Festival Internazionale del Film di Cannes 2017

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2017
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Manifesto Cannes 2017Ecco i titoli di quest'edizione:

Fillm d’apertura
Ismael’s Ghost diretto da Arnaud Desplechin


Concorso
The Day After diretto da Hong Sangsoo
Loveless diretto da Andrey Zvyagintsev
Good Time diretto da Benny Safdie and Josh Safdie
You Were Never Really Here diretto da Lynne Ramsay
Jupiter’s Moon diretto da Kornél Mandruczo
L’amant Double diretto da François Ozon
The Killing of a Sacred Deer diretto da Yorgos Lanthimos
A Gentle Creature diretto da Sergei Loznitsa


Radiance diretto da Naomi Kawase
Wonderstruck diretto da Todd Haynes
Happy End diretto da Michael Haneke
In the Fade diretto da Fatih Akin
Rodin diretto da Jacques Doillon
The Beguiled diretto da Sofia Coppola
Le Redoutable diretto da Michel Hazanavicius
Okja diretto da Bong Joon-ho
120 Battements Par Minute diretto da Robin Campillo
The Meyerowitz Stories diretto da Noah Baumbach


Un Certain Regard
April’s Daughter diretto da Michel Franco
Fortunata diretto da Sergio Castellitto
Jeune Femme diretto da Léonor Serraille
Western diretto da Valeska Grisebach
Wind River diretto da Taylor Sheridan
Directions diretto da Stephan Komandarev
After the War diretto da Annarita Zambrano
Dregs diretto da Mohammad Rasoulof
Out diretto da György Kristóf
The Nature of Time diretto da Karim Moussaoui
Before We Vanish diretto da Kurosawa Kiyoshi
L’atelier diretto da Laurent Cantet
Beauty and the Dogs diretto da Kaouther Ben Hania
Barbara diretto da Mathieu Amalric
Closeness diretto da Kantemir Balagov
The Desert Bride diretto da Cecilia Atan and Valeria Pivato


Fuori Concorso
Blade of the Immortal diretto da Takashi Miike
How to Talk to Girls at Parties diretto da John Cameron Mitchell
Visages, Villages diretto da Agnès Varda


Special Screenings
12 Jours diretto da Raymond Depardon
They diretto da Anahita Ghazvinizadeh
An Inconvenient Sequel diretto da Ronni Cohen and Jon Shenk
Promised Land diretto da Eugene Jarecki
Napalm diretto da Claude Lanzmann
Demons in Paradise diretto da Jude Ratman
Sea Sorrow diretto da Vanessa Redgrave
Clair’s Camera diretto da Hong Sang-soo


Midnight Screenings
The Villainess diretto da Jung Byung Gil
The Merciless diretto da Byun Sung-Hyun
Prayer Before Dawn diretto da Jean Stephane Sauvaire

Virtual Reality (Film / Installazione / Mostra)
Carne y Arena diretto da Alejandro González Iñárritu


Eventi per il settantesimo anniversario
Top of the Lake: China Girl diretto da Jane Campion and Ariel Kleiman
24 Frames diretto da Abbas Kiarostami
Twin Peaks diretto da David Lynch
Come Swim diretto da Kristen Stewart


Ismaels gostLa settantesima edizione del Festival si è aperta con un film fuori concorso, il francese Les fantȏmes d’Ismaël (I fantasmi d’Ismaele) di Arnaud Desplechin. Inizio non proprio memorabile visto che si tratta di un’opera che assomma tutti i peggiori difetti del cinema d’oltralpe: storia confusa al limite dell’inesistente, verbosità diffusa, dialoghi debordanti su immagini povere, recitazione compiaciuta sino all’insopportabile. Proprio volendo dare un senso a questo groviglio di materiali inconcludenti diremo che si tratta dei fantasmi o i sogni di una cineasta, interpretato da un sovrabbondante Mathieu Amalric, che entra in crisi quando gli si ripresenta la donna a cui era sposato scomparsa molti anni prima senza motivi tangibili e di cui lui stesso ha certificato la morte legale alcuni anni prima. In realtà la donna si era allontanata – non si capisce bene per quale motivo – era andata in India e si era risposata. Ora è rimasta vedova e ritorna per riprendere la relazione con il marito abbandonato e a cui non riesce a rinunciare. Tutto chiaro? Neppure per idea e tra storie parallele che mettono in scena diplomatici - spia attivi nel lontano oriente, capi del terrorismo internazionale, neo funzionari del ministero degli esteri francese - il tutto (forse) come ingredienti del film che sta per essere realizzato - la comprensione dello spettatore fatica a cogliere i bandoli della matassa. In poche parole, uno di quei film super intellettuali che piacciono solo ad un pubblico abituato a un cinema d’élite, ma ben poco propenso ad affrontare temi e problemi reali.


LonelessLa competizione del Festival si è aperta con Nelyubov (Mancanza d’amore) del russo Andrey Zvyagintsev, già noto per Il ritorno (Vozvrashchenie, 2003), coronato con il Leone d’oro alla mostra di Venezia dello stesso anno e, soprattutto, con Leviathan (2014) i cui sceneggiatori, lo stesso regista e Oleg Negin, sono stati premiati come i migliori dal Festival di Cannes del 2014. Anche quest’ultimo film ha caratteristiche tutt’altro che trascurabili e si è subito inserito fra i maggiori pretendenti alla Palma d’oro. Il film ruota attorno a tre momenti di dolore. Il primo è rappresentato dal dodicenne Aliocha i sui genitori, Boris e Genia, stanno per divorziare. Il ragazzo ascolta di nascosto le loro liti furiose dopo di che scompare. Non sapremo se per scelta volontaria o perché vittima di un qualche crimine. Il secondo ha per protagonisti gli stessi adulti, ciascuno dei quali ha una propria vita del tutto indipendente dalle esigenze coniugali. Lui si è messo con una giovane che ora attende un figlio, lei ha una relazione rovente con un ricco borghese. Il terzo universo di dolore è rappresentato dall’ambiente in cui è immersa l’intera storia, un tempo segnato dalla guerra in Ucraina e dalla ferocia dei combattimenti le cui eco giungono affievolite e destinate a orecchie distratte. Buona parte del film è dedicata alle ricerche del piccolo scomparso, ricerche condotte da un gruppo di volontari militarizzati che suppliscono all’impotenza della polizia. L’intera vicenda ha per sfondo la periferia di San Pietroburgo, le case pacchianamente lussuose dei nuovi ricchi, le abitazioni dirute dalla gente comune, i ruderi dei grandi progetti edificati in un tempo di falsa magnificenza. È uno scenario complesso in cui è possibile scorgere, come già nei film precedenti, un quadro drammatico della nuova Russia con le sue contraddizioni economiche e sociali, i pregiudizi divenuti regole di vita, la fragilità morale della nuova borghesia. Un film complesso e ricco di suggestioni che traccia una condanna forte e impietosa di un ceto che ha sostituito i falsi ideali sovietici con quelli, non meno discutibili, dell’accumulo di denaro e oggetti destinati a individuare uno status symbol non meno fasullo. In questo diventa importante e simbolica una delle sequenze finali che ci mostra la ex-moglie, ormai accasata con il nuovo compagno, che corre all’aperto e sotto la neve, su un tapis roulant con indosso una tuta fiammate su cui è scritto Russia.
wonderstruck 1Il secondo film in concorso visto ieri porta la firma dell’americano Todd Haynes che lo ha tratto da un romanzo di Brian Selznick. Wonderstruck ruota attorno a due storie che si ricongiungono nel finale. La prima, nel tempo ma non nel film, si svolge nel 1927 e ha per protagonista una bambina sorda che fugge di casa per andare a New York a ritrovare una misteriosa attrice che pensa essere sua madre. La seconda capita cinquant’anni dopo nel 1977 e ha come protagonista Ben, un ragazzino anch’esso sordo, che approda nella grande mela alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. L’intreccio si scioglie con le parole della nonna della piccola che, davanti a un grande plastico della metropoli, svela al ragazzo come la sua ricerca sia finita e come anche lui abbia, ora, una storia familiare a cui fare riferimento. Il film ha un andamento a tratti lento e faticoso e presenta un grande pregio nella ricostruzione in due epoche lontane mezzo secolo, ma estranee anche i nostri giorni, della grande città Usa. Come dire una ricerca di radici non banale, ma neppure troppo intrigante. 

okja-1Il concorso del Festival ha presentato un film americano – sudcoreano, Okja, diretto da Bong Joon Ho, un cineasta quarantottenne qui alla settima fatica con alle spalle una filmografia non banale in cui emerge Madeo (Madre 2009). Un regista stato scelto della factory Netfix, un’azienda molto attiva nel campo della produzione video e accolta al Festival ove ha suscitato molte polemiche, al punto che il selezionatore – capo, Thierry Frémaux, si è sentito in dovere, soprattutto dopo una netta presa di posizione del Presidente dalla giuria lo spagnolo Pedro Almodovar, di dichiarare che, dal prossimo anno saranno scelte solo opere che siano già state presentate in una sala pubblica. Un discorso che assomiglia al classico proverbio che vuole la stalla chiusa dopo che i buoi sono fuggiti. Ritornando al film diciamo subito che si stenta a capire la ragione per cui è stato inserito nella competizione internazionale, trattandosi di un mega-spettacolo pieno di effetti speciali e suoni roboanti, appena appena ammantato da una qualche spruzzata ecologista o animalista. La piccola Mija ha vissuto serenamente per ben dieci anni sulle montagne sudcoreane assieme a un enorme maiale che la ama e che lei contraccambia teneramente. L’animale è il prodotto di una selezione genetica organizzata da un’azienda capeggiata da una donna cattivissima che ha preso il posto della sorella, non meno feroce (entrambe le figure sono interpretate dall’inglese Tilda Swinton). L’obiettivo formale è quello di alleviare la fame nel mondo, ma un altro scopo, ben più pratico, è far crescere i profitti della ditta. In quest’ottica il mega porcello dovrà essere esibito al pubblico a New York per poi essere avviato in un mattatoio assai simile ai campi di sterminio nazisti descritti in decine di altri film. Ovvio che la piccola faccia ogni sforzo per evitare questa malasorte e, aiutata da una banda di animalisti propensi ai metodi spicci e quasi gangsteristici, riesca a salvate il bestione e, per buona misura, anche un piccolo che stava per essere avviato alla macellazione. Finale idilliaco con fanciulla, animale e un vecchio contadino che si ritrovano in piena serenità sui monti sudcoreani. È un classico film per bambini o spettatori molto ingenui, che si nutre di meraviglie tecnologiche senza rinunciare a corse in automobile e lotte fra cascatori secondo le migliori e meno interessanti tradizioni del cinema americano.

the-square-de-ruben-ostlundM453190Christian è un bravo borghese svedese, divorziato e attento al benessere delle de figlie, dirige il museo di arte contemporanea e sta progettando una nuova esposizione, The Square (La piazza) ispirata all’pera di un’artista d’avanguardia, che dovrebbe individuare in un quadrato tracciato davanti al Palazzo Reale di Stoccolma (nel film è la sede del museo) in uno spazio in cui umanità e libertà si saldano dando vita ad un clima nuovo. Tuttavia basta un piccolo intoppo, il furto del portafoglio e del telefonino, per mandare in crisi i buoni sentimenti del manager. Istigato da un impiegato scrive una lettera in cui accusa genericamente i destinatari di avergli rubato i due oggetti e la distribuisce nelle cassette degli abitanti di un preciso condominio visto che, grazie a un marchingegno presente nel cellulare, è riuscito a individuare l’area in cui si trova l’oggetto. Portafoglio (con ancora dentro i soldi) e telefono gli sono restituiti, ma la lettera ha causato indignazione da parte dei tanti innocenti a cui è stata recapitata. Fra questi un ragazzino che il padre punisce accusandolo di essere un ladro e che ora pretende scuse e riabilitazione da parte dell’accusatore. Il tutto s’intreccia con un video estremamente provocatorio realizzato da una copia di cineasti rampanti quanto cinici come promozione della mostra. In breve l’intera vita del manager è sconvolta e messa in discussione. È un film crudelmente satirico, come dimostra la lunga sequenza dell’attore travestito da scimmia che scompagina un pranzo di gala con una performance davvero degna delle peggiori provocazioni dell’arte moderna. Certamente un’opera troppo lunga, più di due ore e venti minuti di proiezione, ma è anche un testo che riesce a mettere in discussione molte false certezza che allineano nella cultura nordica. Da notare che questo regista aveva vinto con Turist (Forza maggiore, 2014) il Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard.

120 battiti al minutoRobin Campillo ha lavorato a lungo con Laurent Cantet (ricordiamo almeno Risorse umane, 1998, A tempo pieno, 2001 e La classe - Entre les murs, 2008) e ha dedicato il suo terzo film, 120 Battement par Minute (120 battiti al minuto), a una vera e propria tragedia: la sottovalutazione della piaga dell’AIDS all’inizio degli anni 90 – presidente della repubblica François Mitterrand (1916 – 1996) – quando le autorità mantenevano ancora segreti i dati dell’epidemia e la consideravano un problema dei soli omosessuali. Il film segue le iniziative di Act Up – Parigi, un movimento di denuncia di omosessuali di ogni tendenza, per scuotere l’indifferenza dell’opinione pubblica e rendere note le vere cifre del male. Il regista segue i lunghi incontri fra i militanti segnalando le diverse posizioni (radicali interventisti, trattativisti) il moltiplicarsi delle morti, le tragedie anche sentimentali che si sviluppano fra di loro. Sembra quasi di assistere alla proiezione di un documentario storico, con momenti francamente e volutamente disturbanti come la vestizione del cadavere del militante radicale morto con accanto il compagno che non ha voluto lasciarlo neppure per un momento. È un film di parte con i pregi di generosità e coraggio tipici di questo tipo di opera, ma anche con i difetti di un grido disperato che poco si preoccupa della forma filmica.   


Il formidabileDopo il successo planetario di The Artist (2011), che ha fatto incetta di premi in numerosi festival fra cui gli Oscar (cinque statuette) e il Festival di Cannes dove ha ottenuto il premio per la miglior interpretazione maschile andato a Jean Dujardin, il francese Michel Hazanavicius (1967) è ritornato a un personaggio del mondo del cinema con Le Redoutable (Il formidabile, nome di del primo sommergibile nucleare della marina francese). Il film coglie gli anni della vita di Jean Luc Godard che vanno dal 1965 al 1970, stagione in cui gira Le vent d'est (Vento dell’est). Quest’ultimo titolo è appena appena citato in quanto segna sia il parossismo nell’ideologia del regista, sia la rottura quasi definitiva con la moglie. In quegli anni il cineasta è sposato con Anne Wiazemsky, dalla quale divorzierà nel 1979, e che dedicherà un libro all’esperienza del matrimonio, volume che ha ispirato il cineasta odierno. Il film traccia il ritratto di un artista inquieto, scontroso e insicuro che, giunto al vertice della fama critica, getta tutto alle ortiche per inseguire un ideale teorico e impossibile di rivoluzione totale. Il rapporto fra l’uomo e la donna, che ha diciassette anni meno di lui, è costellato di momenti d’insofferenza, gelosie, sconti politici, riappacificazioni erotiche. È un amalgama di sogni e piccole miserie che contribuiscono non poco ad umanizzare la figura del maestro e della sua compagna. Michel Hazanavicius rende omaggio a un clima intellettuale, quello della nouvelle vogue e, meglio ancora, alla figura di un cineasta ormai entrato nella storia e che ha marcato con la sua opera un’intera generazione. A questo proposito assumono un significato particolare le sequenze dedicate a Marco Ferreri (1928 – 1997), colto alle prese con la realizzazione de Il seme dell’uomo (1969), e quelle in cui compare Bernardo Bertolucci, all’epoca uno dei registi più promettenti del cinema italiano (anche sul versante politico) e protagonista di una clamorosa rottura ideologica con il francese. È un film che suscita ricordi e sentimenti in chi quell’epoca ha vissuto in prima persona e offre a chi non c’era regala la possibilità di riflettere su un momento cruciale sulla storia politica e culturale dell’Europa.
The Meyerowitz Stories 1The Meyerowitz Stories (New and Selected) dell’americano Noah Baumbach è un racconto a capitoli dei conflitti che allontanano tre fratelli fra di loro e dal padre. Harold Meyerowitz è stato uno scultore astratto con qualche momento di fortuna, ora che è vecchio e in pericolo di vita. I suoi tre figli, due maschi e una femmina, che lo hanno trascurato si riavvicinano a lui e scoprono che non era un padre così terribile come hanno sempre pensato. È un film d’attori (in primo pano Emma Thompson, Dustin Hoffman, Adam Sandler e Ben Stiller) che passano con leggerezza e abilità dalle situazioni ironiche a quelle conflittuali. Un esempio di cinema professionalmente sublime, ma ben poco innovativo nell’esposizione e nel discorso. Si esce dalla proiezione rinfrancati dalla bravura di autore e interpreti, ma con ben pochi motivi su cui riflettere.


L’austriaco MicHappy Endhael Haneke era uno dei cineasti più attesi al Festival e non ha deluso. Il suo Happy End (Lieto fine) traccia il quadro di una famiglia borghese europea ricca e potente, ma dilaniata all’interno da contraddizioni laceranti. Il più anziano (uno straordinario Jean-Louis Trintignant) è malato, costretto su una carrozzella e non trova nessuno disposto a facilitare la sua morte fornendogli un’arma o del veleno. Quando riuscirà a gettarsi in mare con l’aiuto di una nipotina che ha il vizio di filmare con il telefonino tutto ciò che la circonda, compresa la toeletta di sua madre prima del suicidio, saranno i parenti a salvarlo. La figlia è una manager in carriera insensibile a tutto tranne che alle regole del profitto, di queste fa parte anche il fidanzamento con un faccendiere inglese di aspetto tutt’altro che apollineo. Un nipote, l’unico che si ribelli all’andazzo familiare, è presto messo da parte con la giustificazione che è matto. Un altro rampollo intrattiene messaggi sporcaccioni con un’amante misteriosa. Il dramma inizia con il crollo di una muraglia di sostegno nella cui costruzione è impegnata l’azienda di famiglia, disgrazia che costa la vita a un paio d’operai le cui famiglie sono subito tacitate con una congrua mazzetta. È un panorama sconfortante e tragico che gronda insensibilità e orrore morale. Il regista, di cui ricordiamo alcuni splendidi antecedenti che vanno dal lontano Der Siebente Kontinent (Il settimo continente, 1988) a Funny Games (Giochi divertenti, 1997) sino allo straordinario Das Weisse Band (Il nastro bianco, 2009), mette da parte ogni violenza suggerita in modo esplicito, anche se mai mostrata, lo fa in favore di un clima di corruzione complessiva in cui non è neppure più possibile suicidarsi. È un film di grande spessore, girato in maniera magistrale e ricco di significati di secondo livello al cui centro c’è un giudizio impietoso sulla borghesia. Se ci riferiamo alle possibili Palme d’Oro, ecco un film che la meriterebbe in pieno.Liccisione del cervo sacro 1
Tanto è suggerita e ficcante la violenza e il giudizio espressi da questo film altrettanto imbarazzante è il clima quasi da film del mistero in cui è immerso The Killing of a Sacred Deer (L’uccisione del cervo sacro), del greco ma, in questo caso, attivo negli Stati Uniti Yorgos Lanthimos. Il regista aveva già ampiamente diviso la critica all’epoca di Kynodontas (Canino, 2009) e in questo caso riconferma il suo interesse per le atmosfere claustrofobiche e sanguinolente. Steven è un cardiochirurgo di fama che un giorno si è visto morire sotto i ferri un paziente. In realtà lui si era presentato al lavoro dopo aver bevuto un paio di bicchieri di troppo ed ora il figlio del defunto vuole vendicarsi sterminandogli la famiglia. Ci riuscirà costringendolo ad uccidere con le sue stesse mani il pargolo più giovane che era stato, forse anche per un suo intervento, colpito assieme alla sorella da una malattia misteriosa che lo impedivano dell’uso delle gambe. Solo dopo questo sacrificio la pace ritorna nella famiglia e nei rapporti fra il medico e il ragazzo, ma è una pace che gronda sangue. Metafora delle responsabilità di cui si è macchiata la ricca borghesia professionale?  Accusa al costoso sistema sanitario americano di non essere in grado di curare o anche solo diagnosticare le malattie meno comuni? Francamente non ce la sentiamo di esprimerci tanto il film appare ridondante, oscuro e di difficile lettura.  


RadianceGiornata di tutto riposo al festival, almeno per ciò che riguarda il concorso. Il titolo di maggior interesse è stato Hikari (Verso la luce) della giapponese Naomi Kawase di cui lo scorso anno avevamo visto e parzialmente apprezzato An (Le ricette della signora Toku) distribuito anche in Italia. Sempre di questa cineasta era Mogari No Mori (letteralmente: La foresta del lutto, 2007) a cui era andato il Prix Special della Giuria della sessantesima edizione di questo stesso festival. Il tema dei rapporti sentimentali, intrecciati a quelli della morte, ritorna anche in quest’ultima opera che ruota attorno alle figure di Misako, che di mestiere fa l’audio descrittrice di film per persone non vedenti, e Masaya, un famoso fotografo che sta perdendo la vista. Il film racconta, dunque, una storia d’amore fra una giovane in cerca della luce e un uomo più maturo che la sta perdendo. È una bella vicenda sentimentale anche se la regista - che è anche sceneggiatrice, montatrice, direttrice della fotografia e produttrice – indugia non poco sulle immagini cartolinesche e sulle esplosioni dei sentimenti. In altre parole un film tradizionale, realizzato con abilità e intelligenza.
070614.jpg-c 215 290 x-f jpg-q x-xxyxxIl festival ha reso omaggio al veterano André Téchiné (1943) di cui è stata presentata l’ultima fatica: Nos Années Folles (I nostri anni folli) costruito sulla vera storia di Paul, un disertore della prima guerra mondiale, che si veste da donna, diventa Suzanne e diventa una sorta di attrazione della vita viziosa del Boi De Boulogne, prima, e del teatro en travesti, poi. La moglie, che lo ha sempre amato e protetto, finirà per ucciderlo quando lui si abbandonerà all’alcol e cederà alla violenza coniugale. Un film di papà, come si sarebbe detto un tempo, sorretto da un’accurata ricostruzione del clima della belle époque, interpretato e girato con robusta professionalità (Céline Sallette, Pierre Deladonchamps, Grégoire Leprince-Ringuet), ma dal gusto vecchiotto.


RodinLo scultore Auguste Rodin (1840 – 1917) è stato uno degli artisti più noti e significativi del mondo culturale francese di fine ottocento. Il suo modo di rapportarsi ai modelli reali trasformandoli sino a coglierne le caratteristiche profonde, non la verosimiglianza, ha fatto scuola sposandosi al lavoro pittorico degli impressionisti a cui era vicino. Uno dei momenti fondamentali della sua storia si identifica nei rapporti con le donne. Prima con la giovane cucitrice, Rose Beuret (1844 – 1917), con la quale sarebbe rimasto – pur con non pochi momenti di scontro - per il resto della vita e che gli diede un figlio, Auguste-Eugène Beuret (1866–1934). Poi, dal 1883, con l’allora diciottenne Camille Claudel (1864 – 1943) conosciuta ad un corso che tenne per conto del collega Alfred Boucher (1850 – 1934). Lei era la sorella maggiore dello scrittore, drammaturgo e diplomatico Paul (1868 – 1955) e i due intrecciarono una relazione decisamente tempestosa, che coinvolse anche le rispettive vite artistiche. La donna posò come modella per molte opere dello scultore ed era a sua volta un’artista di talento che mise mano in molti lavori dell’amante. Jacques Doillon ha focalizzato in Rodin questa relazione fra i due artisti e ne ha tratto un film, forse sarebbe meglio definirlo un telefilm considerati i numerosi apporti televisivi alla produzione, che contiene tutti gli ingredienti del melodramma ad uso del piccolo schermo: dall’abbondanza di primi e primissimi piani a una lettura romantica, stile genio e sregolatezza, della storia fra i due. La cosa singolare (problemi di diritti?) è che nel film non compare quasi nessuna immagine delle opere in bronzo dello scultore, fatta eccezione per la sua statua dedicata a Honoré de Balzac (1799 – 1850) forse una delle opere più problematiche e intense dell’artista che arrivò a restituire l’anticipo ricevuto dopo che il comitato incaricato di valutare l’opera dalla Société des gens de lettres (Società dei letterati francesi) l’aveva respinta. Solo nel 1939 il bronzo viene sistemato lungo il boulevard Raspail. In altre parole possiamo parlare tranquillamente di occasione perduta e di film banale.
LingannoSofia Coppola ha tratto The Beguiled (L’inganno) dal romanzo A Painted Devil scritto da Thomas P. Cullinan nel 1966 e da cui Don Siegel (1912 – 1991) trasse, 1971, La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled). Siamo in presenza, quindi, di un rifacimento che aggiunge ben poco all’originale sottraendogli invece la fascinosa interpretazione di Clint Eastwood, qui sostituito dallo scialbo Colin Farrell. Un altro lieve punto di differenza è l’ottica, tutta al femminile, con cui la regista conduce questa storia, ambientata in piena guerra di secessione americana, di un gruppo di donne – dalle adulte alle bimbe – rimaste a presidiare una scuola per ragazze, attiva nel profondo sud degli Stati Confederali. Un giorno trovano, gravemente ferito, un caporale nell’esercito nordista rimasto separato dal suo regimento. Lo curano con il proposito di consegnarlo appena possibile ai confederati. I giorni passano e la presenza dell’unico maschio sollecita le voglie delle donne che finiscono col contenderselo e farlo cadere rovinosamente da una scala. La ferita si è riaperta e, a questo punto, non resta che amputargli una gamba. Quando il militare si rende conto di ciò che gli è stato fatto va su tutte le furie, s’impossessa di una pistola e, di fatto, segrega le donne. A questo punto signore mature e ragazzine decidono di avvelenarlo e sbarazzarsi di lui. La regista aggiunge al film di un tempo una confezione accurata e ricca di suggestioni pittoriche, ma non innova quasi in nulla il vecchio testo che rimane ancora ben saldo nella memoria degli spettatori.


un creatura gentileNel realizzare Krotkaya (Una donna dolce) il cineasta ucraino Sergei Loznitsa si è ispirato, molto alla lontana, al racconto La mite scritto nel 1876 da Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881), un testo a cui si era già rivolto, nel 1969, Robert Bresson (1901 – 1999) con Une femme douce (Così bella, così dolce), film che ha segnato l’esordio di Dominique Sanda. Sia rispetto alla pagina scritta sia al film precedente, l’unico legame è nella figura della protagonista: una donna del popolo la cui cocciutaggine si scontra con le abitudini di una burocrazia feroce e insensibile. Lei – l’interprete è la brava Vasilina Makovtseva -  è ancor giovane e vive sola nella Russia profonda. Un giorno riceve indietro senza alcuna spiegazione un pacco di viveri e oggetti comuni che ha spedito al marito detenuto in un lontano carcere con l’accusa, non meglio precisata, di omicidio. Testardamente vuole sapere le ragioni per cui il pacco è stato respinto, si mette in viaggio e raggiunge la cittadina la cui vita ruota attorno al carcere. Qui, e lungo il percorso subisce oltraggi di ogni tipo, dalle aggressioni sessuali a quelle fisiche, ai furti. È un vero e proprio calvario che si conclude - è la parte meno riuscita – con una lunga sequenza in cui immagina le sia finalmente riconosciuta giustizia, anche se è una speranza vana seguita ad offese ancora maggiori. Tuttavia questo è solo un sogno e il film si chiude ripetendo la sequenza che ha avviato la parte onirica, senza arrivare ad alcuna conclusione. La prima ora di proiezione (il film dura complessivamente poco meno di due ore e mezzo) è quella meglio riuscita, qui il regista dispiega al massimo livello le sue qualità di documentarista, quelle stesse che abbiamo apprezzato pochi mesi orsono quando è stato presentato sui nostri schermi Austerlitz (2016). In queste sequenze, molte delle quali quasi senza parole, ci sono le immagini del paesaggio russo che parlano da sole con la loro terribile desolazione, offrendo il quadro di un mondo da cui è stata espulsa ogni speranza. La parte finale, con il sogno e l’utilizzo di un fantastico ben poco funzionale, l’opera perde forza e riecheggia un cinema vecchio, privo quasi del tutto di fascino.
Buon tempoGood Time (Buon tempo) degli attori e cineasti Josh e Benny Safdie racconta, con luci cupe, la lunga note di un piccolo delinquente newyorkese che tenta di liberare il fratello handicappato con cui ha consumato una rapina in banca dai toni comico – grotteschi. Lui è riuscito a scappare, ma il fratello è stato arrestato, visto che ha tentato di passare attraverso una porta a vetri senza accorgersi che era chiusa! Ora lui deve mettere assieme i soldi necessari per pagare la cauzione al congiunto oppure farlo evadere. È talmente imbranato che fa scappare dall’ospedale un altro prigioniero, credendo che sia il fratello, ma quando scopre che si tratta di uno spacciatore che ha appena nascosto nei capannoni di un parco divertimenti una consistente partita di droga, cambia idea e spera di ricavare dal bottino una somma sufficiente a fuggire lontano con il fratello. Il film radiografa una notte di delinquenza comune allo stesso modo come è stato fatto da decine di altre opere di ben maggiore spessore. Ciò che rimane è un testo scontato, prevedibile, realizzato in maniera approssimativa.


l-amant-doubleFrançois Ozon è fra gli autori più prolifici del cinema francese. Dall’esordio, nel 1998, ha firmato ben diciotto film spesso a distanza di un solo anno l’uno dall’altro. Frantz, ad esempio è stato presentato nel 2016 alla Mostra di Venezia, dove ha ottenuto il premio Marcello Mastroianni per un’attrice emergente andato alla tedesca Paula Beer, ed è ora seguito da L’amant double (L’amante doppia). È una sorta di thriller psicologico con al centro la figura di una giovane donna, Chloé, incerta nell'amore fra due fratelli gemelli entrambi psicoterapeuti. Il finale, moderatamente a sorpresa, segnala come il tema del doppio non sia negli uomini, ma nella donna stessa le cui turbe nascono dalla convinzione di essere la responsabile della morte di una sua gemella la cui esistenza ci è rivelata a poche sequenze dalla fine. Per arrivare a questo approdo passano quasi due ore costellate di nudi, scene di sesso, immagini scostanti fra cui un paio di organi genitali femminili ripresi con inquadrature ginecologiche. Va bene che uno dei quadri di maggior rottura della pittura francese, L'origine du monde (L’origine del mondo, 1866) di Gustave Courbet (1819 –1877) contiene proprio un sesso femminile, ma non sembra che il regista abbia voluto rifarsi ad un precedente tanto illustre, quanto scioccare il pubblico senza troppa fatica. In altre parole il cineasta si conferma abile costruttore di storie apparentemente anticonformiste, in realtà perfettamente inserite nel catalogo dei materiali più ovvi.
The-Fade-2017-600x240Aus dem Nicht (letteralmente Dal nulla, ma il titolo internazionale sarà Nella dissolvenza) del regista tedesco d’origine turca Fatih Akin è un melodramma solido che ruota attorno alla figura di una donna che perde, in un attentato di matrice nazista, il figlio e il marito, un turco rimessosi sulla retta via dopo aver scontato una condanna per traffico di stupefacenti. Nonostante la sua testimonianza e quella di poliziotti e periti la coppia accusata del delitto è assolta per insufficienza di prove. I due accusati si rifugiano in Grecia, sotto le ali protettive dei neonazisti di Alba Dorata. Qui la vedova li scova accampati nei pressi di una spiaggia. Vorrebbe farli saltare in aria con una bomba come quella che loro hanno usato ad Amburgo, ma poi sceglie di morire assieme ai due assassini facendosi esplodere nella loro roulotte. Gran parte della storia è occupata dalla cronaca del processo a dimostrare l’impotenza della giustizia a perseguire i colpevoli anche quando ci sono prove e testimonianze. Se ne ricava una strana morale, confermata dalla didascalia finale in cui si citano i molti non tedeschi ammazzati dai neonazisti negli ultimi anni, è cioè che è impossibile avere giustizia percorrendo le vie legali. Meglio il ricorso alla vendetta privata. Può darsi che questa sia la lezione che il regista trae da un sistema troppo garantista, ma è un’impressione assai discutibile da un punto di vista politico e morale. Ciò che resta è un film teso e costruito con abilità, interpretato assai bene da Diane Kruger che alterna dolore e disperazione in maniera convincente.


La Lune de JupiterJupiter’s Moon (La luna di Giove) poeta la firma di uno dei più prestigiosi registi ungheresi: Kornél Mundruczo. Seguendo lo stile cui questo cineasta ci ha abituati, da Johanna (2005) a A Frankenstein – Terv (Il progetto Frankenstein, 2010), alterna fantasia sfrenata a realismo. Sono realistiche le immagini quasi documentaristiche che raccontano la condizione dei profughi che premono ai confini magiari e di quelli, ancor più sfortunati, che sono riusciti a arrivare in territorio ungherese. La polizia spara per uccidere senza alcuna remora e coloro che sono arrestati finiscono in campi di concentramento degni del peggior regime nazista. Il giovane siriano Aryan subisce tutto questo, ma sfugge alla morte perché è capace di sollevarsi da terra e fluttuare in cielo, una caratteristica che non lo sottrae alla caccia di un poliziotto particolarmente spietato. Solo la compassione e l’aiuto di un medico, Stern, in crisi perché oppresso dal ricordo di un’operazione compiuta da ubriaco che è costata la vita a un paziente, gli consente di sfuggire agli uomini armati. Alla fine il dottore sacrificherà la sua vita per salvare quella del fuggitivo, mentre il poliziotto davanti all’ennesimo volo del giovane non se la sentirà di colpirlo ancora. È un film che pesca a piene mani nel simbolismo e nel fiabesco, ma lo fa per tracciare un quadro impietoso della ferocia con cui le società europee, prima fra tutte quella magiara, angariano e aggrediscono i profughi in fuga da guerre e miserie. Un film di comprensione non immediata, ricco di citazioni e riferimenti alla realtà e che ha il pregio di immergere le mani in uno dei drammi più sanguinosi del nostro tempo.
The day afterGeu-Hu (Il giorno dopo) del sudcoreano Hong Sangsoo, un cineasta decisamente prolifico (diciotto titoli dal 1996 ad oggi) e dallo stile impeccabile. Qui rispolvera il vecchio banco e nero per raccontare un triangolo ricco di sfumature comiche. Areum sta per portare a termine il primo giorno di lavoro presso un piccolo editore quando è aggredita dalla moglie del padrone che l’accusa di essere l’amante del marito. In realtà la donna con cui dovrebbe prendersela è quella che l’ha preceduta nel lavoro e nel letto del capo e non la nuova arrivata. Il maschio confessa il tradimento ma sostiene che oramai tutto è finito, ma quando la vera amante ritorna in scena non ci mette molto a scaricare davanti alla moglie sul Areum la responsabilità della tresca. È passato del tempo e la ragazza ritorna in ditta per congratularsi con l’ex-principale per un premio che gli è stato appena assegnato, ma scopre che lui non si ricorda di lei né dell’utilizzo che ne ha fatto davanti alla consorte. Il film è pieno di dialoghi, alla maniera delle opere migliori di Éric Rohmer (1920 – 2010), con una finezza di descrizione dei personaggi che lascia incantati. Un testo di una lievità incredibile che meriterebbe di essere subito distribuito sui nostri schermi.


Non sei mai stato veramente qui 1

Il ventaglio delle candidature alla Palm d’Or 2017, 70ma nella storia del festival, si è chiuso con la presentazione di You Were Never Really Here (Non sei mai stato veramente qui) dell’inglese Lynne Ramsay al suo terzo lungometraggio. Il film è tratto da un racconto dello scrittore e attore  Jonathan Ames alla cui penna si debbono anche le miniserie televisive Bored to Death (Annoiato a morte, 2009/2011) e Blunt Talk (Parlare sottovoce, 2015) oltre alla sceneggiatura del film Un perfetto gentiluomo (The Extra Man, 2010) diretto da  Shari Springer Berman e Robert Pulcini. Il testo di cui stiamo parlando è stato edito in Italia nel 2014 da Baldini & Castoldi. Vi si raccontano un pomeriggio e una notte in cui un veterano di guerra e dell’FBI, diventato assassino a pagamento, cerca di salvare una ragazzina, figlia del candidato al governatorato di New York, da un giro di prostituzione minorile gestito nell’interesse del rivale del politico. Bastano questi riferimenti per far capire come siamo in presenza di una coproduzione anglo - franco – americana che gronda sangue e violenza anche se la regista fa il possibile per limitare le immagini grandguignolesche. Il problema è che il film fa riferimento a un lungo catalogo di opere dello stesso tipo e, spesso, di maggiore interesse. Non è, dunque, l’originalità la dote migliore di un testo che, anzi, affonda nell’ovvio, nel prevedibile e nel già visto. Unica nota positiva la prestazione di un martoriato Joaquin Phoenix che resta sullo schermo dalla prima all’ultima immagine. In definitiva una chiusura, per quanto riguarda la competizione, davvero in calando che non ha risollevato le sorti di una rassegna davvero modesta.
0486b101d823c4b3554c2a6348bc17d4A chiusura del festival è stato presentato fuori competizione D’après une Histoire Vraie (Da una storia vera) in cui Roman Polanski riannoda alcuni dei fili già segnalati nella sua produzione: l’incubo (Repulsione - Répulsion -1965), il mistero (Rosemary’s Baby, 1968), la sostituzione di persona (L'inquilino del terzo piano - Le locataire - 1976)) e la creazione artistica (L'uomo nell'ombra - The Ghost Writer, 2010). Un'autrice di successo incontra un’altra donna che riesce a intrufolarsi nella sua vita sino a condizionarla profondamente. Questa inquietante presenza sfuma sino al punto che, quando la scrittrice è ritrovata moribonda in un fosso di campagna, per lei c’è materia per un nuovo libro di successo desunto appunto, da una storia vera. Il regista lascia allo spettatore il dubbio se si sia trattato di una vicenda reale o di un sogno, in ogni caso la fantasia si è trasferita sulla pagina scritta e commuoverà migliaia di lettori. Il film ricorre a temi che quest’autore ha già affrontato, in molti casi con risultati meglio definiti, ma offre una maestria narrativa e una pulizia d’esposizione che appartengono veramente al grande cinema. Stupisce, ma sino ad un certo punto, trovare nella sceneggiatura il nome, oltre a quello del regista, di Olivier Assayas un altro cineasta i cui ultimi film svelavano una propensione al mistero che qui riceve l’imprimatur e la raffinatezza di una grande aurore.


 Premi ufficiali

The squareCaméra d’Or alla migliore opera prima: Jeune Femme di Léonor Serraille
Palme d’oro Cortometraggio: A Gentle Night (Qiu Yang)
Miglior sceneggiatura, ex aecquo: Yorgos Lanthimos (The Killing of a Sacred Deer) e Lynne Ramsay (You Were Never Really Here).
Premio della Giuria: Andrei Zvyagintsev (Loveless)
Migliore Attrice: Diane Kruger (In the fade)
Migliore Attore: Joaquin Phoenix (You Were Never Really Here)
Miglior regia: Sofia Coppola (The Beguiled)
Grand Prix Speciale della Giuria: Robin Campillo (120 beats per minute)
Premio del 70esimo Anniversario: Nicole Kidman
Palma d’oro: Ruben Östlund (The Square)