Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival

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Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival
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Image 43mo Arancia d’Oro Film Festival d’Antalya – 2° Eurasia Film Festival.
Il Festival del cinema d’Antalya, città del sud anatolico turco, ha almeno due anime. La prima riguarda la sezione dedicata al film nazionale, che si tiene da ben 43 anni avendo acquistato, con il passare degli anni un’attrazione molto forte per i cineasti di questo paese, anche grazie a cospicui premi in denaro che partono da oltre 150 mila euro per il miglior film scendendo, in ogni caso, non sotto i 10 mila euro per le categorie quali migliore musica. Da due anni a questa parte, poi, alla competizione nazionale si è affiancato un festival, diviso in più sezioni, denominato Eurasia la cui ragione dovrebbe essere quella di gettare un ponte fra i cineasti dei due continenti. Anche in questo caso sostanziosi assegni accompagnano la consegna delle statuette dorate e argentate. In poche parole, una rassegna che dispone di consistenti risorse economiche, come hanno dimostrato le feste che hanno accompagnato la presentazione di tutti i film in concorso. Sono denari che arrivano da una lista di sponsor, in testa la società tedesca di supermercati real,-, anche se non mancano gli apporti della municipalità, una delle più ricche del paese grazie al richiamo turistico della provincia, una sorta di Rimini asiatica. La parte nuova della rassegna si è rivelata quella più debole e, anche se non sono mancati i titoli interessanti, è stata caratterizzata, in maggioranza, da opere già viste in altre manifestazioni internazionali come Cannes, Karlovy Vary, Berlino e via elencando.

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Destino
Veniamo, dunque, al settore nazionale segnato da quattro opere di buon interesse. La palma della vittoria è andata a Kader (Destino) Zeki Demirkubuz, un regista fra i più indicativi della nuova generazione di cineasti turchi - autore di film come Musumiyet (L’innocenza, 1997), Üçüncü sayfa (Terza pagina, 1999) e Yazgi (Destino, 2001). In quest’ultimo lavoro ritorna ai temi a lui cari proponendo l’antifatto del testo del 1997. Il discorso, quasi ossessivo, ruota attorno al sogno della donna, la sua fascinazione impossibile, la follia che induce la sua presenza o la sua assenza. E’ un tema già presente in C Blok (Blocco C, 1994), suo film d’esordio, e confermato, appunto, in Musumiyet. Un giovane gestore di un negozio di tappeti s’innamora perdutamente di una ragazza entrata, quasi per caso, nella sua bottega. Il sogno del possesso di quella donna diventa per lui una follia che lo induce a rovinarsi economicamente, distruggere il matrimonio e a girovagare inseguendola anche dopo aver scoperto che è una sorta di prostituta, amante di un assassino ora in prigione e che lei segue da carcere in carcere. Sono due amori impossibili, quello suo per una figura femminile, più sognata che reale, e quello di lei per il detenuto; passioni spinte sino ai gesti inconsulti e alla distruzione fisica e morale. Il film è pieno di momenti ripetitivi, quasi che il regista non sia convinto di aver esposto in modo sufficientemente chiaro il suo assunto. E’ un’opera dall’equilibrio precario, ma molto ben girata e stilisticamente solida. Rimane la sorpresa nel constatare una sorta d’immaginario cattolico, in un cineasta, dal passato di militante politico di sinistra, si spinge sino a guardare alle figure femminili come a un ricettacolo di tentazioni demoniche, albergo di vizi e perdizione per gli uomini che se ne lasciano attrarre.
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Climi
Sulla stessa linea d’analisi psicologica dei rapporti uomo – donna si muove anche l’opera più interessante presente nella selezione e già vista al Festival di Cannes, ove ha vinto il premio dei critici internazionali (FIPRESCI): Iklimler (Climi) di Nuri Bilge Ceylan, un autore che incarna una delle voci nuove del cinema mondiale avendo solo quattro lungometraggi all’attivo: Uzak (Distante, 2002), Mayis sikintisi (Nubi di maggio, 1999), Kasaba (La cittadina, 1998). Questo suo ultimo lavoro è fedele allo stile antonioniano che predilige: lunghi piani - sequenza, poche parole, immagini perfette di un paesaggio freddamente indifferente alle turbe emozionali dei personaggi. E' una storia che ruota attorno alla crisi sentimentale ed esistenziale fra un professore d’arte e una direttrice artistica televisiva. I due vanno in vacanza al mare e lì esplode il conflitto, lei tenta di ucciderlo e suicidarsi, poi lo lascia. Passano i mesi e l'uomo è sempre più solo e melanconico, neppure un ritorno di fiamma con un’ex – amante, per la verità più simile ad uno stupro che ad un atto d’amore, serve a lenire la malinconia e il dolore. La compagna, nel frattempo, ha accettato di seguire la lavorazione di una serie tv che si gira all’interno del paese, in zone gelide e innevate, per cui lui parte alla sua ricerca e, quando la trova, riesce a convincerla di essere cambiato e pronto a trattarla come un essere umano autonomo e non come una sua proprietà. La donna si lascia persuadere, ma bastano pochi gesti prima del ritorno ad Istanbul, a farle capire che nulla è mutato e che il compagno è sempre il maschilista, mentitore e soprafattore di sempre. Il film termina su un primissimo piano della donna, dal cui viso traspare l’incertezza sul da fare. E’ un’opera meravigliosa per il modo in cui dissemina piccole tracce, ma pesanti come macigni, sul carattere dei due protagonisti. E’ uno dei discorsi più intelligenti femministi visti negli ultimi anni, una perorazione a favore dell’indipendenza delle donne che non dimentica, anzi evidenzia, il dolore, la melanconia, l’insicurezza psicologica degli uomini. Un film perfetto con una fotografia eccezionale – il regista viene da questa professione – e con un amore per la protagonista, compagna di vita del cineasta, che traspare da ogni inquadratura che gli è dedicata. Un’opera forte ed espressivamente straordinaria. Ad Antalya ha vinto ben cinque premi: miglior regia, migliore attrice non protagonista, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior lavoro in laboratorio ( ex – aequo con Takva di Özer Kizlitan).