02 Maggio 2018
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Festival Internazionale del Film di Cannes 2018 |
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Jean-Luc Godard è Jean-Luc Godard. Sembra una considerazione banale, invece è un giudizio critico profondo e motivato. L’anziano regista da tempo ritiratosi in volontario esilio in un paesino svizzero ove vive in quasi totale isolamento come dimostra l’ultimo film di Agnès Varda, Visages Villages, nella cui sequenza finale in cui la cineasta e il suo compagno di viaggio, JR, bussano invano alla porta dell’anziano co-fondatore della nouvelle vague. C’era, dunque, molta attesa per Le livre d’immage (Il libro d’immagine), suo ultimo film, accolto a sorpresa in concorso al Festival. È un florilegio continua di sequenze di vecchi film, spezzoni di brani d’attualità, riflessioni poetiche, citazioni di libri, pensieri in libertà del regista. Il tutto a proposito della società in cui viviamo, i crimini che vi si commettono in nome della libertà e della democrazia. In poche parole un amalgama di osservazioni apparentemente disordinate, in realtà legate da una visione quasi anarchica della società che ci circonda. La miseria dell’Africa, i problemi politici del medio oriente, l’arroganza israeliana e l’indifferenza europea. Tutto entra nel discorso del cineasta che non accetta compromessi o censure opportunistiche. Il suo cinema è magmatico e, a tratti sgradevole, ma mira a colpire al cuore lo spettatore e, in ogni caso, a non lasciarlo indifferente. Impossibile, nello spezio di cui disponiamo, esprimere un giudizio sule singole parti del film. Basti ricordare il rispetto che JLC mostra per il nostro cinema e buona parte dei registi che gli hanno dato fama. Sequenze dirette da Roberto Rossellini, Vittorio de Sica, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti sono riproposte a sostegno di prese di posizione non sempre coerenti con il pensiero di quegli autori, ma sempre stimolanti per gli spettatori.
Tanto è inusuale il film del francese altrettanto tradizionale è Jiang Hu Er Nv (La cenere è il bianco più puro) firmato dal cinese Jia Zhang-Ke lo stesso che ha attenuto alti riconoscimenti sia con Tian zhu ding (Il tocco del peccato, 2013) sia con Shānhé gùrén (Al di là delle montagne, 2015), in entrambi dei quali il regista denunciava gli orrori legati alla repentina trasformazione della vecchia Cina in un paese preda delle forme più rapaci di capitalismo. Anche quest’ultimo film segue la medesima traccia e, per buona parte la stessa ambientazione nella regione della Diga delle Tre gole, sul fiume Azzurro, nella provincia di Hubei, ove la costruzione dell’enorme manufatto ha determinato lo sfollamento di decine di migliaia di persone le cui abitazioni sono finite sott’acqua. Questa volta al centro del discorso c’è una coppia di piccoli fuorilegge, un uomo (Bin) e una donna (Qiao), a capo di una banda di provincia. Lei finisce in prigione, condannata a cinque anni per aver difeso con una pistola posseduta illegalmente il compagno dall’aggressione di un gruppo di giovani che ne contestavano il potere. All’uscita dalla galera scopre che tutto è cambiato sia a livello di ambiente, sia nei rapporti personali. L’ex- compagno ha una nuova donna e sembra essersi messo sulla strada degli affari legali. Lei non demorde e ritorna alle vecchie abitudini e alle passate compagnie. Due anni dopo Qiao, costretto in carrozzella causa una disputa con i nuovi soci, ritorna a casa e Bin lo accoglie amorevolmente, gli fa posto nella nuova organizzazione criminale e lo induce a curarsi seriamente. In breve l’uomo si rimette in piedi, apparentemente guarito, ma la nuova condizione gli sta stretta e riparte senza avvisare la compagna. Anche questa volta la metafora di una Cina fedele alle origini che si scontra ferocemente con il nuovo paesaggio sociale segnato da colletti bianchi e manager la cui ferocia fa impallidire quella dei banditi di un tempo, è chiara e impietosa. Le lunghissime gradinate che costringono chi viene dal fiume a salire sino alla città nuova sintetizzano assai bene questo conflitto fra culture e modi di pensare. Nel mondo moderno, ci dice il regista, non c’è più spazio per la lealtà e l’integrità che, un tempo, segnavano i rapporti fra le persone, anche nel mondo criminale. In altre parole un film dal taglio tradizionale, ma particolarmente significativo e importante.
Nella sezione Un Certain Regard, vera fucina di film interessanti, si è visto Girl (Ragazza) storia della quindicenne Lara che sogna di diventare una étoile della danza, ma che spera anche di diventare definitivamente donna essendo nata maschio. Nell’attesa dell’operazione che sancirà il definitivo cambiamento di genere continua a inseguire il sogno di ballare frequentando una severa scuola. Purtroppo per lei/lui le due cose non vanno d’accordo ei medicinali che deve prendere per prepararsi all’intervento la debilitano sino a costringerla ad abbandonare la scuola. Presa dalla disperazione si evira rischiano di morire. Nell’ultima immagine la vediamo, con aspetto decisamente femminile, mentre cammina, forse riconciliata con la vita. Il film è l’opera prima del regista belga fiammingo Lukas Dhont e a ricevuto il più caloroso accoglimento, quasi dieci minuti di applausi, a cui ci è stato dato di assistere quest’anno. Applausi meritati, ma un tantino esagerati visto che il film, magistralmente interpretato, muove su binari forse troppo scontati e prevedibili. In altre parole è un testo che perora una tema doloroso, ma lo fa con un linguaggio decisamente tradizionale.
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