia la ripetitività e la direzione non riesce a motivare gli snodi dei vari capitoli, che rimangono isolati gli uni dagli altri senza convergere in un disegno unitario. Più che un film unitariamente concepito, sembra un collage di corto e mediometraggi collegati da un generico intento di denuncia, anche malamente saldati da banali storielle d’amore e di difficoltà familiari. Da aggiungere, poi, un fastidiosissimo elogio della probità e correttezza della polizia francese – una sola volta un agente rifila uno schiaffone a un pedofilo arrogante, tutte le altre gli incriminati sono trattati con i guanti – esaltazione che contrasta con non pochi episodi di cronaca che, invece, hanno messo in luce brutalità e abusi.


tango libre posterUn certo riferimento al cinema noir è possibile rintracciarlo anche in Tango libre (Tango libero, 2012) di Frédéric Fonteyne, un belga che lavora come molti altri suoi connazionali nel cinema parigino. Il film racconta una storia segnata da un piacevole retrogusto anarchico. Fernand e Dominic stanno scontando lunghe condanne per rapina a mano armata, crimine nel corso del quale è morta una guardia. Entrambi sono legati ad Alice, moglie separata di uno dei due, da cui ha avuto un figlio ora adolescente, e rimaritata con l’altro. Il trio trova un punto d’unione in Jean-Christophe, per tutti J-C, guardia carceraria della prigione e amante del tango che incontra la donna in una scuola di danza. Il ballo argentino diventa una sorta di filo rosso che lega i tre e contagia anche gli altri detenuti. E’ una sorta di sogno libertario che permette ai detenuti di superare idealmente i muri della prigione e al carceriere di vivere una vita che vada oltre l’esistenza solitaria in cui è immerso. Tutto questo approda a conflitti vari e al coinvolgimento dell’agente penitenziario che non può rifiutarsi di far evadere i due. Tuttavia, una volta liberi, lo imbarcheranno sull’automobile con sui stanno scappando verso nuove avventure. E’ un film piacevole, ironico, moralmente irregolare in cui il ballo diventa una sorta di via di fuga dalle costrizioni della vita e dalle regole della società. Potrebbe sembrare qualche cosa di simile ad un invito alla ribellione anarchica e, in parte è tale, ma ciò che più conta è lo sguardo che propone nei confronti di un mondo grigio e oppressivo. Le sequenze più riuscite sono quelle dei numeri di ballo fra le mura della prigione, sono brani degni di un musical pieno di gusto, ritmo e speranza.
11.6manifesto11.6 (2013) di Philippe Godeau fa riferimento a una storia vera, quella di una guardia di sicurezza che, nel 2009, dopo dieci anni di servizio inappuntabile ha rubato ben undici milioni e seicentomila euro in banconote nuove di zecca. Il ladro si è consegnato alla polizia del Principato di Monaco dopo alcuni mesi di latitanza e gran parte della refurtiva è stata recuperata. Il regista non guarda tanto alle tecniche della rapina, in sé piuttosto banali, quanto a ricostruire psicologie e clima sociale. In questo il film marca vari punti positivi scavando nella condizione dei molti che hanno a che fare con ingenti somme di denaro, ma ricevono salari modesti e, di conseguenza, vivono al limite della povertà. E’ un conflitto fra i sogni, alimentati dal contatto con le grandi quantità di contante, e la dura realtà quotidiana. Uno iato che François Cluzet interpreta in maniera mirabile dando al suo personaggio una complessità e una ricchezza di sfumature davvero notevoli. In definitiva un film classico apparentemente semplice, in realtà ricco di succhi capaci d’innescare profittevoli letture di secondo grado.


Il film storico

Anche in questo caso i cineasti d’oltralpe hanno saputo far tesoro del patrimonio culturale e storico della nazione. Fra i titoli visti in questi ultimi anni vale la pena citare apollonide1L’Apollonide – Souvenirs de la Maison Close (L’Apollonide – Ricordi della casa chiusa, 2011) proposto da Bertrand Bonello. Il film è quasi interamente ambientato, ad eccezione la sequenza finale, fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, in una lussuosa casa di tolleranza. Qui le varie donne raccontano i loro triboli e le loro speranze mentre la padrona tenta vanamente si sopravvivere agli aumenti d’affitto imposti dal notaio che possiede l’intero immobile. Questo film non è particolarmente riuscito e non vi mancano numerose incongruenze storiche, a iniziare dalla colonna sonora infarcita di canzoni anni sessanta la cui presenza il regista giustifica affermando di aver voluto legare il passato al presente.
une promesse locandinaRientra in questo tipo di film anche Une promesse (Una promessa, 2013) che Patrice Leconte ha diretto dopo una serie di titoli di grande interesse e dopo il disegno animato La bottega dei suicidi (Le Magasin des suicides, 2012). Questa volta il regista si è rivolto al romanziere viennese Stefan Zweig (1881 – 1942) e al suo racconto Il viaggio nel passato (Reise in die Vergangenheit, 1929), per orchestrare la storia sentimentale che coinvolge un giovane ingegnere povero e la moglie del padrone dell’acciaieria in cui lavora. Una storia dal taglio decisamente romantico, collocata in Germania fra il 1912 e la sconfitta nella prima guerra mondiale. E’ un film molto curato, di taglio scenografico quasi viscontiano – tutti gli arredi sono dell’epoca giusta – e un racconto elegante denso di sottili osservazioni classiste, mai gridate. Un buon prodotto di cinema tradizionale, solido quanto poco originale.


Le storie d'amore

locandina-il-ragazzo-con-la-biciclettaLe storie d’amore, con finali più o meno lieti, sono da sempre un punto di forza, anche commerciale del cinema francese. Andando al passato basterà ricordare un altro successo planetario: Un uomo e una donna (Un homme et une femme, 1966) di Claude Lelouch. I legami fra la cinematografie belga e francese sono così intricati da permettere di parlare di una sola mondo creativo, come dimostra il caso di Jean-Pierre e Luc Dardenne. A proposito di questi due cineasti ricordiamo subito Il ragazzo con la bicicletta (Le gamin au vélo, 2011). Sono autori che per questo titolo hanno ottenuto, ex – aequo con Nuri Bilge Ceylan, regista di Zamanlar Anadolu’da (C’era una volta l’Anatolia, 2011), il Gran Premio della Giuria del Festival di Cannes bissando i successi di Rosetta (Palma d’Oro e premio della migliore interpretazione femminile, 1999), Le fils (Il figlio) che ha ottenuto il premio per la migliore interpretazione maschile del 2002 e L’enfant (Il ragazzo) coronato con la Palma d’Oro nel 2005. Questa loro ultima fatica conferma lo stile delle loro opere migliori, un percorso fatto di macchina da presa costantemente sugli interpreti, storie semplici ma ricche di significato, interpreti straordinari. Cyril non ha ancora compiuto dodici anni, vive in una casa per ragazzi dove il padre l’ha messo non avendo più intenzione di curarsi di lui. Il sogno del giovane è di ritrovare il genitore, ma quando ciò accade, questi gli conferma che non vuole più saperne di lui. Uno spiraglio si apre quando Samantha, una parrucchiera gentile e sensibile, decide di diventare l’affidataria temporanea del ragazzo. Anche nella nuova situazione le cose non vanno bene e il giovane lui si lega a un delinquentello che lo spinge a rapinare un bibliotecario. Uscito dai guai, grazie ancora ai buoni uffici della parrucchiera, rischia grosso quando il figlio del rapinato vuole vendicarsi. Tuttavia ogni cosa finirà bene con la speranza che l’adolescente abbia superato il trauma dell’abbandono e capito quale strada sia meglio imboccare. Il film è girato con l’usuale stile pulito e tranquillo tipico di questi cineasti, e costruisce un piccolo apologo sulla violenza del mondo e sui drammi dell’abbandono. E’ una storia apparentemente banale, ma che gli autori trasformano in un piccolo gioiello di sensibilità e introspezione psicologica.
brasserie romantiek posterAnche Joël Vanhoebrouck è belga, ma il cui esordio, Brasserie Romantiek (Ristorante romantico, 2012) segna un debutto tipicamente francese. Tutto si svolge la sera del 14 febbraio, San Valentino, in un tempo che è quasi lo stesso della proiezione cinematografica. La scena è quella di un piccolo ristorante di Bruxelles dove è stato organizzato in pranzo romantico a menu fisso riservato a coppie d’innamorati omo ed eterosessuali. In tutto sono una ventina di clienti che vanno dalla moglie abbandonata, che ha scelto proprio quell’occasione per uccidersi con il veleno inserito in un cioccolatino mescolato ad altri in una scatola a forma di cuore, al giovane pasticcione che tenta l’avventura con un appuntamento al buio combinato su internet, all’ex – innamorato che si presenta alla donna che lo ha sempre amato (la comproprietaria del locale) a distanza di lustri per invitarla a seguirlo immediatamente a Buenos Aires, alla coppia matura formata da una moglie in crisi e da un marito che neppure si accorge del disagio della compagna. Non tutte le storie avranno un lieto fine. La donna sola troverà un nuovo compagno nel cameriere del locale, il pasticcione capirà che una cosa sono i sogni, un’altra la realtà e capirà che la ragazza contatta su internet può essere una possibile, ottima compagna. Esito non ugualmente positivo avranno le storie della coppia matura e quella della padrona del ristorante. Il film ha un taglio decisamente teatrale, sottolineato dalla quasi unità di luogo – la sala da pranzo e la cucina – ma un andamento talmente mosso da mettere in ombra qualsiasi staticità. Ciò che conta sono i dialoghi fulminanti e il ritmo con cui le situazioni si susseguono e s’inanellano. In altre parole un film brillate e malinconico, come dire una delle miscele migliori che il cinema passa offrire.
jeune-et-jolie-2013-ozon-posterUn caso specifico è quello di François Ozon, un autore che si dedica da sempre al tratteggio di figure apparentemente normali, in realtà dalla psicologia complessa e, a tratti, contradditoria. Tale è anche la diciassettenne Isabelle che, con il nome di Lea, si prostituisce attraverso internet. Figlia di una buona famiglia borghese, vive con il patrigno, la madre e il fratello adolescente. Vende il suo corpo senza una ragione particolare, non per soldi, che potrebbe avere semplicemente chiedendoli alla madre, non per altre ragioni se non una sorta di curiosità morbosa che la spinge a incontri mercenari dai quali conosce personaggi e situazioni che la intrigano per ragioni che neppure lei sa spiegarsi. Tutto cambia quando un anziano cliente le muore fra le braccia. La polizia apre un’inchiesta, madre e patrigno scoprono le sua attività amatorie, ben presto anche amici e conoscenti vengono a sapere. Jeune et Jolie (Giovane & bella, 2013) occhieggia con non poca approssimazione a Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel, ma il regista non ha neppure una piccolissima dose della capacità di quell’autore di dare senso e fascino a un quadro intessuto di una forte vene surreale. Qui tutto appare sin troppo reale e il panorama scivola rapidamente nella piattezza venata d’intellettualismo.


grand-central-la-locandina-del-film-290102 mediumStoria d’amore anche quella legata al triangolo che s’instaura fra tre lavoratori di una centrale atomica in Grand Central (La grande centrale, 2013) di Rebecca Zlotowski. Gary, un giovane prestante e sbandato, s’innamora di Karole, moglie del suo collega Toni ma non sa che la donna gli si è concessa per essere messa in cinta, visto che vuole un figlio e suo marito è sterile. Quando le carte sono messe in tavola ci sono prevedibili scenate e allontanamento di tutti. Non è una storia particolarmente nuova né la regista la racconta in maniera originale. La sola cosa interessante è l’ambiente di lavoro in cui i tre operano: una grande centrale nucleare in cui la contaminazione e i rischi per la salute sono presenti in ogni gesto. Il resto, solidarietà e conflitto fra operai, non aggiungono molto a quanto il cinema ha raccontato nei decenni scorsi. Chi sa se l’aver dato il nome di Toni ad uno dei protagonisti è un omaggio consapevole al film omonimo diretto da Jean Renoir nel 1935.
la-vta-di-adele-posterIn ogni caso uno degli autori di maggior pregio di questa tendenza è Abdellatif Kechiche che ha tratto, liberamente, La vita di Adele (La Vie d’Adéle, 2013) dalla graphic novel Le Bleu est une Colleur Chaude (Il blu è un colore caldo, 2010) di Julie Maroh. Il film racconta la bella storia di una relazione amorosa fra due donne colte in un momento fondamentale per la formazione e maturazione del carattere. Adele ha quindici anni e frequenta la prima liceo quando incontra Emma, studentessa della scuola artistica, più anziana di lei e dichiaratamente lesbica. Fra le due esplode un’attrazione sentimentale e fisica molto forte. Sono passati gli anni e ora vivono assieme, Emma è diventata una brava pittrice e ha fatto dell’amica una vera e propria musa ispiratrice. L’artista, assorbita dal lavoro, trascura la compagna, che ha trovato impiego come insegnate in una scuola materna. Questa, sentendosi esclusa, si concede una breve relazione, solo sessuale, con un collega, ma quando la compagna scopre la cosa la caccia di casa e non vuole più avere a che fare con lei. Sono passasti altri anni ed ora la maestra insegna nelle suole elementari, mentre la pittrice, sempre più affermata, ha un’altra compagna, anche lei artista, e stanno organizzando una mostra assieme. Il vernissage offre una fuggevole occasione d’incontro alle due ex – amanti. L’insegnate confessa di essere vissuta nel ricordo dei del loro amore e la pittrice, seppur con maggior riluttanza, ammette la stessa cosa. Tuttavia oramai tutto è stato deciso e non rimane che sancire una separazione definitiva. Il film disegna una storia d’amore straziante e realistica, dove le sequenze erotiche esprimono con grande chiarezza movimenti, posizioni, passione. E’ anche lo straordinario ritratto femminile di una donna (Adele Exarchopoulos) colta nei vari passaggi fra l’adolescenza e la maturità. Un film tenero e drammatico in cui la fine di un amore diventa esperienza lacerante per chi vi è stato coinvolto. Davvero un testo di prim’ordine e il manifesto dei diritti di una sessualità che non conosce barrire di genere.
suzanne-posterRitorniamo alle figure femminili con Suzanne (2013) di Katell Quillévéré, ritratto doloroso di una giovane che, per amore, percorre in discesa l’intera scala sociale. La regista la segue dalla prima adolescenza quando, orfana di madre ma con accanto una sorella minore molto equilibrata, si trova a dover affrontare un gravidanza indesiderata. Partorisce un figlio, poi s’innamora di un trafficante di droga, dal quale avrà una bambina, che la trascina nella latitanza. Col passare degli anni perde sia la sorella, morta in un incidente stradale, sia l’affetto del padre, un camionista solido e razionale. Conoscerà la prigione, il figlio le sarà sottratto e si troverà ancor più sola. Il suo gesto finale, quello di denunciarsi al poliziotto che le sta controllando i documenti, assomiglia assai più che a un pentimento all’esplodere di una stanchezza del vivere che le ha chiuso ogni via d’uscita. Film come questo richiedono un contributo fondamentale all’attrice che ricopre il ruolo principale e la giovane Sara Forestier mostra di disporre più che a sufficienza delle doti necessarie a sostenere un ruolo tanto importante e difficile.  


jimmy p posterA mezza strada fra Stati Uniti e Francia si colloca Jimmy P. - Psychothérapie d’un Indien des Plaintes (Jimmy P. - Psicoterapia di un indiano delle pianure, 2013) di Armand Deplechin che porta sullo schermo un caso psichiatrico particolarmente difficile. Nell’immediato dopoguerra un indiano della tribù dei Piedi Neri, reduce dalle battaglie in Francia, è ricoverato in un ospedale militare causa continui dolori alla testa e allucinazioni. Nonostante abbia subito un’operazione sommaria al cranio in zona di guerra, gli esami non rivelano nessuna anomalia fisiologica. A questo punto uno dei medici ha l’idea di chiedere consiglio ad un francese d’origini rumene che vive a New York e ha una solida fama di esperto in culture indio-americane. Il tipo, che tutti trattano da psichiatra anche se non è affatto chiaro che abbia realmente conseguito laurea e specializzazione, riesce nell’improba fatica di rimettere il linea il paziente facendo leva sul suo passato e, soprattutto, sui traumi causati dal conflitto fra cultura bianca e valori indiani. E’ questo un classico film per attori, Benicio Del Toro e Mathieu Amalric danno il meglio disegnando alla perfezione paziente e psichiatra. Lo spunto lo offre una storia vera, ma questo non aggiunge un grammo alla nostra conoscenza sull’epoca in cui i fatti si svolgono, né ai rapporti fra conquistatori e nativi, né, infine, sullo scontro fra culture, sostanzialmente primitive, e abitudini moderne. Come dire: un testo di ottima professionalità, ma un film privo di vera originalità.

Le storie a sfondo sociale

les-neiges-du-kilimandjaro-4Robert Guédiguian è un vero maestro del cinema strutturato su componenti politiche. La sua ultima fatica, Les Neiges du Kilimandjaro (Le nevi del Kilimangiaro, 2011), è dominato da speranza e buoni sentimenti. Ritornato nella sua Marsiglia dopo alcune escursioni parigine, il regista ci racconta i triboli di un sindacalista portuale che spinge la sua onestà sino a truccare l’estrazione per scegliere i venti operai da licenziare in cantiere, mettendo il suo nome al posto di quello di un altro. Disoccupato e melanconico, passa le giornate fra lavori casalinghi e ozio, sino al momento in cui lui, la moglie e una coppia di amici sono vittime di una rapina in cui due banditi rubano loro risparmi e denari raccolti dagli altri operai per compensarlo del suo lungo lavoro sindacale. Casualmente scopre che uno dei rapinatori è un suo ex – collega, licenziato anch’egli, lo denuncia alla polizia e lo fa condannare. Quando ha un confronto con il ladro, si sente insultare e accusare di non aver adempiuto ai suoi compiti in modo adeguato. Sconvolto, finirà per prendere con sé, assieme alla moglie, i due fratelli del delinquente, due ragazzini che, altrimenti, rimarrebbero senza alcuna protezione. Più che ai vecchi ideali comunisti, tipici di questo regista, spira nel film una piacevole aria di socialismo romantico, rinforzato dalla molte citazioni di Jean Jaurès, uno dei padri della socialdemocrazia francese. E' un film ottimista e solidale che, di questi tempi, appare più che utile.
louise-wimmer posterLa sensibilità dei registi francesi verso i temi sociali è nota e le produzioni di questi ultimi anni l’hanno confermata con forza. Un caso emblematico è quello di Louise Wimmer (2012), opera prima di Cyril Mennegun che porta al centro del racconto una cinquantenne in difficoltà che ha alle spalle una tranquilla vita borghese interrotta dalla burrascosa separazione dal marito, che l’ha lasciata sola e piana di debiti legati alla sua passata attività di piccola imprenditrice. Ora è costretta a vivere d’espedienti, dormire in macchina, rubare il carburante, lavorare come cameriera in un albergo, lavarsi nei bagni delle stazioni di servizio. E’ la disperazione più totale, ma lei non si arrende, rifiuta ogni aiuto, anche quello dell’amante, protesta cocciutamente con il personale dell’ufficio incaricato di assegnare le case ai poveri, tiene testa al direttore dell’albergo in cui lavora e guarda oltre le difficoltà. Alla fine anche per lei si aprirà uno spiraglio di speranza. Il film traccia un ritratto preciso e doloroso di una persona che ha perso lo status sociale e deve misurare sulla sua pelle la difficoltà del vivere senza risorse. Il film - già pregevole per l’interpretazione di Corinne Masiero, attrice dal corposo passato televisivo che qui assume uno spessore e un’attualità del tutto particolari confermando la sensibilità del miglior cinema francese contemporaneo verso i grandi temi sociali. La vicenda di questa donna, la cui età la colloca quasi nel ruolo di relitto per il mondo produttivo, diventa l’emblema di una macelleria sociale che non riguarda solo il mondo dei poveri e quello degli emarginati, ma tocca direttamente i ceti medi. Come dire che quest’essere umano costretto a dormire in macchina è l’emblema di un’intera classe sociale travolta dalla crisi mondiale e dalla ferocia delle politiche selvaggiamente liberiste.


la-terre-outragee-posterRientra in questo filone anche La Terre Outragée (La terra oltraggiata, 2012) opera prima di Michale Boganim. Il 26 aprile 1986, in piena notte, una terribile esplosione scoperchiò il quarto reattore della centrale nucleare Vladimir Il'ič Lenin, situata tre chilometri dalla cittadina modello di Pripjat', un centro abitato da cinquantamila persone, e a diciotto da quella di Černobyl', in Ucraina, in pratica sul confine con la Bielorussia. Era capitato che l’imperizia e la superficialità dei tecnici addetti al complesso li avessero portati a violare le norme di sicurezza e a tentare un esperimento dall’esito disastroso. Si era nel pieno del ponte del 1° maggio e l’allarme fu dato in ritardo e con gravissima sottovalutazione. Questo causò una risposta lenta dell’intero sistema statale, i 336 mila abitanti furono evacuati solo quattro giorni dopo, in pieno caos organizzativo, con conseguente esposizione alle radiazioni di un vasto territorio e di migliaia di persone. Il film ha per sfondo questa situazione, colta nelle ore della tragedia e nelle conseguenze che ne sono derivate dieci anni dopo. Lo fa con le vicende di una giovane che si sta sposando proprio in quelle ore e perderà il marito, un vigile del fuoco accorso fra i primi sul luogo del disastro, e di un ingegnere che scomparirà nel caos dopo aver tentato, con poveri mezzi, di riparare quante più persone possibili dalla terribile pioggia radioattiva che si abbatté sul territorio. A distanza di un decennio la vedova e il figlio del tecnico ritornano nella città morta, fra edifici sventati e monumenti mutilati. Lei è diventata una sorta di guida turistica per visitatori professionali, lui non accetta l’idea della morte del padre. La donna potrebbe rifarsi una vita emigrando in Francia con il nuovo compagno, ma non riesce, per quanto ammalata senza speranze, ad abbandonare i luoghi dove è stata felice. Lui cerca di recuperare una memoria e un filo esistenziale brutalmente spezzato. Il film ha un taglio drammatico e quasi documentario, con immagini che straziano proprio perché rimandano a una normalità spezzata dalla follia degli uomini. E’ un testo maturo retto da una narrazione professionalmente alta e segnata da un forte impegno morale e umano.
affiche-du-film-apres-mai-d-olivier-620x0-1Après Mai (Dopo maggio, 2012) del francese Olivier Assayas rientra in qualche misura nel cinema a cavallo fra sentimenti e politica. Il film mira a tracciare un quadro, se non della generazione del mitico 1968, di quella dei loro fratelli minori. Siamo in una scuola della periferia parigina, nel 1971, dove si scontrano anarchici, maoisti, trotskisti, ciascuno con la propria verità preconfezionata in tasca, uniti solo dall’odio verso la borghesia e il Partito Comunista Francese. Il film segue, è un dato autobiografico, un giovane aspirante pittore, poi cineasta, che milita fra i libertari estremi avendo sempre di mira più l’arte che la rivoluzione. Anche se vorrebbe essere il ritratto di un’intera generazione, il regista dice ben poco sulle scelte che faranno questi ribelli, scelte che porteranno un bel po’ di loro a ritornare, a capo chino, nelle file della borghesia diventando manager, grandi avvocati, intellettuali osannati, banchieri, direttori di giornali o di reti televisive. Diceva Italo Calvino, lo citiamo a memoria, che l’estremismo è la posizione più vicina al cedimento. Ciò che manca al film è lo scavo delle ragioni profonde che, nel caos generale, hanno indotto non pochi a rientrare nei ranghi da cui provenivano, altri a sprofondare nell’inferno della droga – l’accento alla ragazza che si fa d’eroina è più scenografico che analitico - altri ancora ad abbandonarsi alla follia terrorista. A proposito di quest’ultimo argomento va detto che la breve sequenza dell’auto incendiata, perché utilizzata per un qualche reato politicamente mascherato, dice poco e niente su un tema di bruciante drammaticità. Si obietterà che questo è solo un film e non un saggio storico, ma quando un artista decide di mettere in scena il clima che ha segnato un’intera generazione, il minimo che gli si può chiedere e di essere attento agli elementi fondamentali che hanno contribuito a creare quel clima. Per il resto il film scorre bene, gli attori hanno i volti e i fisici giusti, la storia segue un percorso scarno ma lineare. Le obiezioni riguardano, dunque, il complesso del discorso, ma non sono tali da invalidare completamente l’opera.
image manquantePuò essere inquadrato nei ranghi del cinema transalpino anche il cambogiano Rithy Panh, autore de L’image manquant (L’immagine mancante, 2013). Il regista vive a Parigi, ma in gioventù ha attraversato la tragedia della follia dei Khmer Rossi. Deportato con l’intera famiglia nella foresta dopo che i nuovi padroni del paese, che governeranno dal 1975 al 1979, avevano letteralmente svuotato la capitale Phnom Penh dei suoi abitanti. La filosofia folle e criminale di Pol Pot, che guidava quel movimento, era che si doveva azzerare tutto per ricostruire un nuovo mondo non contaminato dal capitalismo. Le scuole furono chiuse, spesso trasformate in luoghi di tortura, bandite le medicine occidentali sostituite con rimedi vegetali, cancellata ogni forma d’arte che non fosse d’esaltazione del regime. Il regista ricostruisce questo terribile dramma, spesso sottovalutato dai media europei, facendo ricorso alle poche immagini di regine e integrando ciò che non c’è mai stato con una sorta di presepio del dolore costruito con pupazzi dolenti. Ne nasce un film molto toccante e bello nella costruzione stilistica. Una testimonianza davvero indimenticabile.


 

La politica

il ministro posterI cineasti d’oltralpe si sono cimentati spesso con la politica, uno degli esempi più recenti lo ha offerto Pierre Schoeller autore de Il ministro - L'esercizio dello Stato (L’Excercice de L’Etat, 2011) Il film ruota attorno alla figura di un ministro di secondo livello, quello dei trasporti, costretto a scegliere fa l’impegno che ha preso per salvaguardare i suoi concittadini che usano i mezzi pubblici o farsi complice di una complessa manovra ordita dal potere politico in combutta con quello economico. Un losco affare che ruota attorno alla privatizzazione delle grandi stazioni ferroviarie. Resisterà un po’, ma si piegherà quando il capo del governo gli farà capire che potrebbe ottenere un dicastero più importante. Anzi, accetterà con gioia di diventare ministro degli affari sociali con il compito di sedare in qualche modo il malcontento suscitato dalle sue decisioni. Il film non è del tutto chiaro per uno spettatore non esperto di maneggi della politica francese, ma ha una sua compattezza narrativa, non inquinata da pochi elementi sicuramente negativi. Fra questi le immagini grandguignolesche dell’incidente d’auto di cui è vittima il politico. C’è, inoltre, una solidità complessiva che lo candida a materiale utile per un’accesa discussione. Per quanto riguarda il nostro pubblico richiama qualche analogia con fatti e costumi della vita la politica italiana, anche se si tratta spesso di riferimenti generici che non s’inseriscono con precisione in fatti che tutti ci coinvolgono.
quai-dorsay-afficheIn tempi ancor più vicini a noi c’è da segnalare Quai D’Orsai (2013) di Bertrand Tavernier che ha portato sul grande schermo la prima parte del racconto a fumetti omonimo di Abel Lanzac e Christophe Balin. Il titolo del film cita l’indirizzo del Ministero francese degli Affari Esteri ed è un testo che irride l’incapacità, il pressapochismo e le manie che marcano quest’importantissimo snodo della diplomazia mondiale. Il modello è Dominique de Villepin, ministro durante la presidenza di Jacques Chirac. Si ride amaro e ci si chiede in quali mani siano depositate le sorti del mondo. Un film fortemente ironico, che ha colpito soprattutto il pubblico che vi ha colto i numerosi riferimenti a noti personaggi politici d’oltralpe. Un testo simpatico e a suo modo abbastanza coraggioso, ma che non aggiunge nulla alla filmografia di un regista che rimane fra i maggiori del panorama mondiale e un intellettuale le cui analisi sul cinema americano, in particolare l’western, restano tutt’ora basilari.

Le commedie

ni a vendre ni a louer posterIl cinema ridanciano è uno dei punti di forza delle cinematografie mediterranee e anche in Francia ha un peso molto forte. Basti ricordare l’esito di un titolo come Giù al Nord (Bienvenue chez les Ch'tis, 2008) di Dany Boon da cui è derivato l’italiano Benvenuti al Sud (2010) di Luca Maniero e il sequel Benvenuti al Nord (2012) a firma del medesimo regista. Per quanto riguarda il resto della produzione transalpina ricordiamo Ni à vendre, ni à louer (Non da vendere né affittare, 2011) del disegnatore di fumetti Pasacal Rabaté. Il film nasce da una delle sue graphic stories ed è sostanzialmente privo di dialoghi. Su una spiaggia di Saint-Nazaire, in Bretagna, durante la morta stagione, si ritrovano vari personaggi. Due coppie e un uomo, con tendenze sadomaso, alloggiano tutti all’albergo L’Océan. Il maschio solitario si fa ammanettare al letto e frustrare da un’amante compiacente. Solo che, sul più bello, lei lo lascia in quella scomoda posizione, gli ruba vestiti, macchina, documenti e scappa. Gli altri quattro vanno al mare e, dopo qualche inciampo dovuto a un aquilone sfuggito al controllo, si scambiano i partner. Nel frattempo altri villeggianti vivono in scomode roulotte, in case minuscole, in improbabili tende oppure, come la coppia hippy cui va la simpatia del regista, dormono direttamente sulla spiaggia. Accadono vari incidenti tutti generalmente a lieto fine, fra cui un funerale punteggiato d’inciampi. Ci sono anche un paio di borseggiatori che gozzovigliano saldando i conti con la carta di credito sottratta al cultore delle pratiche sadomaso. Il film è praticamente muto, con qualche battuta qua e là che non va oltre le due o tre sillabe. Oltre che riferimenti ai fumetti ci sono non poche citazioni cinematografiche che spaziano da Jacques Tati (Le vacanze di Monsieur HulotLes vacances de Monsieur Hulot, 1953) a Pierre Étaix (Quando c’è la salute - Tant qu'on a la santé, 1965), tutte debitamente aggiornate ai giorni nostri. Ne nasce un film non originalissimo, ma poetico e coraggioso nel suo andare programmaticamente controcorrente rispetto al cinema chiassoso che trionfa sugli schermi.


paulette-posterPaulette (2013) di Jérôme Enrico è un film che fa tesoro, lo dice lo stesso regista, della lezione della commedia italiana degli anni sessanta e settanta (Ettore Scola, Dino Risi, Mario Monicelli), ma lo fa recuperando più i meccanismi narrativi e solo parzialmente i temi sociali. Paulette è una povera vedova che sopravvive malamente in un quartare periferico di Parigi infestato di spacciatori e piccoli delinquenti. Deve campare con una pensione di soli seicento euro al mese, non riesce a saldare le bollette e deve far fronte a qualche debito. Casualmente scopre che si può guadagnare molto spacciando hascisc e marihuana impastati in deliziosi dolci. Tutto va bene sino al momento in cui un boss della malavita russa scopre l’andazzo e pretende che la vecchietta e le sue amiche vendano torte e merendine infarcite di droghe pesanti ai ragazzini delle scuole elementari. La donna si rifiuta e la situazione precipita sino all’arrivo di suo genero, un poliziotto di colore, alla testa di una nutrita squadra di agenti. Lieto fine con il trasferimento ad Amsterdam della vegliarda e delle altre anziane che assumono la gestione di una pasticceria che vende dolci all’hascisc. Le cose migliori del film sono nella prima parte con la descrizione del carattere razzista e rancoroso della protagonista e nel tratteggio di un universo miserabile segno della decadenza in cui la crisi economica ha spinto buona parte della piccola borghesia. Un panorama segnato da immobili sporchi, degradati, fatiscenti. Poi, quando il film imbocca in modo più netto la strada della farsa, molte sfumature si perdono per strada. Ciò che rimane, in ultima analisi, è un tentativo generoso e solo parzialmente riuscito di coniugare risate e riflessioni sociali, comicità e satira civile. Da notare la straordinaria interpretazione delle quattro protagoniste guidate da una Bernadette Lafont al limite della perfezione.

Gli ospiti

pollo-alle-prugne-posterIl cinema francese ha sempre concesso spazio a cineasti che vi hanno trovato rifugio sfuggendo alle difficili condizioni dei loro paesi. Questo è stato particolarmente vero per i creatori maghrebini ma ha funzionato anche per altri. Un caso particolare è quello dell’iraniana Marjane Saprapi che, con Vincent Paronnaud, ha diretto Pollo alle prugne (Polet aux Prunes, 2011), un bel pastiche stilistico che sorregge un film nato dal racconto a fumetti. Questi due cineasti avevano già fornito ottima prova con Persepolis (2007). Marjane Satrapi, in particolare, ha una biografia molto interessante. Nata in Iran nel 1969 è espatriata prima in Austria, poi a Parigi dove vive. La sua è una delle voci più ostili nei confronti del regime clericale che regge il suo paese, regime del quale le sue storie hanno dato un’immagine particolarmente fosca. Questo nuovo testo è ambientato a Teheran nel 1958, quando è ancora vivo il ricordo del tentativo, fallito, di Mohammad Mosadeq (1882 – 1967) di restituire allo stato il controllo delle risorse petrolifere, sino a quel momento appaltate a grandi società britanniche. Il film racconta una storia d’amore che è anche la metafora del difficile rapporto fra arte e situazioni politiche. Nasser (nome non scelto a caso) Ali Khan è un famoso violinista che ha tenuto concerti in tutto il mondo. La sua vita è segnata dal dolore per il rifiuto del padre dell’amata di dargliela in moglie, preferendo maritarla con un militare anche a costo di renderla infelice. Ora il musicista è sposato con una donna che non ama e che, in un eccesso di rabbia, gli distrugge l’amato strumento. L’artista, privato del violino, non riesce a trovarne un altro degno della sua arte e decide di lasciarsi morire. La cosa avviene dopo otto giorni in cui rivediamo i più importanti momenti della sua vita, assistiamo al racconto di storie fantastiche, partecipiamo ai momenti più espressivi del suo rapporto con la madre. I registi mescolano i più svariati strumenti espressivi, dal disegno animato, alla computer grafic, dal surreale all’iperrealistico. E’ un’opera complessa che nasconde, sotto un’apparente patina di semplicità, un discorso articolato, commuovente, politicamente maturo.
le-pass-posterAtro cineasta iraniano in quasi esilio parigino è Asghar Farhadi. Il suo Le passé (Il passato, 2013) allude a ciò che hanno alle spalle Marie (Bérènice Bejo) e Samir (Tahar Rahim) che quattro anni prima si sono separati. Quando si erano sposati lei aveva già due figlie nate da una precedente unione, ora si ritrovano per le formalità della pratica di divorzio. Lui arriva da Teheran dove è ritornato, lei è incinta e sta per sposarsi con un giovane d’origine magrebina che ha già un figlio e una moglie in coma dopo un tentativo di suicidio. Le cose non vanno affatto bene e i tre protagonisti passano da una lite ad un’altra, anche a causa delle inquietudini dei piccoli: il ragazzino non vuole accettare la nuova compagna del padre e la ragazza è turbata dal senso di colpa che le viene dal credere di essere stata la causa del tentativo di suicidio della moglie del nuovo compagno della madre. Tuttavia le cose non sono come sembrano e solo negli ultimi minuti si scoprirà come (forse) le cose sono andate veramente. Il film ha un taglio decisamente teatrale: pochi luoghi come scenografia, abbondanza di dialoghi, atmosfere rarefatte illuminate da improvvisi colpi di scena. Ciò che preme al regista è l’esame delle psicologie dei vari personaggi sino ad illuminare quell’inferno, mascherato da apparente paradiso, che si cela spesso dietro i rapporti di coppia. E’ un approccio che traspariva già in film come A proposito di Elly (Darbareye Elly, 2009) e Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin, 2011) in cui da storie personali emergeva un ritratto della società iraniana che non sarebbe stato possibile proporre in modo diretto causa la censura dei chierici islamici. Questa volta il legame con il mondo esterno appare molto più sfumato e il quadro della condizione degli stranieri alle prese con una società multietnica è diluito al punto di scomparire. Ciò che resta è un bel melodramma, forse eccessivamente verboso, ma retto da interpretazioni accurate e molto professionali.


I film davvero originali

the-artist-locandinaThe Artist (L’artista, 2011) di Micherl Hazanavicius racconta una storia non nuova e parla di quella fase, convulsa e drammatica, che ha segnato sia il passaggio dal cinema muto a quello sonoro (1927 uscita di The Jazz SingerIl cantante di Jazz – di Alan Crosland), sia il dramma della grande crisi che ha travolto l’economia mondiale fra il 1929 e il 1933. Il primo scenario è affrontato con alcune trovate davvero notevoli. Citiamone una: il passaggio al cinema sonoro segnalato con gli oggetti che, cadendo o spostandosi, fanno rumore, mentre gli esseri umani, in particolare il protagonista, continuano a rimanere afoni. Il film racconta, praticamente senza dialoghi, l’amore fra un divo del muto e una giovane star del sonoro che egli stesso aveva avviato al cinema. I due hanno rapporti molto difficili, con lei che non smette di aiutare il protagonista anche quando rifiuta ogni sostegno. Il finale è all’insegna del più classico happy end, con il ritorno al successo di entrambi come coppia di ballerini. E’ un’opera molto simpatica, leggera, intelligente nella costruzione e di ottimo livello nella confezione e nello sviluppo, anche se prevedibile, del racconto.
mouton 1Mouton (Montone, 2013) di Marianne Pistone e Gilles Deroo è un film inconsueto. In un certo senso sembra provenire dal passato, da quando – anni sessanta del secolo scorso – erano in voga il cinema verità, i documentari lunghissimi della scuola ungherese e la macchina da presa era impugnata quasi come una penna. Il tutto per seguite i più reconditi palpiti di un qualche personaggio che spesso faceva cose banalissime. In questo caso la camera pedina, in tre tempi, Orelien - detto Mouton - giovane figlio di una madre alcolizzata alla quale è sottratto, mandato in un istituto per minori e qui trasformato in un cuoco appassionato e provetto. Purtroppo durante una festa paesana – l’intera storia si svolge in un villaggio bretone sul mare – un tizio, in evidente stato alcolico, gli taglia un braccio con una sega meccanica. Privato di ogni possibilità di lavoro il giovane si allontana e scompare dando sporadicamente notizie di se. Coloro che sono rimasti, qui inizia la seconda parte, lo ricordano in più di un’occasione tanto che sembra quasi che tutto continui a ruotare attorno alla sua figura. Nell’ultimo, rapido, capitolo assistiamo, mesi dopo, a una sorta di ritorno alla vita ordinaria, con i ricordi del ragazzo che rimangono solo nella mente di alcuni e si fanno sempre più labili. Il film è girato interamente con la macchina a mano, il che significa inquadrature volutamente sporche, traballanti, sfuocate. Se un tempo questo tipo di cinema aveva dato vita a una vera e propria tendenza, oggi si colloca più sul versante delle operazioni intellettualistiche che non su quello della ricerca di nuove forme d’espressione. E’ un testo che si guarda anche con un fondo di simpatia, ma senza alcuna autentica emozione.


Il cinema degli autori

hors stan posterUna delle caratteristiche del cinema francese è quella, come accade in qualsiasi solida attività industriale di dare spazio anche ad autori poco convenzionali. Uno di questi è sicuramente Bruno Dumont di cui in passato abbiamo apprezzato le opere interpretate da attori improvvisasti con esiti spesso sconcertanti. Al Festival di Cannes 1999 il suo L'umanità (L'humanité) vinse il Premio Speciale della Giuria e fruttò ai due interpreti principali – entrambi attori non professionisti – la Palma per la migliore interpretazione maschile (Emmanuel Schotté) e femminile (Séverine Caneele). Il cinema di questo regista è profondamente intriso di valori religiosi, come testimonia anche Hors Satan (Fuori Satana, 2011) un’opera aperta ad un discorso leggibile anche come metafora sulla fede e in cui un misterioso personaggio, capace di resuscitare i morti e punire i malvagi, si accompagna - siamo in una regione della Manica - a una ragazza oltraggiata da un vicino, innamorata e pronta a fare l’amore con il santo. Lui respinge ogni offerta sessuale, come capita agli angeli scesi sulla terra, mentre fa pagare ai malvagi pagano il fio delle loro colpe. Questo anche quando si tratta di semplici viandanti troppo sensibili al richiamo del sesso. Ancora una volta siamo in presenza di una fotografia che trae il meglio da un paesaggio ricco di suggestioni, ma anche di una morale e una teoria che prevalgono sul racconto. Vale la pena notare come, nel 2010, ci sia stato un film turco, Kosmos di Reha Erdem al cui centro c’è una figura di santo misterioso, molto simile a quella che compare in quest’opera.
pater locandinaUn altro autore molto personale e schivo è Alain Cavalier che ha realizzato solo sette film dal 1962 al 2011. Testi esteticamente monacali e tematicamente molto personali che questo regista, estremamente schivo, concede ai festival con difficoltà. La sua ultima fatica è Pater (Padre, 2011) in cui porta sullo schermo alcuni fra i momenti più intimi della sua vita. Oggi porta sullo schermo, come aveva fatto nel 2009 con Irene dedicato alla memoria della moglie, il suo rapporto con l’attore Vincent Lindon. I due parlano di un film immaginario in cui si dovrebbero affrontare i ruoli e le figure del Presidente della Repubblica e del Primo Ministro. È un lungo dialogo che finisce per coinvolgere e mettere a confronto due modi di concepire la vita, svelandone i punti di coincidenza e le divergenze. Come si sarà capito è un’opera di taglio molto intellettuale, che affascina e sconcerta e che richiede una lettura molto approfondita.

Roman Polanski

carnage posterRoman Polanski ha trovato rifugio a Parigi, città dove è nato nel 1938 da genitori ebrei polacchi. Dopo le note disavventure giudiziarie negli Stati Uniti si è stabilito definitivamente in Francia. Il suo cinema è fra i più interessanti e avanzati dell’oggi e gli va dato atto di non adagiarsi mai su un genere o su un filone. Dopo il thriller politico L'uomo nell'ombra (The Ghost Writer, 2010), tratto dal romanzo The ghost (2007) di Robert Harris, ha ripreso in mano il suo vecchio amore per il teatro con due film mirabili. Carnage (Carneficina, 2011) nasce dal testo teatrale Le dieu du Carenage (Il dio della carneficina, 2006) della scrittrice, attrice e drammaturga francese Yasmina Reza. Due coppie s’incontrano per discutere e sistemare una lite avvenuta fra i rispettivi figli, uno dei quali ha rotto un paio di denti al rampollo dell’altra famiglia colpendolo con un ramo. Sono i genitori dell’aggredito a invitare gli altri due e tutto sembra procedere per il meglio fra sorrisi, buone maniere e civismo, ma presto le cose iniziano a degenerare. Basta una parola di troppo, un gesto malinteso e scoppia una vera e propria carneficina con le donne che si alleano per accusare i mariti di maschilismo e insensibilità e questi che solidarizzano fra loro all’insegna delle bevute e del cinismo. E’ un percorso dalla civiltà alla ferocia della giungla che passa per la cancellazione di ogni parvenza di socialità in nome della convenienza personale. E’ il classico testo ricco di letture di secondo grado che solo una pattuglia di attori straordinari è in grado di caricare di tutta la complessità che richiede. Buona parte della riuscita del film è dovuta al cast composto di Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz e John C. Reilly che portano sullo schermo il patrimonio professionale acquisito in anni di lavoro nel cinema e in teatro. E’ un’opera rapida, compatta (79 minuti), ma così ricca di senso che si stenta a racchiuderla in un giudizio definitivo.
venere in pelliccia locandinaLeopold von Sacher-Masoch (1836 – 1905) è uno scrittore austriaco di origini spagnole e ucraine. Il termine masochismo nasce dall’opera dello psichiatra Richard von Krafft-Ebing (1840 – 1902) e dagli stati d’animo descritti nei romanzi di quest’autore, fra i quali Venere in pelliccia (Venus im Pelz, 1870) ha avuto un ruolo fondamentale. E’ un testo che è stato utilizzato anche come materiale pornografico e, per questo censurato. Roman Polanski ha preso spunto da un testo teatrale dell'americano Davis Ives (1950), messo in scena nel 2011, per un film (La Vénus à la fourrure, 2013) in cui due soli interpreti si affrontano sulla scena di un teatro parigino piuttosto malandato. Lui è un drammaturgo che ha adattato per il palcoscenico il romanzo e ha deciso di dirigere lo spettacolo, stanco dei continui tradimenti che altri registi riservano a testi che lui ama o ha scritto. Lei, Vanda, è un’attrice, volgarotta e prosperosa che si presenta in ritardo ma equipaggiata di tutto il necessario, all’audizione indetta per scegliere la protagonista dello spettacolo. Dapprima il teatrante mostra irritazione e vorrebbe andarsene senza ascoltarla, poi cede e qui avviene il miracolo: quella donna sboccata e grossolana si rivela una figura ideale per suggerire al drammaturgo modi diversi di leggere il testo, intonazioni da dare al copione, addirittura battute da mutare o inserire nel dialogo. La prova si trasforma così in una sorta di seduta psichiatrica in cui è messo in discussione l’ideale femminile dell’uomo, fatte emergere le sue pulsioni profonde, ribaltati i ruoli dei due protagonisti. Adesso è l’attrice a guidare la danza e il regista ad accettarne ritmi e movimenti. Una donna che, forse, si è già trasferita in una dea o nel mito dell’eterno femminino. Ne emerge una sorta di radiografia dell’anima maschile nei confronti dei sentimenti suscitati dall’ideale femminile. E' un miscuglio di voglia di dominazione e tendenza alla sottomissione, aggressività e ritrosia. E' un film molto bello, girato in maniera straordinaria a cui danno un contributo fondamentale Emanuelle Seigner (nella vita moglie del cineasta) e Mathieu Amalric.


Di diverso parere

linconnu du lac posterLa prima volta che abbiamo visto Lo sconosciuto del lago (L’inconnu du lac, 2013) di Alain Guiraudie ne siamo usciti francamente disgustati non certo per l’esaltazione e il dettaglio degli atti omosessuali, ma per la pochezza estetica e stilistica dell’opera. Poi abbiamo scoperto che il Festival di Salonicco ha dedicato una personale a questo autore, che la giuria di quello di Siviglia gli ha assegnato il maggior riconoscimento, che non pochi critici, particolarmente francesi, hanno parlato di capolavoro e c’è venuto il dubbio di aver preso una cantonata. Abbiamo rivisto il film quando è uscito in Italia e siamo rimasti del medesimo parere. La vicenda si svolge su una spiaggetta lacustre per nudisti gay e nella boscaglia che la circonda. Qui si consumano incontri sessuali occasionali (debitamente ripresi in dettaglio) fra maschi di varia età ed avvenenza e si consuma un omicidio a sfondo erotico. Uno di questi giovani, che ha assistito casualmente al delitto (un prestante maschio baffuto ha annegato il compagno), s’innamora dell’omicida, stringe con lui una relazione amorosa che lo porta a rischiare di essere accusato di complicità nel delitto. Finale grandguignolesco con l’assassino che sgozza un robusto signore, non omosessuale, che si era intromesso nella storia e pugnala a morte il commissario di polizia che aveva intuito ragioni e responsabilità del delitto. Sembrerebbe una vicenda d’amore fra uomini, ma la grossolanità della messa in scena e la povertà del linguaggio la relegano al livello di un film quasi pornografico.