03 Maggio 2017
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Festival Internazionale del Film di Cannes 2017 |
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Nel realizzare Krotkaya (Una donna dolce) il cineasta ucraino Sergei Loznitsa si è ispirato, molto alla lontana, al racconto La mite scritto nel 1876 da Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881), un testo a cui si era già rivolto, nel 1969, Robert Bresson (1901 – 1999) con Une femme douce (Così bella, così dolce), film che ha segnato l’esordio di Dominique Sanda. Sia rispetto alla pagina scritta sia al film precedente, l’unico legame è nella figura della protagonista: una donna del popolo la cui cocciutaggine si scontra con le abitudini di una burocrazia feroce e insensibile. Lei – l’interprete è la brava Vasilina Makovtseva - è ancor giovane e vive sola nella Russia profonda. Un giorno riceve indietro senza alcuna spiegazione un pacco di viveri e oggetti comuni che ha spedito al marito detenuto in un lontano carcere con l’accusa, non meglio precisata, di omicidio. Testardamente vuole sapere le ragioni per cui il pacco è stato respinto, si mette in viaggio e raggiunge la cittadina la cui vita ruota attorno al carcere. Qui, e lungo il percorso subisce oltraggi di ogni tipo, dalle aggressioni sessuali a quelle fisiche, ai furti. È un vero e proprio calvario che si conclude - è la parte meno riuscita – con una lunga sequenza in cui immagina le sia finalmente riconosciuta giustizia, anche se è una speranza vana seguita ad offese ancora maggiori. Tuttavia questo è solo un sogno e il film si chiude ripetendo la sequenza che ha avviato la parte onirica, senza arrivare ad alcuna conclusione. La prima ora di proiezione (il film dura complessivamente poco meno di due ore e mezzo) è quella meglio riuscita, qui il regista dispiega al massimo livello le sue qualità di documentarista, quelle stesse che abbiamo apprezzato pochi mesi orsono quando è stato presentato sui nostri schermi Austerlitz (2016). In queste sequenze, molte delle quali quasi senza parole, ci sono le immagini del paesaggio russo che parlano da sole con la loro terribile desolazione, offrendo il quadro di un mondo da cui è stata espulsa ogni speranza. La parte finale, con il sogno e l’utilizzo di un fantastico ben poco funzionale, l’opera perde forza e riecheggia un cinema vecchio, privo quasi del tutto di fascino.
Good Time (Buon tempo) degli attori e cineasti Josh e Benny Safdie racconta, con luci cupe, la lunga note di un piccolo delinquente newyorkese che tenta di liberare il fratello handicappato con cui ha consumato una rapina in banca dai toni comico – grotteschi. Lui è riuscito a scappare, ma il fratello è stato arrestato, visto che ha tentato di passare attraverso una porta a vetri senza accorgersi che era chiusa! Ora lui deve mettere assieme i soldi necessari per pagare la cauzione al congiunto oppure farlo evadere. È talmente imbranato che fa scappare dall’ospedale un altro prigioniero, credendo che sia il fratello, ma quando scopre che si tratta di uno spacciatore che ha appena nascosto nei capannoni di un parco divertimenti una consistente partita di droga, cambia idea e spera di ricavare dal bottino una somma sufficiente a fuggire lontano con il fratello. Il film radiografa una notte di delinquenza comune allo stesso modo come è stato fatto da decine di altre opere di ben maggiore spessore. Ciò che rimane è un testo scontato, prevedibile, realizzato in maniera approssimativa.
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