02 Maggio 2018
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Festival Internazionale del Film di Cannes 2018 |
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La libanese Nadine Labaki si era fatta notare nel 2007 quando Sukkar Banat (Caramello) colpì pubblico e critici per il modo davvero originale e vicino alla perfezione in cui era riuscita a rappresentare la complessità del suo paese facendo ricorso a un misto di dramma e ironia. Ritorna ora alla carica, ma spingendo sulla tragedia, con Capharnaüm (Cafarnao), un titolo scelto come esempio di caos, confusione. Tali regnano a Beirut fra immigrati clandestini provenienti dalla Siria, trafficanti vari, poliziotti indifferenti al dolore dei poveri, etiopi in cerca di documenti che legalizzino la loro posizione. In mezzo a questo incrocio di destini e miseria si viene a trovare il piccolo Zain che lascia la famiglia disgustato dalla decisione dei genitori di dare in moglie la sorellina Sahar, poco più che decenne, per alleggerire il bilancio della famiglia. Lui si è sempre arrangiato, comportandosi come un adulto, ma ora deve fronteggiare la vita da solo. Lo accoglie Rahil, un’etiope immigrata irregolare che alleva, anche lei da sola, un figlioletto di pochi mesi. Quando la donna scompare, scopriremo solo alla fine che è stata arrestata dalla polizia, i due piccoli rimangono devono destreggiarsi fra le difficoltà di ogni giorno, prima fra tutte la ricerca del cibo e il pagamento dell’affitto della catapecchia in cui abitano. Tutto questo è visto in flash back mentre il ragazzo subisce un processo per aver accoltellato il padre. Significativa la frase con cui il giovane risponde al giudice che gli chiede per quale ragione ce l’ha con i genitori. La risposta è: per avermi dato la vita. In queste poche parole ci sono tutte le ragioni di un film che non teme di utilizzare elementi narrativi decisamente melodrammatici, ma del tutto consoni alla realtà che rappresenta. In altre parole un testo che gronda realismo, dramma e denuncia in modo diretto ed efficace la condizione di migliaia di bambini e donne che sono fra le prime vittime del caos che regna in Medio Oriente.
Valutamene irrealistico e del tutto fastidioso, invece, Un couteau dans le Coeur (Un coltello nel cuore) opera seconda del francese Yann Conzalez. Siamo nella Parigi del 1979 e una produttrice di film porno omosessuali, sconvolta per l’abbandono della sua compagna, cerca di realizzare un’opera più ambiziosa del solito. La storia di questo testo s’intreccia con una serie di omicidi di attori porno, ma non è chiaro se si tratta di sogni della protagonista o di fatti reali. In poche parole un pasticcio indegno della minima considerazione che utilizza o cita, se abbiamo ben inteso, sequenze di Lo sconosciuto del lago (L'Inconnu du lac, 2013) di Alain Guiraudie, un film che non ci era già piaciuto all’epoca e che ora ritroviamo, peggiorato, in questo film.
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