Festival Internazionale del Film di Cannes 2018 - Pagina 12

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2018
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AykaCome nelle migliori tradizioni, il Festival ha presentato alla fine alcuni fra i suoi film migliori. Ayka del russo Sergey Dvortsevoy è un testo che gronda disperazione, quasi un documentario con la telecamera sempre sul corpo o sul volto della protagonista: una ragazza kirghisa che vive clandestinamente a Mosca, fugge dall’ospedale non appena partorito ed è sfruttata da imprenditori truffaldini o da professionisti che prendono a pretesto il fatto che non ha documenti per non assumerla, imbrogliarla o tiranneggiarla. È un ritratto impietoso della condizione di migliaia di esseri umani nella nuova Russia di Vladimir Putin. Il regista sfida volutamente il pericolo della monotonia e della ripetitività non staccando mai la cinepresa dalla protagonista, registrandone le sofferenze, anche negli aspetti più intimi, e proponendoci, in contraltare, una città coperta di neve in cui nessuno presta ascolto alla ragazza, anche quando chiede semplicemente delle informazioni su come raggiungere un certo appartamento. È un mondo glaciale che fa il paio con la solitudine e il dolore di Ayka che, alla fine, non trova altra soluzione se non quella di consegnare ai suoi aguzzini il bimbo che ha appena partorito affinché sia venduto ad una copia sterile. È un film dolorosissimo che getta uno sguardo allucinato e terribile su un paese di cui s’iniziano a capire le nostalgie per la vecchia, orribile URSS.
albero delle pereNuri Bilge Ceylan ha firmato sette lungometraggi che sono bastati a qualificarlo come il migliore regista turco e uno dei più apprezzati autori mondiali. Tutti i film a cui ha messo mano hanno ricevuto premi a Cannes e in altri festival. Ahalat Agci (L’albero delle pere selvatiche) è la sua ultima fatica, un’opera densa, lunga – quasi tre ore e dici minuti di proiezione – che apparentemente affronta un tema semplice: il rapporto fra padre e figlio. Apparentemente, in quanto dietro questa relazione familiare il regista propone una lunga serie di riflessioni sull’arte, la religione (determinante il dialogo, quasi mezz’ora di immagini, fra il protagonista e due imam), il destino dell’uomo. La trama è semplicissima, quasi flebile: un giovane ritorna al paese natale con il sogno di farsi pubblicare un libro, il cui titolo è appunto L’albero delle pere selvatiche, che ha appena terminato. Qui si scontra con il padre, un professore alle soglie della pensione che ha perso ogni sogno, è carico di debiti e ha fiducia solo in cose reali come la vita nei campi e il lavoro dei contadini. Anzi, coltiva un solo sogno, quello di costruire un pozzo in una regione che tutti gli altri considerano arida e priva d’acqua. Solo alla fine, quando il giovane ritorna dal servizio militare e scopre che il libro che ha pubblicato a sua e spese ha avuto come unico lettore il padre, nasce fra i due un vero legame, tanto che il figlio s’impegna nella costruzione del pozzo abbandonato dal padre. È una sorta di apologo morale teso alla ricostruzione dei legami fra le generazioni e al recupero di quella cultura contadina che sembra destinata ad essere travolta dalla modernità. Il regista conferma l’attenzione per la fotografia, sua prima passione che ha prodotto anche alcune pregevoli esposizioni, e maneggia da maestro un gruppo di attori poco noti a livello internazionale, quanto perfetti a quello professionale. In poche parole un film di grandissimo spessore il cui autore si afferma, ancora una volta, come uno dei grandi del cinema mondiale.