03 Maggio 2017
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Festival Internazionale del Film di Cannes 2017 |
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La competizione del Festival si è aperta con Nelyubov (Mancanza d’amore) del russo Andrey Zvyagintsev, già noto per Il ritorno (Vozvrashchenie, 2003), coronato con il Leone d’oro alla mostra di Venezia dello stesso anno e, soprattutto, con Leviathan (2014) i cui sceneggiatori, lo stesso regista e Oleg Negin, sono stati premiati come i migliori dal Festival di Cannes del 2014. Anche quest’ultimo film ha caratteristiche tutt’altro che trascurabili e si è subito inserito fra i maggiori pretendenti alla Palma d’oro. Il film ruota attorno a tre momenti di dolore. Il primo è rappresentato dal dodicenne Aliocha i sui genitori, Boris e Genia, stanno per divorziare. Il ragazzo ascolta di nascosto le loro liti furiose dopo di che scompare. Non sapremo se per scelta volontaria o perché vittima di un qualche crimine. Il secondo ha per protagonisti gli stessi adulti, ciascuno dei quali ha una propria vita del tutto indipendente dalle esigenze coniugali. Lui si è messo con una giovane che ora attende un figlio, lei ha una relazione rovente con un ricco borghese. Il terzo universo di dolore è rappresentato dall’ambiente in cui è immersa l’intera storia, un tempo segnato dalla guerra in Ucraina e dalla ferocia dei combattimenti le cui eco giungono affievolite e destinate a orecchie distratte. Buona parte del film è dedicata alle ricerche del piccolo scomparso, ricerche condotte da un gruppo di volontari militarizzati che suppliscono all’impotenza della polizia. L’intera vicenda ha per sfondo la periferia di San Pietroburgo, le case pacchianamente lussuose dei nuovi ricchi, le abitazioni dirute dalla gente comune, i ruderi dei grandi progetti edificati in un tempo di falsa magnificenza. È uno scenario complesso in cui è possibile scorgere, come già nei film precedenti, un quadro drammatico della nuova Russia con le sue contraddizioni economiche e sociali, i pregiudizi divenuti regole di vita, la fragilità morale della nuova borghesia. Un film complesso e ricco di suggestioni che traccia una condanna forte e impietosa di un ceto che ha sostituito i falsi ideali sovietici con quelli, non meno discutibili, dell’accumulo di denaro e oggetti destinati a individuare uno status symbol non meno fasullo. In questo diventa importante e simbolica una delle sequenze finali che ci mostra la ex-moglie, ormai accasata con il nuovo compagno, che corre all’aperto e sotto la neve, su un tapis roulant con indosso una tuta fiammate su cui è scritto Russia.
Il secondo film in concorso visto ieri porta la firma dell’americano Todd Haynes che lo ha tratto da un romanzo di Brian Selznick. Wonderstruck ruota attorno a due storie che si ricongiungono nel finale. La prima, nel tempo ma non nel film, si svolge nel 1927 e ha per protagonista una bambina sorda che fugge di casa per andare a New York a ritrovare una misteriosa attrice che pensa essere sua madre. La seconda capita cinquant’anni dopo nel 1977 e ha come protagonista Ben, un ragazzino anch’esso sordo, che approda nella grande mela alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. L’intreccio si scioglie con le parole della nonna della piccola che, davanti a un grande plastico della metropoli, svela al ragazzo come la sua ricerca sia finita e come anche lui abbia, ora, una storia familiare a cui fare riferimento. Il film ha un andamento a tratti lento e faticoso e presenta un grande pregio nella ricostruzione in due epoche lontane mezzo secolo, ma estranee anche i nostri giorni, della grande città Usa. Come dire una ricerca di radici non banale, ma neppure troppo intrigante.
Il concorso del Festival ha presentato un film americano – sudcoreano, Okja, diretto da Bong Joon Ho, un cineasta quarantottenne qui alla settima fatica con alle spalle una filmografia non banale in cui emerge Madeo (Madre 2009). Un regista stato scelto della factory Netfix, un’azienda molto attiva nel campo della produzione video e accolta al Festival ove ha suscitato molte polemiche, al punto che il selezionatore – capo, Thierry Frémaux, si è sentito in dovere, soprattutto dopo una netta presa di posizione del Presidente dalla giuria lo spagnolo Pedro Almodovar, di dichiarare che, dal prossimo anno saranno scelte solo opere che siano già state presentate in una sala pubblica. Un discorso che assomiglia al classico proverbio che vuole la stalla chiusa dopo che i buoi sono fuggiti. Ritornando al film diciamo subito che si stenta a capire la ragione per cui è stato inserito nella competizione internazionale, trattandosi di un mega-spettacolo pieno di effetti speciali e suoni roboanti, appena appena ammantato da una qualche spruzzata ecologista o animalista. La piccola Mija ha vissuto serenamente per ben dieci anni sulle montagne sudcoreane assieme a un enorme maiale che la ama e che lei contraccambia teneramente. L’animale è il prodotto di una selezione genetica organizzata da un’azienda capeggiata da una donna cattivissima che ha preso il posto della sorella, non meno feroce (entrambe le figure sono interpretate dall’inglese Tilda Swinton). L’obiettivo formale è quello di alleviare la fame nel mondo, ma un altro scopo, ben più pratico, è far crescere i profitti della ditta. In quest’ottica il mega porcello dovrà essere esibito al pubblico a New York per poi essere avviato in un mattatoio assai simile ai campi di sterminio nazisti descritti in decine di altri film. Ovvio che la piccola faccia ogni sforzo per evitare questa malasorte e, aiutata da una banda di animalisti propensi ai metodi spicci e quasi gangsteristici, riesca a salvate il bestione e, per buona misura, anche un piccolo che stava per essere avviato alla macellazione. Finale idilliaco con fanciulla, animale e un vecchio contadino che si ritrovano in piena serenità sui monti sudcoreani. È un classico film per bambini o spettatori molto ingenui, che si nutre di meraviglie tecnologiche senza rinunciare a corse in automobile e lotte fra cascatori secondo le migliori e meno interessanti tradizioni del cinema americano.
Christian è un bravo borghese svedese, divorziato e attento al benessere delle de figlie, dirige il museo di arte contemporanea e sta progettando una nuova esposizione, The Square (La piazza) ispirata all’pera di un’artista d’avanguardia, che dovrebbe individuare in un quadrato tracciato davanti al Palazzo Reale di Stoccolma (nel film è la sede del museo) in uno spazio in cui umanità e libertà si saldano dando vita ad un clima nuovo. Tuttavia basta un piccolo intoppo, il furto del portafoglio e del telefonino, per mandare in crisi i buoni sentimenti del manager. Istigato da un impiegato scrive una lettera in cui accusa genericamente i destinatari di avergli rubato i due oggetti e la distribuisce nelle cassette degli abitanti di un preciso condominio visto che, grazie a un marchingegno presente nel cellulare, è riuscito a individuare l’area in cui si trova l’oggetto. Portafoglio (con ancora dentro i soldi) e telefono gli sono restituiti, ma la lettera ha causato indignazione da parte dei tanti innocenti a cui è stata recapitata. Fra questi un ragazzino che il padre punisce accusandolo di essere un ladro e che ora pretende scuse e riabilitazione da parte dell’accusatore. Il tutto s’intreccia con un video estremamente provocatorio realizzato da una copia di cineasti rampanti quanto cinici come promozione della mostra. In breve l’intera vita del manager è sconvolta e messa in discussione. È un film crudelmente satirico, come dimostra la lunga sequenza dell’attore travestito da scimmia che scompagina un pranzo di gala con una performance davvero degna delle peggiori provocazioni dell’arte moderna. Certamente un’opera troppo lunga, più di due ore e venti minuti di proiezione, ma è anche un testo che riesce a mettere in discussione molte false certezza che allineano nella cultura nordica. Da notare che questo regista aveva vinto con Turist (Forza maggiore, 2014) il Premio della Giuria della sezione Un Certain Regard.
Robin Campillo ha lavorato a lungo con Laurent Cantet (ricordiamo almeno Risorse umane, 1998, A tempo pieno, 2001 e La classe - Entre les murs, 2008) e ha dedicato il suo terzo film, 120 Battement par Minute (120 battiti al minuto), a una vera e propria tragedia: la sottovalutazione della piaga dell’AIDS all’inizio degli anni 90 – presidente della repubblica François Mitterrand (1916 – 1996) – quando le autorità mantenevano ancora segreti i dati dell’epidemia e la consideravano un problema dei soli omosessuali. Il film segue le iniziative di Act Up – Parigi, un movimento di denuncia di omosessuali di ogni tendenza, per scuotere l’indifferenza dell’opinione pubblica e rendere note le vere cifre del male. Il regista segue i lunghi incontri fra i militanti segnalando le diverse posizioni (radicali interventisti, trattativisti) il moltiplicarsi delle morti, le tragedie anche sentimentali che si sviluppano fra di loro. Sembra quasi di assistere alla proiezione di un documentario storico, con momenti francamente e volutamente disturbanti come la vestizione del cadavere del militante radicale morto con accanto il compagno che non ha voluto lasciarlo neppure per un momento. È un film di parte con i pregi di generosità e coraggio tipici di questo tipo di opera, ma anche con i difetti di un grido disperato che poco si preoccupa della forma filmica.
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