28° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier - Pagina 3

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28° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier
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Giorni d'agosto
Dies d'agost (Giorni d’agosto) del catalano Marc Recha è un brutto pasticcio intellettualistico in cui due fratelli, lo stesso regista e il suo gemello, si aggirano per la campagna su un percorso a cui la loro sorella offre l’appoggio della voce fuori schermo. Dovrebbe essere una ricerca sulle origini alternata alla rivisitazione dei luoghi in cui si sono svolte alcune battaglie della guerra di Spagna (1936 - 39). Sequenze assai misteriose, come quelle che marcano la scomparsa e ricomparsa di uno dei due, si alternano ad immagini quasi turistiche di un paesaggio tanto affascinante da essere quasi inquietante. In altre parole, è un film personale al punto da essere quasi incomprensibile.
Sempre vivu! (Sempre vivo!), opera seconda dell’attore Robin Rennucci (un centinaio di titoli all’attivo in venticinque anni di carriera) è una commedia ambientata in un piccolo villaggio corso, dominato da decenni da una sorta di sindaco – padrone con manie di grandezza, come quella di far costruire un teatro in mezzo alla campagna. Quando il progetto sta per essere consacrato dalla firma del ministro competente, ecco arrivare l’intoppo sotto forma d’infarto che uccide il vulcanico amministratore. E’ gioco forza fingere che il boss non sia morto è firmare l’accordo e così si fa, anche contro la volontà di uno dei figli, autonomista e tradizionalista convinto. Solo che il trapassato tale non è ed eccolo risorgere a metà degli intrighi, con gli equivoci del caso. Il film è piatto nella regia, ben poco interessante nello stile, volgare in non pochi momenti.
Le Dernier Homme (L’ultimo uomo) del senegalese Ghassan Salhab è, quantomeno all’origine, un film televisivo che trasporta il mito di Dracula in quel di Beiruth dove si stanno verificando una serie d’omicidi le cui vittime sono totalmente dissanguate. L’assassino seriale è un rispettabile medico che alterna momenti di lucidità perbenista, immersioni subacquee e omicidi attuati morsicando al collo le vittime e succhiandone il sangue. Forse era nelle intenzioni dell’autore sviluppare una metafora sulla classe media libanese, vista come profittatrice della povera gente, se questo era l’obiettivo, il risultato fallisce clamorosamente lo scopo, licenziando una storiaccia mal girata e spesso incomprensibile.
Karov la bayit (Vicino a casa), delle israeliane Dalia Hager e Vidi Bilu, è un film straordinario su due diciottenni chiamate a adempiere il servizio militare in una compagnia a cui è affidata la sorveglianza dei quartieri vicini alla città vecchia di Gerusalemme. Alcune di queste ragazze – soldato accettano con entusiasmo il lavoro, altre, insofferenti alla disciplina e più disincantate, cercano con ogni mezzo di scansare i compiti meno graditi, imboscarsi, approfittare del lavoro per fare compere o cercare amanti. E’ il quadro di una giovinezza che, come recita il titolo francese, non è simile a nessun’altra e che, in realtà, priva queste giovani di un momento fondamentale nella loro vita. La regia si muove con una semplicità narrativa sapientemente organizzata e ci consegna un’opera dolente e d’altro livello. Il film ha vinto il premio del circuito dei cinema d’essai al recente Forum del Cinema Giovane di Berlino.
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Vicino a casa
Jimmy della collina d’Enrico Pau nasce da un soggetto di Massimo Parlotto e racconta la storia di un diciottenne che rifiuta l’ipotesi di un futuro da operaio, come suo padre, e un presente fatto di piccoli furti, alcol e droghe. Un colpo andato male lo fa finire in carcere minorile, dove è costretto ad affrontare nuove forme di violenza. Per sfuggire alla prigione accetta di andare in una comunità rurale, guidata da un religioso, ma anche lì non troverà pace all’inquietudine che lo brucia. Questo è il secondo lungometraggio di un regista che ha esordito con un’opera promettente sul mondo della boxe (Pesi leggeri, 2001). Il nuovo lavoro conferma solo in parte quelle promesse e lo fa con uno stile nervoso, quasi documentaristico e una costruzione narrativa assai ben orchestrata. Nuoce, invece, il tono eccessivamente teso, che marca il personaggio principale, in uno con un insufficiente approfondimento delle ragioni che lo muovono.
Les arêtes du coeur, opera prima del giovane regista francese, d’origine marocchina, Hicham Ayouch, è un dramma sociale ambientato a Tafdnar, un piccolo villaggio di pescatori berberi vicino ad Agadir. Qui la vita si è fermata sette anni prima, il giorno in cui la maggior parte degli uomini è morta in mare. Da allora nessuno è più uscito a pescare e il villaggio sopravvive male con la raccolta dei molluschi. La situazione esplode, quando le onde gettano sulla spiaggia il braccio di un annegato e tutte le vedove se lo contendono quale misero, unico reperto del marito morto. Mentre esplode questo triste conflitto, un giovane orfano tenta di convincere gli altri a riprendere la pesca; ci riuscirà a prezzo della vita della donna che lo ha preso con se come un figlio. Il film segue la strada di quel cinema magrebino che mescola realismo e fantastico, paesaggi di struggente bellezza e povertà. E' una miscela emozionante e affascinare che cattura l’attenzione e offre non poche informazioni sulla vita di questi dannati della terra.