Festival Internazionale del Film di Cannes 2018

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2018
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Manifesto 2018Ecco i titoli di quest'edizione:

Fillm d’apertura

TODOS LO SABEN (Lo sanno tutti) di Asghar Farhadi

Concorso:

EN GUERRE (In guerra) di Stéphane Brizé
AHLAT AGACI (L’albero delle pere selvatiche) di Nuri Bilge Ceylan
AYKA di Sergey Dvortsevoy
DOGMAN di Matteo Garrone
LE LIVRE D’IMAGE (Il libro d’immagini) di Jean-Luc Godard
UN COUTEAU DANS LE CŒUR (Un coltello nel cuore) di Yann Gonzalez
NETEMO SAMETEMO (Asako I & II) di Ryusuke Hamaguchi
PLAIRE AIMER ET COURIR VITE (Mi piace e funziona subito) di Christophe Honoré
LES FILLES DU SOLEIL (Le figlie del sole) di Eva Husson
ASH IS PUREST WHITE (La cenere è il bianco più puro) di Jia Zhang-Ke
SHOPLIFTERS (Taccheggiatori) di Kore-Eda Hirokazu

CAPHARNAÜM (Cafarnao) di Nadine Labaki
BUH-NING (Ardente) di Lee Chang-Dong
BLACKKKLANSMAN (L’uomo nero del KKK) di Spike Lee
UNDER THE SILVER LAKE (Sotto il lago d’argento) di David Robert Mitchell
THREE FACES (Tre volti) di Jafar Panahi
ZIMNA WOJNA (Guerra fredda) di Pawel Pawlikowski
LAZZARO FELICE di Alice Rohrwacher
YOMEDDINE di A.B Shawky
LETO (L’estate) di Kirill Serebrennikov

 Fuori concorso:

SOLO: A STAR WARS STORY (Solo: una storia di Guerre Stellari) di Ron Howard
LE GRAND BAIN (Il grande bagno) di Gilles Lellouche
THE HOUSE THAT JACK BUILT (La casa costruita da Jack) di Lars von Trier
THE MAN WHO KILLED DON QUIXOTE (L’uomo che uccise Don Chisciotte) di Terry Gilliam (film di chiusura)

Film di mezzanotte:

FAHRENHEIT 451 (Fahrenheit 451) di Ramin Bahrani
WHITNEY di Kevin Macdonald
ARCTIC (Artico) di Joe Penna
GONGJAK (La spia è andata a nord) di Yoon Jong-Bing

Proiezioni speciali:

10 YEARS IN THAILAND (10 anni in Thailandia) di Aditya Assarat, Wisit Sasanatieng, Chulayarnon Sriphol & Apichatpong Weerasethakul
THE STATE AGAINST MANDELA AND THE OTHERS (Lo Stato contro Mandela e altri) di Nicolas Champeaux & Gilles Porte
O GRANDE CIRCO MÍSTICO (Il grande circo mistico) di Carlos Diegues
LES ÂMES MORTES (Le anime morte) di Wang Bing
À TOUS VENTS (A tutti i venti) di Michel Toesca
LA TRAVERSÉE (La traversata) di Romain Goupil
LE PAPE FRANÇOIS - UN HOMME DE PAROLE (Papa Francesco - Un uomo di parola) di Wim Wenders

Sezione Un Certain Regard:

DONBASS di Sergey Loznitsa (film d'apertura)
GRÄNS (Confine) di Ali Abbasi
SOFIA di Meyem Benm’Barek
LES CHATOUILLES (Piccoli bigliettini) di Andréa Bescond & Eric Métayer
LONG DAY'S JOURNEY INTO NIGHT (Lungo viaggio nella notte) di Bi Gan
MANTO di Nandita Das
À GENOUX LES GARS (Ragazzi in ginocchio) di Antoine Desrosières
GIRL (Ragazze) di Lukas Dhont
MUERE, MONSTRUO, MUERE (Uccidimi,mostro) di Alejandro Fadel
GUEULE D’ANGE (Faccia d’angelo) di Vanessa Filho
EUFORIA di Valeria Golino
RAFIK (AmiIci) di Wanuri Kahiu
MON TISSU PRÉFÉRÉ (Il mio tessuto preferito) di Gaya Jiji
DIE STROPERS (I mietitori) di Etienne Kallos
IN MY ROOM (In camera mia) di Ulrich Köhler
EL ANGEL (L’angelo) di Luis Ortega
CHUVA E CANTORIA NA ALDEIA DOS MORTOS (I morti e gli altri) di João Salaviza e Renée Nader Messora
THE GENTLE INDIFFERENCE OF THE WORLD (La gentile indifferenza del mondo) di Adilkhan Yerzhanov


 

lo sanno tuttiIl 71mo Festival di Cannes si è aperto con la proiezione, fuori concorso, di Toto lo saben (Lo sanno tutti) girato in Spagna dall’iraniano Asghar Farhadi. Lo si è detto già molte volte: quando un autore si allontana dalle sue radici culturali difficilmente riesce a mantenere la lucidità che aveva dimostrato in passato. Questo regista si era imposto nel circuito internazionale soprattutto con A proposito di Elly (Darbārehye Elly, 2009) e Una separazione (Jodái-e Náder az Simin, 2011), il secondo dei quali ha vinto, nel 2012, il premio Oscar per il miglior film in lingua non inglese. Entrambi questi titoli offrivano uno sguardo originale sulla società a cui appartiene il regista e sulle trasformazioni in atto nella borghesia di quel paese. Due aspetti di grande interesse che non si ritrovano in quest’ultimo film in cui si racconta, a mezza strada fra la telenovela e il thriller, il dramma di alcuni proprietari terrieri che devono far fronte al rapimento, con richiesta di riscatto, della giovane figlia di una donna, da tempo emigrata in Argentina e là sposatasi, ritornata a casa in occasione del matrimonio di una sua quasi coetanea. Il crimine fa detonate contraddizioni e tensioni mai estinte. Il maggior proprietario terriero è stato un tempo fidanzato con la donna e la rapita è, in realtà, figlia sua. Interessi personali e tensioni economiche s’intrecciano portando al recupero della rapita e alla spogliazione economica del suo vero padre. Melodramma, meglio telenovela, s’intrecciano senza una base realmente definita e trovano un appoggio, in negativo, nell’interpretazione particolarmente fuori registro di un Javier Bardem che sembra comparire nel film col solo scopo di tenere compagnia alla moglie Penélope Cruz. In altre parole un testo inutile che affoga una prestazione registica, indubbiamente professionale, in una sequela di banalità, molte delle quali iper-prevedibili.
DombassSegei Loznitsa è un regista ucraino che ci ha dato molti titoli di rilievo, il penultimo dei quali, Austerlitz (2016) è stato presentato anche sui nostri schermi. Dombass è la sua ultima fatica e ha aperto la rassegna della prestigiosa sezione Un Certain Regard, Il film è formato da 13 episodi, ciascuno dei quali racconta un fatto accaduto in quella regione ad est dell’Ucraina, fra il 2014 e il 2015, storie che sono servite al regista da spunto per confezionare un lungometraggio i cui dati di maggiore interesse riguardano le sofferenze e le terribili condizioni di vita a cui sono costretti i civili. Anche se il cineasta non fa nulla per nascondere le sue scelte in favore degli ucraini e contro i miliziani appoggiati dai russi, al fianco dei quali combattono anche alcuni fascisti italiani, ciò che emerge con chiarezza è l’insensatezza dei massacri e la ferocia con cui sono condotti i combattimenti. I un paesaggio innevato capita che giornalisti e operatori televisivi siano uccisi senza alcuna pietà, donne, bambini e uomini siano costretti a vivere fra le macerie senz’acqua corrente o servizi igienici, mentre gli uomini al potere continuano a rubare e ad aumentare il proprio patrimonio personale. Tutto questo avviene nel cuore di un’Europa che, non da oggi, ha preferito voltare la testa dall’altra parte.  Un film che non nasconde le scelte di campo del suo autore, ma che ci offre abbondante materiale di riflessione.


YomeddineIn arabo Yomeddine significa giorno del giudizio. Il regista di madre austriaca e padre egiziano A.B. Shawky ha intitolato così un film che ha per protagonisti un ex-lebbroso, Beshay, ora guarito, ma mai uscito dal lebbrosario e un orfanello nubiano che gli si attacca e non vuole più lasciarlo. Il primo, campa malamente rovistando nelle immondizie de Il Cairo, il secondo, Ahmed, fugge dall’orfanatrofio, simile ad un carcere malandato, in cui è rinchiuso. L’ex – lebbroso è appena diventato vedovo e decide di attraversare il paese verso Sud per andare a ritrovare la famiglia che lo ha abbandonato nell’istituto di cura in cui è cresciuto perché si vergognava del suo male. Il bimbo si attacca all’ex-lebbroso che, tuttora, porta sul volto e sul corpo i segni della malattia sperando di trovare una famiglia e un po’ d’umanità. È un lungo peregrinare attraverso il paese, passando per deserti, scontrandosi con ladri e approfittatori vari, assistendo, impotenti, alla morte dell’asinello che tira il carretto su cui hanno caricato i loro poveri averi. In altre parole un road movie in piena regola, ma anche una perorazione dolorosa contro l’ingiustizia che perseguita gli emarginati e, in questo senso, non è privo di significato il fatto che il regista abbia scelto di fare di Beshay un cristiano. In questo le prime sequenze ambientate nella grande discarica d’immondizie danno un senso all’intero film e svelano un mondo miserabile che costituisce, nella realtà, un orizzonte invalicabile per migliaia di esseri umani. In altre parole un film espressivamente non straordinario, ma di grande importanza per il quadro che offre allo spettatore di un mondo in cui pesano come macigni povertà e pregiudizi.
EstateLeto (L’estate) del teatrante russo Kirill Serebrennikov ci riporta all’URSS dell’inizio anni 80, quando la contestazione al regime si giostrava anche sulle note della musica rock sia sulla sua diffusione, al tempo considerata antipatriottica, sia sulla voglia dei giovani artisti di andare oltre ciò che era stato fatto sino a quel momento nel mondo per dare alla nuova tendenza connotati nuovi, autenticamente russi. Sono i giorni in cui la perestroika gorbacioviana cerca di affermarsi a fatica contro le molte incrostazioni lasciate dalla notte brezneviana. Da notare che il regista è tutt’ora agli arresti domiciliari per una questione di utilizzo di fondi in quanto direttore di teatro. Il film mescola in modo armonioso la storia raccontata, anche se con non pochi elementi del tipo genio e sregolatezza, con citazioni di brani di Lou Reed e David Bowie. Un altro elemento di rilevo è l’inserimento di sequenze animate o fortemente manipolate, in questo senso uno dei momenti cardine, quando il confronto fra i personaggi e la società, è quello del confronto – scontro fra i viaggiatori del treno e i giovani. Una disputa che assume un ruolo determinante anche come simbolo della distanza che separa generazioni e culture. In altre parole un film interessante anche se un po’ presuntuoso nel voler rappresentare un’epoca attraverso un fenomeno che ha interessato moltissimo i giovani, ma ha lasciato quasi indifferenti milioni di russi.


2760065.jpg-c 215 290 x-f jpg-q x-xxyxxPlaire, aimer et courire vite (Mi piace e funziona subito, ma il titolo per il mercato internazionale sarà Sorry Angel: Mi dispiace Angelo) di Christophe Honoré è il classico film francese pieno di lunghi discorsi e chiacchiere para filosofiche. Ambientato all’inizio degli anni novanta in un momento in cui l’AIDS sta mietendo le prime vittime ed è considerato una malattia quasi sconosciuta e inguaribile, racconta gli amori e i triboli di uno scrittore omosessuale contagiato dal male che assiste alla morte di amici e amanti sino a preferire il suicidio alla lunga agonia imposta dalla malattia. Longo due ore e un quarto costellato di incontri occasionali fra gay, riflessioni più o meno profonde sul senso della vita, discussioni sull’arte e a citazioni dirette del drammaturgo Bernard-Marie Koltès (1948 – 1989) e del cineasta François Truffaut (1932 – 1984) di cui il regista ci mostra le tombe in una sequenza ambientata nel cimitero di Montmartre. Una citazione che rimanda alla solidarietà omosessuale, lo scrittore, e alla visione cinematografica dei due artisti. Questo dovrebbe già far comprendere al lettore il livello, molto intellettualistico, del film e l’intenzione del regista di fare sfoggio di cultura, omosessuale o meno. Lungi da noi il negare la profondità della tragedia che ha colpito la comunità gay, in particolare quella francese, a lasciare perplessi è lo sfoggio di riflessioni colte o pseudo-colte a cui è ridotto un fenomeno terribile che non ha avuto solo aspetti culturali, ma profonde ragioni politiche e sociali come ha testimoniato un altro film, 120 Battement par Minute (120 battiti al minuto) di Robin Campillo, visto qua lo scorso anno e distribuito anche in Italia.
Guerra FreddaAssai più interessante, per quanto riguarda il rapporto fra cultura e società, è stato invece Zimna wojna (Guerra fredda) del polacco Pawel Pawlikowski di cui abbiamo molto apprezzato, nel 2013, Ida. Questa volta al centro del discorso c’è una coppia di musicisti che passano dalle celebrazioni staliniste della fine degli anni quaranta e dei primi cinquanta, alla fuga, in tempi diversi, in occidente. Lui si muove per primo e approda a Parigi ove sopravvive animando un complesso jazz che suona in locali fumosi e affollatissimi. Lei lo raggiunge all’inizio degli negli anni sessanta grazie a un matrimonio compiacente con un italiano. Vivono assieme una breve stagione d’amore, ma mal si adattano ai ritmi e alle convenzioni della vita occidentale. Lei ritorna in patria ove, grazie al clima politico parzialmente mutato, prosegue la carriera di cantante, anche se con poche soddisfazioni e molti condizionamenti. Lui, incapace di rinunciare all’amore, si riconsegna alle autorità polacche, è condannato a molti anni di prigione e rinchiuso in un lager. La cantante riesce a farlo liberare, ma per entrambi la vita è impossibile per cui l’unica soluzione è il suicidio in una chiesa di campagna diruta. Il film è girato in bianco e nero, come il precedente, e questo aggrava il senso di malinconia e tristezza che segnano quegli anni nei paesi dell’est Europa. La recitazione dei due attori principali è davvero ai massimi livelli a conferma delle enormi risorse artistiche di cui dispone questa cinematografia.  


il libro dimmagineJean-Luc Godard è Jean-Luc Godard. Sembra una considerazione banale, invece è un giudizio critico profondo e motivato. L’anziano regista da tempo ritiratosi in volontario esilio in un paesino svizzero ove vive in quasi totale isolamento come dimostra l’ultimo film di Agnès Varda, Visages Villages, nella cui sequenza finale in cui la cineasta e il suo compagno di viaggio, JR, bussano invano alla porta dell’anziano co-fondatore della nouvelle vague. C’era, dunque, molta attesa per Le livre d’immage (Il libro d’immagine), suo ultimo film, accolto a sorpresa in concorso al Festival. È un florilegio continua di sequenze di vecchi film, spezzoni di brani d’attualità, riflessioni poetiche, citazioni di libri, pensieri in libertà del regista. Il tutto a proposito della società in cui viviamo, i crimini che vi si commettono in nome della libertà e della democrazia. In poche parole un amalgama di osservazioni apparentemente disordinate, in realtà legate da una visione quasi anarchica della società che ci circonda. La miseria dell’Africa, i problemi politici del medio oriente, l’arroganza israeliana e l’indifferenza europea. Tutto entra nel discorso del cineasta che non accetta compromessi o censure opportunistiche. Il suo cinema è magmatico e, a tratti sgradevole, ma mira a colpire al cuore lo spettatore e, in ogni caso, a non lasciarlo indifferente. Impossibile, nello spezio di cui disponiamo, esprimere un giudizio sule singole parti del film. Basti ricordare il rispetto che JLC mostra per il nostro cinema e buona parte dei registi che gli hanno dato fama. Sequenze dirette da Roberto Rossellini, Vittorio de Sica, Pier Paolo Pasolini, Luchino Visconti sono riproposte a sostegno di prese di posizione non sempre coerenti con il pensiero di quegli autori, ma sempre stimolanti per gli spettatori.
La cenere è il bianco più puroTanto è inusuale il film del francese altrettanto tradizionale è Jiang Hu Er Nv (La cenere è il bianco più puro) firmato dal cinese Jia Zhang-Ke lo stesso che ha attenuto alti riconoscimenti sia con Tian zhu ding (Il tocco del peccato, 2013) sia con Shānhé gùrén (Al di là delle montagne, 2015), in entrambi dei quali il regista denunciava gli orrori legati alla repentina trasformazione della vecchia Cina in un paese preda delle forme più rapaci di capitalismo. Anche quest’ultimo film segue la medesima traccia e, per buona parte la stessa ambientazione nella regione della Diga delle Tre gole, sul fiume Azzurro, nella provincia di Hubei, ove la costruzione dell’enorme manufatto ha determinato lo sfollamento di decine di migliaia di persone le cui abitazioni sono finite sott’acqua. Questa volta al centro del discorso c’è una coppia di piccoli fuorilegge, un uomo (Bin) e una donna (Qiao), a capo di una banda di provincia. Lei finisce in prigione, condannata a cinque anni per aver difeso con una pistola posseduta illegalmente il compagno dall’aggressione di un gruppo di giovani che ne contestavano il potere. All’uscita dalla galera scopre che tutto è cambiato sia a livello di ambiente, sia nei rapporti personali. L’ex- compagno ha una nuova donna e sembra essersi messo sulla strada degli affari legali. Lei non demorde e ritorna alle vecchie abitudini e alle passate compagnie. Due anni dopo Qiao, costretto in carrozzella causa una disputa con i nuovi soci, ritorna a casa e Bin lo accoglie amorevolmente, gli fa posto nella nuova organizzazione criminale e lo induce a curarsi seriamente. In breve l’uomo si rimette in piedi, apparentemente guarito, ma la nuova condizione gli sta stretta e riparte senza avvisare la compagna. Anche questa volta la metafora di una Cina fedele alle origini che si scontra ferocemente con il nuovo paesaggio sociale segnato da colletti bianchi e manager la cui ferocia fa impallidire quella dei banditi di un tempo, è chiara e impietosa. Le lunghissime gradinate che costringono chi viene dal fiume a salire sino alla città nuova sintetizzano assai bene questo conflitto fra culture e modi di pensare. Nel mondo moderno, ci dice il regista, non c’è più spazio per la lealtà e l’integrità che, un tempo, segnavano i rapporti fra le persone, anche nel mondo criminale. In altre parole un film dal taglio tradizionale, ma particolarmente significativo e importante.
RagazzaNella sezione Un Certain Regard, vera fucina di film interessanti, si è visto Girl (Ragazza) storia della quindicenne Lara che sogna di diventare una étoile della danza, ma che spera anche di diventare definitivamente donna essendo nata maschio. Nell’attesa dell’operazione che sancirà il definitivo cambiamento di genere continua a inseguire il sogno di ballare frequentando una severa scuola. Purtroppo per lei/lui le due cose non vanno d’accordo ei medicinali che deve prendere per prepararsi all’intervento la debilitano sino a costringerla ad abbandonare la scuola. Presa dalla disperazione si evira rischiano di morire. Nell’ultima immagine la vediamo, con aspetto decisamente femminile, mentre cammina, forse riconciliata con la vita. Il film è l’opera prima del regista belga fiammingo Lukas Dhont e a ricevuto il più caloroso accoglimento, quasi dieci minuti di applausi, a cui ci è stato dato di assistere quest’anno. Applausi meritati, ma un tantino esagerati visto che il film, magistralmente interpretato, muove su binari forse troppo scontati e prevedibili. In altre parole è un testo che perora una tema doloroso, ma lo fa con un linguaggio decisamente tradizionale.


Le figlie del soleIl fenomeno delle soldatesse curde che si sono battute, dando un contributo importante, accanto agli uomini per sconfiggere ISIS, è uno dei fatti di rilievo delle recenti tragedie mediorientali. Eva Husson non rende giustizia a queste donne con un film brutto e sbagliato. Les Filles du Soleil (Le figlie del sole) è mal costruito perché gronda falsa propaganda e sembra uno di quelle pellicole americane arrivate sul nostro mercato all’inizio degli anni cinquanta, storie in cui i buoni erano tutti da una parte e dove ad ogni raffica di mitra cadevano decine di giapponesi, razzisticamente definiti musi gialli o, più tardi all’epoca della guerra di Corea (1950 -1953), a morire erano altrettanti combattenti nord coreani. Un testo anche sbagliato in quanto sorvola sui molti problemi che queste combattenti hanno dovuto affrontare all’interno delle loro forze armate per affermarsi in un universo totalmente maschile.  La regista pensa di cavarsela introducendo nel film una corrispondente di guerra che ha perso un occhio e che qui si schiera a fianco delle combattenti regalando agli spettatori un pistolotto finale fasullo quanto retorico. In poche parole un film di pessima propaganda che non aiuta minimamente a capire la complessità di uno scontro che non è solo fra estremisti religiosi e popolazione locale, ma, e soprattutto, tra visioni diverse dell’Islam.
three-faces-2018-001-woman-inside-car-and-girl-ORIGINALPer fortuna ci siamo riconciliati con il cinema attraverso 3 Faces (3 volti) dell’iraniano Jafar Panahi, un cineasta che non può lasciare il paese in quanto condannato a 6 anni per motivi politici con l’interdizione a realizzare film per altri 20 anni. Nonostante questa pesante sentenza è riuscito a filmare in maniera semiclandestina This Is Not a Film (Questo non è un film, 2011), Closed Curtain (Tende chiuse, 2013) e Taxi Teheran (2015), titoli che hanno ricevuto riconoscimenti a Berlino, Cannes e Venezia. Questa sua ultima fatica sembra realizzata in modo più diretto, quasi che il nuovo clima che si respira nel paese abbia contagiato anche il suo lavoro. Un regista, Jafar Panahi stesso, e una star della televisione arrivano in un piccolo villaggio di montagna ove si parla turco. Sono sulle tracce di una ragazza che ha annunciato di volersi suicidare se il padre non le permetterà di frequentare la scuola di cinema. Il contrasto fra i due cittadini e i paesani non potrebbe essere più violento. Gli stranieri dapprima sono accolti con entusiasmo, ma non tardano ad entrare in conflitto con usi e mentalità loro estranei. A dominare sono le credenze più arcaiche e i rituali legati a una vita che sembra ferma al Medio Evo. Alla fine riusciranno a partire portando con loro la ragazzina che vuole fare cinema, ma dovranno superare non pochi ostacoli alcuni dei quali, ad esempio la promessa della sepoltura presso l’università del prepuzio di un giovane da poco circonciso onde facilitare la  carriera di medico, rientrano in pieno nei rituali semi magici in auge nel piccolo borgo. Con questo film il regista ritrova la verve e l’inventiva che ne hanno fatto uno dei maggiori cineasti iraniani e conferma una genialità che le angherie del regime non sono riuscite a sopire.


Lazzaro FeliceIl personaggio di cui racconta Alice Rohrwacher in Lazzaro Felice è quello di un ragazzo tanto buono da essere considerato un povero di spirito. Il film è diviso in due parti: la prima, ambientata approssimativamente negli anni sessanta, racconta di un gruppo di contadini sfruttati sino all’inverosimile da una nobildonna che ha tenuto nascosto loro che i tempi sono cambiati, la mezzadria è stata abolita ed ora sono tutti salariati e hanno diritto ad un giusto compenso. Tutto inizia a cambiare quando il nipote della padrona, il giovane bellimbusto Tancredi, inscena un finto rapimento per estorcere denaro alla zia. Il delinquentello utilizza come complice proprio l’ingenuo Lazzaro, ma i suoi disegni sono frustrati dall’arrivo dei Carabinieri che liberano i mezzadri e arrestano la nobildonna. A questo punto il film fa un salto di molti anni e s’incentra su Lazzaro che, creduto morto in seguito a una caduta rovinosa, ritorna in vita quasi miracolosamente grazie all’intervento di un vecchio lupo, si trasferisce in città e qui incontra alcuni degli ex-contadini che ora campano malamente in un’abitazione fortuita, sopravvivendo di piccole truffe e furtarelli. A questo punto ritroviamo il padroncino che abbiamo conosciuto all’inizio, ora invecchiato e rovinato al punto da essere costretto anche lui a vivere in miseria. Un ambiente degradato che non compromette la bontà e l’ingenuità di Lazzaro. Difficile dare un senso netto a questo film che appare più una riflessione ad ampio respiro che come una storia con un inizio e una fine. La regista sembra voler esaltare la forza dell’ingenuità contro le furbizie e gli inghippi del mondo moderno, ma questa è solo una delle possibili lettura di un film complesso e, in alcuni momenti, anche sgangherato. Lasciti i ricordi d’infanzia de Le meraviglie (204), che le hanno fruttato il Grand Prix Speciale della Giuria al Festival di Cannes oltre al Nastro d’Argento, la regista sembra essersi ingarbugliata in una storia filosofica che non domina interamente. In altre parole un film riuscito solo in parte.
TaccheggiatoriAncora affari intimi in Manbiki kazoku (Tacheggiatori) del giapponese Kore-eda Hirokazu. Qui siano in un gruppo parentale degradato composto da Osamu e il suo giovane figlio, un’anziana pensionata, la moglie dell’uomo, la nuora e una bimba raccolta per strada da due maschi. Tutti campano, oltre che sui soldi dell’anziana, su una serie di piccoli furti in grandi magazzini organizzati in una maniera che sfiora il professionismo. Tuttavia dietro questa apparente tranquillità familiare si nasconde un segreto che esplode quando la nonna muore di morte naturale. Un quadro che potrebbe nascondere la metafora del Giappone moderno e del suo trascinarsi su debiti e pessime condizioni economiche. Una lettura che, forse, da troppo credito a un film che vuole solo raccontare una storia senza prendersi troppo sul serio come dimostra il finale in cui tutto sembra tornare a posto tranne che per la madre che si è assunta ogni colpa di quanto accaduto. In ogni caso un film troppo lungo, oltre due ore di proiezione, in cui le cose da dire si vedono e intuiscono nella prima ora.


Asako I  IINetemo Sametemo (Asako 1 e 2), del giapponese Hamaguchi Ryusuke, racconta in due tempi la storia della giovane Asako che, in un primo momento, s’innamora perdutamente di un bel tenebroso e, due anni dopo, incontra un sosia dell’amato e si abbandona anche lui al punto di essere disposta a sposarlo. Ecco allora ricomparire il primo amante, nel frattempo diventato un divo della televisione e un apprezzato modello. Ritorno di fiamma e fuga dal prossimo sposalizio, salvo pentimento a mezza strada e ritorno al promesso sposo che, con qualche perplessità accoglie la fuggitiva. Il film ha il ritmo e lo sviluppo di una telenovela, meglio di un fumetto e tutti gli ingredienti per piacere al grande pubblico femminile, ma poche doti per essere compreso nella selezione di un importante festival internazionale come quello di Cannes. Ogni cosa è realizzata con cura e confezionata in modo da piacere alla borghesia urbana femminile, ma nulla è portatore di vero interesse.
Blackklansmann (Il nero del KKK) conferma la vocazione dell’americano BLACKKKLANSMANSpike Lee alla difesa dei diritti della gente di colore. Il film racconta, preceduta e conclusa da immagini di repertorio di rivolte dei neri, la storia di un agente di colore della polizia del Colorado che riesce, al telefono, a fingersi bianco e razzista. Con l’aiuto di un collega ebreo, smaschererà una sezione del Ku Klux Klan che stava per intraprendere una campagna di attentati dinamitardi. Il film è professionalmente solido, corretto nella costruzione e avvincente nello sviluppo, ma rimane un testo a tesi che poco aggiunge al linguaggio cinematografico. Da notare la sequenza in cui gli uomini del Klan si agitano, inveendo contro i neri, alla proiezione della seconda parte di Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1915) di David Wark Griffith (1875 –1948). È un passo falso del regista non tanto perché il vecchio cineasta non fosse di idee razzista, ma in quanto in questo modo si annullano i contributi, importanti e significativi, da lui dati alla storia e allo sviluppo del cinema. In altre parole un film militante con i pregi e i difetti che appartengono a questo genere.


en-guerre.20180426111701Stephane Brizè è un regista francese particolarmente attento ai problemi del lavoro. Il suo La loi du marchè (La legge del mercato, 2015) è uno dei capisaldi del cinema di questo genere. Ora ritorna in campo con En guerre (In guerra) che parte da una situazione che potrebbe essere reale: una fabbrica di componenti d’automobili, l’officina Perrin, è ora in mano ai tedeschi dopo essere stata ceduta dai proprietari originali francesi. Il management che guida la ditta pensa che gli utili aumenteranno se il sito sarà chiuso e il lavoro trasferito in uno stato in cui gli operai sono retribuiti meno. La mossa conseguente è quella di licenziare i 1100 lavoratori impiegati nell’azienda che, grazie ai loro sindacati, meglio ad alcune organizzazioni si mettono davanti agli ingressi impedendo la consegna delle merci già finite e il prosegue del lavoro. Il film segue questa lotta con un taglio quasi da cine attualità, documenta la complessità delle trattative con i padroni, gli scontri con la polizia, l’esplosione della rabbia dei lavoratori dopo mesi in cui sono senza salario. Il regista ha utilizzato decine di attori presi dalla strada che si sono amalgamanti con lo specialista Vincent Lindon che ha un sodalizio lungo e proficuo con questo cineasta. È un film sul lavoro e su una lotta destinata alla sconfitta, un tracollo appena, appena temperato (ma a quale prezzo!) dall’orribile morte del sindacalista più coerente che, dopo essere stato sconfitto da un miscuglio di estremisti e di rappresentanti dai lavoratori troppo accomodanti, si dà fuoco davanti alla sede tedesca della multinazionale. La regia ha il merito di non celare le differenze che incrinano l’unità sindacale e non mettere in sordina quelle che allignano fra gli stessi lavoratori. In altre parole, un film netto e onesto.
under-the-silver-lake-movie-posterL’americano David Robert Mitchell ha firmato Under the silver lake (Sotto il lago d’argento), un’opera lunghissima (due ore e 19 di proiezione) e tutt’alto che chiara. Il trentatreenne Sam vive a Los Angeles non facendo nulla, ma spiando donne svestite e sognando il raggiungimento della celebrità. Quando una sua bella vicina scompare, lui si mette in caccia per ritrovarla. È un itinerario complesso che si snoda nei meandri della città e attraversa feste, omicidi misteriosi, riti esoterici, società più o meno segrete, gruppi dediti a forme di magia. Onestamente diciamo che non tutto è chiaro e che ancor meno ci sono apparse limpide le intenzioni del cineasta che costella il film di animali sventrati e fiotti di sangue. Scarsa comprensione di storia e intenzioni che si è accompagnata al ancor minore intendimento dei motivi per cui quest’opera è finita nel cartellone del festival. In definitiva ci è parso che l’unica ragione che giustifica l’inclusione nel programma, oltre all’indubbio spessore professionale dell’opera, è la decisione di farlo strano per sorprendere gli spettatori, la maggior parte dei quali, occorre dirlo, si sono annoiati più che sentiti provocati.
euforiaA Un Certain Regard si è visto Euforia, opera seconda dell’attrice e regista Valeria Golino. È la storia di due fratelli, intrepretati da Riccardo Scamarcio e Valerio Mastandrea. Il primo è un imprenditore traffichino, di successo e omosessuale, il secondo è affetto da un tumore al cervello che lo desina a una morte certa entro poco tempo. Il ricco si prende cura dell’altro con devozione quasi maniacale e non esita a portarlo in pellegrinaggio a Međugorje, in Bosnia-Erzegovina, anche se poi approfitta del momento per cacciare dalla stanza l’ammalato e avere un amplesso con un altro pellegrino. Sono i ritratti di due figure quanto più lontane l’una dall’altra, ma che nel finale riescono a trovare un momento di solidarietà. La regista maneggia la materia con cura e abilità consegnando al pubblico un film di grande spessore in cui le psicologie sono indagate con precisione. Questi due fratelli, intrallazzatore l’uno e pudico l’altro, sintetizzano due modi opposti di avvicinarsi alla realtà e due modi di concepire i rapporti interpersonali. Un film robusto e piacevole, ricco di bravi attori, che contribuiscono non poco alla riuscita complessiva dell’opera.
Il cartellone dal festival comprendeva anche la presentazione in anteprima dell’ultimo episodio della saga Guerre Stellari. Solo: a Star Wars Story porta la firma di Ron Howards e prosegue la strada all’indietro nella scoperta delle origini dei personaggi. Il film uscirà nel circuito commerciale fra qualche settimana e sarà quello il momento per parlarne.


BURNING-des-affiches-pour-le-nouveau-Lee-Chang-Dong-en-competition-a-Cannes-58874Burning (Ardente) del sud coreano Lee Chang-dong racconta una storia d’amore fra una giovane povera affascinata dall’Africa e un disoccupato che ha una comunione infantile con lei. In mezzo a loro s’insinua un uomo ricco che ha come hobby quello di incendiare le serre semiabbandonate. I due giovani hanno una prima relazione amorosa in cui lei mostra per intero la sua disinibizione, poi, quando ritorna dall’Africa lo fa assieme a un ricco misterioso che diventa una sorta di ambiguo terzo incomodo fra loro. A un certo punto la donna scompare e il ragazzo senza lavoro, che nel frattempo ha ereditato una casa diruta e una mucca spelacchiata, è convinto che sia stato il benestante a ucciderla. Dopo vari incontri – scontri il ragazzo tende una trappola al ricco, lo uccide e ne brucia il cadavere assieme ai vestiti che indossava quando ha commesso il delitto. Nudo, alla guida di un furgone scassato, si allontana forse definitivamente rappacificato. Il regista utilizza la contrapposizione ricchi – poveri come una cartina di tornasole utile a individuale i conflitti sociali che caratterizzano il paese asiatico. Una nazione in cui lo scontro fra indigenti e abbienti è particolarmente forte. In questo il richiamo all’Africa e agli scontri fra poveri e poverissimi, assume un significato non trascurabile così come quello, visivo, fra gli appartamenti in cui abitano i protagonisti: diruti e minuscoli quelli dei due amanti, esageratamente grande e pacchiano quello del terzo incomodo. Il regista inserisce tutto questo in una storia d’amore che ha le caratteristiche di una passione sfrenata, senza che questo metta da parte la forza del quadro sociale.
dogmanIl secondo film italiano in concorso è stato Dogman di Matteo Garrone. È un testo rimarchevole che prende spunto, alla lontana, dalla vicenda criminale del cosiddetto Canaro della Magliana. Marcello è un toelettatore per cani che gestisce un negozietto miserabile in una periferia degradata. Contornato da colleghi non meno scalcinati alterna l’attività in insegna con quella di piccolo spacciatore di droga e complice occasionale di furti. Separato dalla moglie, le sue uniche passioni sono la figlia e i quadrupedi. Come i suoi vicini è angariato da Simoncino, un ex-boxeur che ha fatto della violenza una ragione di vita. Per lui ha scontato un anno di prigione rifiutandosi di denunciare il bruto alla polizia quando questi ha commesso un furto nel negozio di compra oro situato muro a muro con il suo esercizio. Quando esce di galera è scartato da tutti gli ex – amici, per cui è costretto a chiedere al violento la sua parte di bottino ricevendone un netto rifiuto. Infuriato gli vandalizza la moto, a cui il bruto tiene più che agli esseri umani. La risposta è un pestaggio in piena regola alla presenza di tutti quelli che abitano nel quartiere. A questo punto il lava cani ha raggiunto il limite della sopportazione e reclama vendetta. Attira Simoncino in una trappola, lo strangola e ne brucia il cadavere. È un film di gande forza immerso in un’atmosfera piovosa e cupa del tutto consona ai caratteri dei personaggi che mette in scena. Non è solo la storia della vendetta di un umile nei confronti di un prepotente, è anche il quadro drammatico di una condizione umana abbruttita oltre il limite della bestialità. In altre parole un film importante, stilisticamente molto elaborato che si colloca ai massimi vertici del nostro cinema.


CafarnaoLa libanese Nadine Labaki si era fatta notare nel 2007 quando Sukkar Banat (Caramello) colpì pubblico e critici per il modo davvero originale e vicino alla perfezione in cui era riuscita a rappresentare la complessità del suo paese facendo ricorso a un misto di dramma e ironia. Ritorna ora alla carica, ma spingendo sulla tragedia, con Capharnaüm (Cafarnao), un titolo scelto come esempio di caos, confusione. Tali regnano a Beirut fra immigrati clandestini provenienti dalla Siria, trafficanti vari, poliziotti indifferenti al dolore dei poveri, etiopi in cerca di documenti che legalizzino la loro posizione. In mezzo a questo incrocio di destini e miseria si viene a trovare il piccolo Zain che lascia la famiglia disgustato dalla decisione dei genitori di dare in moglie la sorellina Sahar, poco più che decenne, per alleggerire il bilancio della famiglia. Lui si è sempre arrangiato, comportandosi come un adulto, ma ora deve fronteggiare la vita da solo. Lo accoglie Rahil, un’etiope immigrata irregolare che alleva, anche lei da sola, un figlioletto di pochi mesi. Quando la donna scompare, scopriremo solo alla fine che è stata arrestata dalla polizia, i due piccoli rimangono devono destreggiarsi fra le difficoltà di ogni giorno, prima fra tutte la ricerca del cibo e il pagamento dell’affitto della catapecchia in cui abitano. Tutto questo è visto in flash back mentre il ragazzo subisce un processo per aver accoltellato il padre. Significativa la frase con cui il giovane risponde al giudice che gli chiede per quale ragione ce l’ha con i genitori. La risposta è: per avermi dato la vita. In queste poche parole ci sono tutte le ragioni di un film che non teme di utilizzare elementi narrativi decisamente melodrammatici, ma del tutto consoni alla realtà che rappresenta. In altre parole un testo che gronda realismo, dramma e denuncia in modo diretto ed efficace la condizione di migliaia di bambini e donne che sono fra le prime vittime del caos che regna in Medio Oriente.
un coltello nel cuoreValutamene irrealistico e del tutto fastidioso, invece, Un couteau dans le Coeur (Un coltello nel cuore) opera seconda del francese Yann Conzalez. Siamo nella Parigi del 1979 e una produttrice di film porno omosessuali, sconvolta per l’abbandono della sua compagna, cerca di realizzare un’opera più ambiziosa del solito. La storia di questo testo s’intreccia con una serie di omicidi di attori porno, ma non è chiaro se si tratta di sogni della protagonista o di fatti reali. In poche parole un pasticcio indegno della minima considerazione che utilizza o cita, se abbiamo ben inteso, sequenze di Lo sconosciuto del lago (L'Inconnu du lac, 2013) di Alain Guiraudie, un film che non ci era già piaciuto all’epoca e che ora ritroviamo, peggiorato, in questo film.  
 


AykaCome nelle migliori tradizioni, il Festival ha presentato alla fine alcuni fra i suoi film migliori. Ayka del russo Sergey Dvortsevoy è un testo che gronda disperazione, quasi un documentario con la telecamera sempre sul corpo o sul volto della protagonista: una ragazza kirghisa che vive clandestinamente a Mosca, fugge dall’ospedale non appena partorito ed è sfruttata da imprenditori truffaldini o da professionisti che prendono a pretesto il fatto che non ha documenti per non assumerla, imbrogliarla o tiranneggiarla. È un ritratto impietoso della condizione di migliaia di esseri umani nella nuova Russia di Vladimir Putin. Il regista sfida volutamente il pericolo della monotonia e della ripetitività non staccando mai la cinepresa dalla protagonista, registrandone le sofferenze, anche negli aspetti più intimi, e proponendoci, in contraltare, una città coperta di neve in cui nessuno presta ascolto alla ragazza, anche quando chiede semplicemente delle informazioni su come raggiungere un certo appartamento. È un mondo glaciale che fa il paio con la solitudine e il dolore di Ayka che, alla fine, non trova altra soluzione se non quella di consegnare ai suoi aguzzini il bimbo che ha appena partorito affinché sia venduto ad una copia sterile. È un film dolorosissimo che getta uno sguardo allucinato e terribile su un paese di cui s’iniziano a capire le nostalgie per la vecchia, orribile URSS.
albero delle pereNuri Bilge Ceylan ha firmato sette lungometraggi che sono bastati a qualificarlo come il migliore regista turco e uno dei più apprezzati autori mondiali. Tutti i film a cui ha messo mano hanno ricevuto premi a Cannes e in altri festival. Ahalat Agci (L’albero delle pere selvatiche) è la sua ultima fatica, un’opera densa, lunga – quasi tre ore e dici minuti di proiezione – che apparentemente affronta un tema semplice: il rapporto fra padre e figlio. Apparentemente, in quanto dietro questa relazione familiare il regista propone una lunga serie di riflessioni sull’arte, la religione (determinante il dialogo, quasi mezz’ora di immagini, fra il protagonista e due imam), il destino dell’uomo. La trama è semplicissima, quasi flebile: un giovane ritorna al paese natale con il sogno di farsi pubblicare un libro, il cui titolo è appunto L’albero delle pere selvatiche, che ha appena terminato. Qui si scontra con il padre, un professore alle soglie della pensione che ha perso ogni sogno, è carico di debiti e ha fiducia solo in cose reali come la vita nei campi e il lavoro dei contadini. Anzi, coltiva un solo sogno, quello di costruire un pozzo in una regione che tutti gli altri considerano arida e priva d’acqua. Solo alla fine, quando il giovane ritorna dal servizio militare e scopre che il libro che ha pubblicato a sua e spese ha avuto come unico lettore il padre, nasce fra i due un vero legame, tanto che il figlio s’impegna nella costruzione del pozzo abbandonato dal padre. È una sorta di apologo morale teso alla ricostruzione dei legami fra le generazioni e al recupero di quella cultura contadina che sembra destinata ad essere travolta dalla modernità. Il regista conferma l’attenzione per la fotografia, sua prima passione che ha prodotto anche alcune pregevoli esposizioni, e maneggia da maestro un gruppo di attori poco noti a livello internazionale, quanto perfetti a quello professionale. In poche parole un film di grandissimo spessore il cui autore si afferma, ancora una volta, come uno dei grandi del cinema mondiale. 


I premi

Taccheggiatori 2Concorso

Palma d'oro: Manbiki kazoku, (Taccheggiatori) regia di Hirokazu Kore'eda

Gran premio speciale della giuria: BlacKkKlansman, (L’uomo nero del KKK) regia di Spike Lee

Premio della messa in scena a Paweł Pawlikowski per Zimna wojna (Guerra fredda)

Premio della sceneggiatura a Alice Rohrwacher per Lazzaro felice ex-aequo con Nader Saeivar e Jafar Panahi per Trois Visages (Tre volti) di Jafar Panahi

Premio dell’interpretazione femminile a Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy

Premio dell’interpretazione maschile a Marcello Fonte per Dogman di Matteo Garrone

Premio della giuria a Capharnaüm (Cafarnao) di Nadine Labaki

Palma d'oro speciale a Jean-Luc Godard per Le livre d'image (Il libro dell’immagine)

Un Certain Regard

Premio Un Certain Regard a Gräns (Confine) di Ali Abbasi

Premio speciale della Giuria a Chuva é cantoria na aldeia dos mortos (I morti e gli altri) di João Salaviza e Renée Nader Messora

Miglior regia a Sergei Loznitsa per Donbass

Miglior interpretazione maschile a Victor Polster per Girl (Ragazza) di Lukas Dhont

Miglior sceneggiatura a Meryem Benm'Barek per Sofia di Meyem Benm’Barek

Settimana Internazionale della Critica

Gran Premio Settimana Internazionale della Critica a Diamantino di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt

Premio Louis Roederer per la rivelazione a Félix Maritaud per Sauvage (Selvaggio) di Camille Vidal-Naquet

Premio SACD a Kona Fer I Stríð (Una donna in guerra) di Benedikt Erlingsson

Aiuto della Fondazione Gan per la distribuzione a Sir (Signore) di Rohena Gera

Premio Leica scoperta del cortometraggio a Ektoras Malo: I Teleftea Mera Tis Chronias (Hector Malot – L’ultimo giorno dell’anno) di Jacqueline Lentzou

Premio Canal+ del cortometraggio a Un jour de mariage (Un giorno di matrimonio) di Elias Belkeddar

Quinzaine des Réalisateurs

Premio Art Cinéma a Climax (Climax) di Gaspar Noé

Premio Europa Cinema Label a Troppa grazia di Gianni Zanasi

Premio SACD a En liberté! (In libertà!) di Pierre Salvadori

Premio Illy per il cortometraggio a Skip Day (Salta il giorno) di Patrick Bresnan e Ivete Lucas

Cinéfondation

Primo premio a El Verano (L’estate) di Léon Eléctrico di Diego Céspedes

Secondo premio a Kalendar (Calendario) di Igor Poplauhin

Terzo premio a Inanimate (Inanimato) di Lucia Bulgheroni

Altri premi

Caméra d'or a Girl (Ragazza) di Lukas Dhont

Premio Fipresci:

-      Concorso: Buh-Ning (Ardente) di Lee Chang-Dong

-      Un Certain Regard: Girl (Ragazza) di Lukas Dhont

-      Settimana Internazionale della Critica: Egy Nap (Un giorno) di Zsofia Szilagy

Premio della Giuria Ecumenica a Capharnaüm (Cafarnao) di Nadine Labaki

-      menzione speciale a BlacKkKlansman, (L’uomo nero del KKK) di Spike Lee

L'Œil d'or Jury: La strada dei Samouni di Stefano Savona

-      menzione speciale a Libre (Libero)di Michel Toesca e The Eyes of Orson Welles (Gli occhi di Orson Welles) di Mark Cousins

Palma d’oro transessuale a Girl (Ragazza) di Lukas Dhont

Palma d’oro canina a l'intero cast a quattro zampe di Dogman di Matteo Garrone

Gran premio della giuria al pechinese immaginario di Diamantino di Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt

Premio alla migliore colonna sonora a Roman Bilyk, German Osipov e i Zveri per Leto (L’estate)di Kirill Serebrennikov

Trofeo Chopard per la rivelazione femminile a Elizabeth Debicki, per la rivelazione maschile: Joe Alwyn

Premi speciali

Carrosse d'Or a Martin Scorsese