35° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier

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Sito ufficiale del festival: http://www.cinemed.tm.fr/

35° Festival du Cinéma Méditerranéen de Montpellier

locandina Cinemed2013Il Festival del cinema Mediterraneo di Montpellier arrivato quest’anno alla 35ma edizione. E’ una manifestazione decisamente importante che si rivolge alle cinematografie dei paesi che si affacciano sul mediterraneo. Vale dire un arco assai ampio di nazioni che spaziano da Israele al Portogallo, dalla Turchia alla spagna passando per Italia, Francia e ex Iugoslavia. Il primo titolo visto quest’anno viene dalla Spagna ed è Stockholm, secondo lungometraggio dello spagnolo Rodigo Sorogoyen: E’ un’opera che potremmo definire minimalista, nel senso che racconta una vicenda in cui si stenta a cogliere fatti straordinari, ma che punta interamente sulla psicologia dei personaggi.

Una ragazza e un giovane s’incontrano in una notte come tante, usciti da una discoteca lui la fa oggetto di una corte assillante sino a convincerla a salire in casa sua e a fare l’amore con lui. Tutto normale, apparentemente, se non che l’indomani mattina, lui vorrebbe metterla alla porta come è solito fare con le donne che gli concedono una notte di piacere, ma lei si rifiuta di andare via, vuole qualche cosa di più: ha creduto alle sua parole quando gli ha promesso di essere innamorato di lei ed ora vuole una storia vera, un legame forte e stabile. In breve dalla discussione educata si passa agli sintoni, agli scontri fisici sino al momento in cui la donna, disillusa sino in fondo di uccide lanciandosi nel vuoto. StokolmTesti di questo tipo poggiano quasi interamente sulle spalle degli interpreti, in particolare di Aura Garrido – premiata al Festival di Malaga quale miglior interprete proprio per questo film – che riesce a dare al suo personaggio un’intensità interamente costruita su minimi movimenti del corpo e sufi sguardi. Film minimalista, si è scritto, ma opera tutt’altro che banale in cui serpeggiano umori acri e profondi nonché dure critiche alla maschilismo e alla condizione minoritaria delle donne. Un piccolo film con un grande spessore oltre la superfice.
Qualche cosa di simile, anche se con risultati complessivamente assai meno intensi capita anche nel croato One SchotHitac opera prima di Robert Orhel. Qui a essere messe a confronto sono due figure femminili: una commissaria di polizia non più giovanissima e una studentessa universitaria d’economia. La prima ha una relazione con un uomo sposato, rimane incinta e l’amante l’abbandona preferendo a lei la famiglia. Anche l’altra attende un figlio da un uomo che non ne vuole sapere. Una notte, la seconda, scherzando con una pistola trovata in casa di un’amica fa partire un colpo che uccide un passante. Ora è la poliziotta ad indagare sul delitto e a sospettare la più giovane. Dopo varie schermaglie quest’ultima decide di confessare. Il film lascia le due protagoniste mentre stanno andando in macchina alla stazione di polizia. E’ un finale aperto che non preclude a nessuna ipotesi. Forse la commissaria insabbierà tutto toccata dal dramma della giovane. Forse farà il suo dovere sino in fondo e la studentessa finirà in prigione. Anche in questo caso un perso importante sulla riuscita del film lo portano sulle spalle le due attrici, ma nessuna di loro raggiunge l’intensità e la forza dell’interprete spagnola di cui abbiamo appena parlato.
Il terzo film in concorso è stato ParadjanovParagjanov diretto da Serge Avedikian e Olena Fetisova e coprodotto da Ucraina, Francia, Georgia ed Armenia, paesi dove ha lavorato il regista Sergej Iosifovič Paradžanov (1924 – 1990). E’ un’opera biografica che racconta in modo originale la vita di un artista più volte vessato e incarcerato dal regime sovietico e che sopportò incredibili vessazioni senza piegarsi, con la sua aria bonaria e paciosa, ai diktat della censura. Come cineasta ebbe la stima di autori importanti come Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkovskij e Federico Fellini. Questi attestati di stima erano basati sulla stima, che gli era universalmente riconosciuta di suscitare emozioni e visioni sorrette da una vena poetica davvero unica. Il film ricostruisce, in modo apparentemente rapsodico alcuni momenti chiave della vita di questo cineasta. Vi si racconta la realizzazione di Tini zabutykh predkiv, meglio noto col titolo internazionale Shadows of Forgotten Ancestors (Le ombre degli avi dimenticati, 1965) e Sayat Nova alias Color of the Pomegranate (Il colore del melograno, 1968), opere portate a termine fra incredibili difficoltà e ostilità burocratiche. Il secondo film citato, in particolare, racconta la vita di un altro poeta: Sayat Nova. Nel complesso il film segue fedelmente la vita e la poesia di questo cineasta e ne sottolinea la difficoltà a adattarsi al regime sovietico, anche se, su questo versante mostra alcune reticenze a denunciare sino in fondo un regime che arrivava a far fare il bagno in massa ai detenuti per cogliere l’eccitazione di quelli che venivano poi denunciati come omosessuali. Per questo reato il cineasta passò vari anni in carcere e questo ne minò la salute e ridusse la sua capacità creativa.

quai d-orsai

Fuori dalla competizione è stato presentato anche l’ultimo film di Bertrand Tavernier: Quai D’Orsai. Il titolo del film cita l’indirizzo del Ministero francese degli Affari Esteri e il regista ha portato sul grande schermo la prima parte del racconto fumetti omonimo di Abel Lanzac e Christophe Balin. Un testo che irride l’incapacità, il pressapochismo e le manie che marcano quest’importantissimo ganglio della diplomazia mondiale. Il modello è Dominique de Villepin, ministro durante la presidenza di Jacques Chirac. Si ride amaro e ci si chiede in quali mani siano depositate le sorti del mondo. Un film fortemente ironico, che ha colpito soprattutto il pubblico di casa che vi ha colto al volo i numerosi riferimenti a noti personaggi politici d’oltralpe. Un testo simpatico e a suo modo abbastanza coraggioso, ma che non aggiunge nulla ad un regista che rimane fra i maggiori del panorama mondiale e a un intellettuale le cui analisi sul cinema americano, in particolare sull’western, restano tutt’ora basilari.

U.R.


SeptemberIl cinema greco di qualità si sta muovendo, con sempre maggior rigore, sul terreno del minimalismo narrativo. Lo scorso anno, ad esempio, abbiamo visto e ammirato, To agori to fagito tou pouliou (Il ragazzo che mangiava mangime per uccelli), opera prima di Ektoras Lygizos, quest’anno è la volta di Penny Panayotopoulou che, in September (Settembre), racconta la storia di Anna, una donna sola che lavora all’Ikea e che ha come unico compagno di vita un cane a cui dedica attenzioni maggiori di quelli che riserva agli esseri umani. Quando l’animale muore, lei piomba in un lutto insuperabile che tenta di arginale con l’affetto, corrisposto in modo parziale, verso una vicina di casa nel cui giardino ha sepolto la carcassa del quadrupede. In realtà le invidia la condizione familiare della donna, la tallona in modo oppressivo e, quando il marito dell’amica la caccia di casa, si ritrova ancor più sola e disperata di prima.  Per buona parte del film la regista semina indizi che sembrano portare a una passione lesbica, ma li contraddice utilmente approfondendo sempre più la psicologia e la solitudine della protagonista. Una sola nota parzialmente stonata: un finale in cui la donna sembra ritrovare la gioia di vivere dall’incontro con un cane randagio pronto a prendere il posto di quello defunto. Scarto parziale, in quanto il fatto svela per intero tendenze e disperazione umana della protagonista che cerca solo un briciolo di calore. Opere come questa richiedono interpreti di grande capacità e Kora Karvouni, con il suo fisico filiforme e lo sguardo intenso riesce a dare alla storia una complessità e uno spessore davvero straordinari. Un film apparentemente flebile, ma che approfondisce l’abisso psicologico in cui vive una donna che non ha più alcun rapporto con l’umanità che la circonda.


Onli in New YorkOnly in New York. Peace after Mariage (Solo a New Work. Pace dopo il matrimonio) dell’attore e regista d’origine giordana Ghazi Albuliwi è una piacevole commedia basata sul turbolento incontro fra un ragazzo palestinese e una giovane israeliana. Lei cerca un marito con cui contrarre un matrimonio del tutto formale, indispensabile ad ottenere la cittadinanza american. Lui deve fare i conti con un’enorme sessualità repressa (i suoi compagni abituali sono le bambole gonfiabili e i film pornografici) e con l’insistenza dei genitori che voglio si sposi al più preso. Ovviamente fra i desideri di parenti e amici non è affatto compresa l’unione con una cittadina d’Israele. Nonostante queste difficoltà, non poche delle quali all’origine di situazioni decisamente comiche, i due finiranno per amarsi e mettersi assieme. E’ una piccola pace fra ebrei e arabi realizzata con molta più buona volontà che realismo. Il film rende omaggio a due persone diverse e coraggiose costruendo un universo di speranza che ha ben poche possibilità di essere realizzato realmente.

Funeral at noonLavaya Bazaharaim (Funerale a mezzogiorno) dell’israeliano Adam Sanderson mette al centro del discorso, ambientato in anni cinquanta non meglio precisati, una tragica solitudine femminile. Quella della giovane e gracile moglie di un corpulento meccanico a cui si è legata più per quieto vivere che per amore. Il rapporto con il marito, un uomo pratico sino a rasentare l’insensibilità, la lascia del tutto insoddisfatta, così quando le si presenta l’occasione di gettarsi fra le braccia di un bel militare di passaggio lei non esita un secondo. L’amplesso, spiato da un ragazzino suo vicino di casa che lei aveva in qualche misura acceso, ha un esito drammatico: l’adolescente fugge inorridito e deluso e muore cadendo in una caverna mal celata. Il funerale del morticino si celebrerà a mezzogiorno, ma già poche ore dopo la donna, armata di un paio di valige, si sta allontanando dal domicilio coniugale. Il film ritrae in modo realistico il panorama di un piccolo villaggio rurale dominato da pregiudizi e antipatie verso che vi arriva, tale è la protagonista del film, venendo dal di fuori della cerchia di conoscenze e parentele. E’ un bel testo su diffidenza e pregiudizi rurali che ha il solo difetto di non offrire alcuna motivazione all’ostilità di vicini e compaesani che vada oltre una generica diffidenza verso gli sconosciuti percepiti, in modo quasi automatico, come nemici. In questo senso la figura più interessante e, seppur parzialmente, motivata è quella del preside della scuola, uso trattare gli alunni come reclusi o militari che debbono obbedire a qualsiasi ordine e ai quali vanno impartite disposizioni a voce altissima. E’ questo un labile segno di un tema, quello sulla militarizzazione strisciante dello stato d’Israele, che in non poche occasioni ha superato i limiti della pur doverosa cautela che segna una nazione in permanente stato di guerra.

U.R.


Cest eux les chiensC’est eux les chiens (I cani sono loro) del marocchino Hicham Lasri è un film politicamente forte, ma espressivamente non del tutto convincente. Majhoud è stato imprigionato nel 1981 con l’accusa di aver (forse) partecipato alle grandi proteste popolari innescate dall’aumento vertiginoso - oltre il cinquanta per cento – dei prezzi di farina, olio e burro, generi alimentari fondamentali per la cucina araba. A quanto veniamo a sapere lui era tutt’altro che un rivoluzionario, anzi preferiva la bottiglia e le donne facili a qualsiasi forma d’impegno politico. In qualsiasi modo siano andate le cose, in galera c’è rimasto sino ad oggi, magari passando anche per ospedali psichiatrici ove ha subito devastanti elettroshock. Quando lo incontriamo vaga sconclusionatamente per le strade e s’imbatte in una troupe televisiva i cui responsabili, mancando argomenti più stimolanti, decidono di seguire quello strano personaggio che non ricorda neppure il suo nome, ma solo il numero di matricola ma è caparbiamente determinato a ritrovare moglie e figlio. A quest’ultimo vuole portare un regalo: una rotella d’equilibrio per una biciclettina che gli aveva regalato da bambino e questo senza rendersi conto che il figlio è ormai un quarantenne. Inoltre la famiglia ha preso tutt’altra strada dopo che le autorità hanno inviato un certificato di morte del detenuto, cosa che sembra rientrasse nelle abitudini di repressori propensi a far sparire dalla scena persone che ritenevano scomode. Il film è tutto in questo lunga ricerca, con telecamera al seguito, di un’identità. Un tema non privo d’interesse, che il regista compromette in parte con un andamento nervoso e ondivagante delle immagini, sino al limite del fastidio fisico. Più che ad un racconto correttamente organizzato e politicamente motivato sembra di assistere a riprese effettuate su un qualche corpo in balia delle onde. In poche parole ottime intenzioni, esecuzione discutibile.


Rang and tattesSfondo decisamente sociale e forte denuncia politica anche quelli scelti dall’egiziano Ahmad Abdalla per Farsh w ghatta (Stracci e brandelli). Il film parla parla, non solo metaforicamente, degli stracci che marcano il quartiere della spazzatura de Il Cairo, mentre i brandelli sono quelli faticosamente messi assieme da un evaso dal carcere che ha la ventura di assistere all’uccisione di un militante copto. Nei primi giorni della protesta popolare che portò alla caduta di Hosni Mubarak ci fu l’apertura, apparentemente immotivata e caotica, delle carceri. In questo modo ritornarono in circolazione non solo i detenuti politici, ma anche migliaia di criminali comuni. L’ex presidente Mohamed Morsi, ora sotto processo, è stato accusato per aver dato il via a quella fuga di massa, su suggerimento del movimento estremista Hamas, con lo scopo di procurarsi manovalanza ben disposta a servire le mire dei Fratelli Mussulmani. Questa è l’accusa che gli è stata rivolta dai militari, anche se non tutti gli aspetti della vicenda appaiono sufficientemente illuminati. In ogni caso ciò che ne derivò fu il via libera a migliaia di violenti che si impadronirono di non poche istituzioni pubbliche e costrinsero gli abitanti di numerosi quartieri alla creazione di gruppi autodifesa. A pagare il prezzo delle violenze furono soprattutto i copti il cui quartiere, in buona parte adibito a recupero dell’immondizia, fu devastato a più riprese con centinaia di morti e feriti. Uno degli evasi assiste casualmente alla morte di un militante copto che ha registrato con un telefonino le fasi più drammatiche delle violenze e il film segue l’odissea di questo poveraccio che ha deciso di consegnare una lettera ai familiari del morto e far pervenire ai mezzi d’informazione il video girato dal militante. In quelle immagini ci sono le prove delle responsabilità di chi ha aperto strumentalmente le porte delle carceri. Il breve filmato arriverà a destinazione, purtroppo nello stesso momento in cui squadracce criminali, appoggiate da polizia ed esercito, compiranno l’ennesimo massacro uccidendo donne e bambini. Fra i morti ci sarà anche il giovane che aveva generosamente tentato di far conoscere la mondo la verità. Il film, costruito come un reportage semi amatoriale, ha una forte valenza politica, ben superiore alla sua consistenza estetica, ma sarebbe ingenuo e sbagliato sperare nel contrario in momenti politicamente caldi come quelli che ha attraversato e sta attraversando il paese del Nilo.

Les impecablesMolto interessante anche Kusursuzlar (Le impeccabili) del turco Ramin Matin. Il progetto del film è stato fra i vincitori delle Borse d’Aiuto 2010 offerte dal Festival ad autori che si accingevano a dirigere film, ma non avevano ancora trovato le risorse necessarie. La storia si svolge in una località balneare del sud della Turchia dove due sorelle vanno a passare una vacanza nella casa ereditata dalla madre. Lentamente, momento dopo momento scopriamo i contrastanti sentimenti che attraversano le due donne e danno vita a un grumo di odio e amore, complicità e avversione, competitività e solidarietà. Tutto nasce, ma sarà rivelato solo nell’ultima sequenza, da rancori passati – una delle due è andata a vivere per lungo tempo negli Stati Uniti e non è ritornata neppure per il funerale della madre – ma e soprattutto per ciò che è capitato all’altra non molto tempo prima di quello della vacanza. Aggredita da un uomo che l’ha ferita e violentata è stata salvata dalla sorella che ha pugnalato a morte lo stupratore. Questo terribile ricordo ha innestato nelle due un groviglio di sentimenti contrastanti che ora sfociano in decine di piccoli episodi come la scelta dell’una di darsi ad uno sconosciuto in una cabina balneare senza proferire parola e trasformando l’incontro sessuale in qualche cosa di molto simile a uno scontro fisico. O la scelta dell’altra di mettere in imbarazzo la sorella facendole credere che il vicino di casa, un prestante proprietario di un bar, ha un debole per lei, mentre si tratta di un giovane già felicemente accasato. Questo quadro complesso e, a tratti, contradditorio è teso a far emergere, sono parole del regista, il quadro della condizione della donna in Turchia. Lodevole intenzione colta solo parzialmente, nel senso che il groviglio delle psicologie è talmente forte e focalizzato da relegare in secondo piano qualsiasi altro elemento, anche quelli di maggiori peso simbolico. In definitiva, un film interessante e originale ma che non coglie tutti gli aspetti che erano nelle intenzioni del suo autore.
U.R.


Ladder to DamascusSoullam ila Dimashk (Una scala a Damasco) del siriano Mohamed Melas è il classico film - metafora di una complessa situazione politica e sociale. In una palazzetto della capitale siriana si ritrovano vari artisti e intellettuali, ciascuno dei quali affittuario di una stanza. C’è l’attrice agli esordi, arrivata nella capitale per frequentare la Scuola d’arte drammatica, la scultrice di opere fortemente simboliche (una figura dietro le sbarre che stacca la testa dal corpo e la protende oltre la recinzione), il giovane regista alla prime armi, lo scrittore perseguitato dalla polizia. Un universo che ben incarna le forze vive, compresse e umiliate dal lungo regime di Bashar al-Asad e, prima di lui, dal padre Ḥāfiẓ al-Asad. Un dittatura legata al partito arabo socialista Baʿth e al gruppo religioso alawita, una variante del ceppo mussulmano sciita che controlla un paese in larga maggioranza sunnita. Questo regime ferocemente oppressivo è ora coinvolto in una guerra intestina su cui hanno voce grandi potenze come Russia, Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Iran. In questo clima intellettuali e artisti sono sempre stati perseguitati per il solo fatto di voler cantare al di fuori del coro, vale a dire rifiutarsi di magnificare le gesta dei potenti. Non meraviglia dunque che il film si concluda plasticamente con un inno alla libertà lanciato da una sorta di base umana che regge una scala posta sul tetto della casa e su cui si è arrampicato uno degli inquilini. Film simbolico, si è detto, generoso e grezzo quanto è lecito attendersi da un’opera più importante per i temi che agita che non per la maniera in cui li organizza.


L arbitroLa sezione competitiva comprendeva anche il film italiano L’arbitro di Paolo Zucca che ha inaugurato le Giornate degli autori di Venezia ed è entrato anche nel circuito commerciale. Riportiamo il giudizio che ne ha dato il nostro Furio Fossati nella sua recensione all’uscita del film. Il regista per la sua opera prima è andato sul sicuro sviluppando l’omonimo cortometraggio, vincitore nel 2009 del David di Donatello e del Premio Speciale della Giuria a Clermont-Ferrand, il più importante festival del cortometraggio in Europa. Bianco e nero in ambedue i casi, forse più interessante il corto in cui un budget inesistente aveva costretto il quarantunenne autore a inventarsi inquadrature più originali per ovviare alla mancanza di location e per l’utilizzo di apparecchiature di ripresa meno sofisticate di quelle ora a sua disposizione. Una per tutte, quando i tifosi inferociti guardano verso l’obiettivo riempiendo coi loro volti furibondi scena che nel film attuale è sostituita da una più semplice e meno efficace inquadratura del gruppo sullo sfondo del campo di calcio. La scelta di mantenere come direttore di fotografia Patrizio Patrizi ha comunque permesso un ulteriore coesione stilistica e narrativa tra i due lavori. Partiamo proprio dalle immagini, in un espressivo bianco e nero basato su dialoghi ed inquadrature che ricordano nello sviluppo visivo il Cinico TV di Ciprì e Maresco con un uso deformante delle immagini, ma usate unicamente per disegnare un approfondito e credibile ritratto di una Sardegna che viene raccontata come un’isola dura, selvaggia e piena di segreti difficile da penetrare. Vi è la scelta di considerare il lungometraggio come un tutt’uno col corto di cui il film è un prequel di quanto visto nel corto. Alcune scene sono prese pari pari, come il dialogo tra l’arbitro ed il presidente da cui può dipendere il suo futuro, la partita che deciderà l’esito del campionato, la festa nel paese coi sapori della sagra: scelte meditate di Zucca per dare unione ai suoi due lavori. Il titolo potrebbe ingannare poiché, pur essendo uno dei personaggi principali, l’arbitro è solo parte di una storia fatta di faide, di violenza, di sopraffazione sociale e morale. E’ importante il continuo scontro tra il proprietario terriero, giocatore e sponsor del Montecrasto, con i suoi contadini trattati come servi che giocano nel Atletico Pabarile; la squadra del ricco latifondista è sempre tra le prime della terza categoria, l’altra da sempre ultima. Questo ironizzare sul mondo del calcio, cruccio e delizia di milioni di tifosi, è particolarmente riuscita e vuole dimostrare, riuscendovi, che non esiste luogo o categoria in cui questa malattia non crei dissapori anche drammatici. Paolo Zucca, coadiuvato dalla co-sceneggiatrice Barbara Alberti, all’interno della squadra degli eterni perdenti ha inserito le maggiori varianti e l’appoggio per lo sviluppo di una love story inesistente nel corto. L’allenatore non vedente, interpretato con grottesca bravura da Benito Urgu, con un’umanità che ha il suo coronamento nella scena finale e mai raccontato con pietismo, è il personaggio che più ci è piaciuto per l’illogicità apparente ma per la credibilità di situazioni all’estremo che nei campionati dilettantistici potrebbero accadere. A lui la sceneggiatura ha regalato alcune delle scene più belle, quali ad esempio le lezioni di tattica. Questo attore è un artista a 360 gradi che nella vita ha fatto proprio tutto, dal cantante di buon successo al cabarettista, dall’intrattenitore in feste di piazza al perfetto complice di Chiambretti in Prove tecniche di trasmissione, dall’attore al tuttofare nel Circo Armando dove ha trascorso vari anni della sua vita dopo essere scappato di casa a diciotto anni; lui considera questa esperienza come la sua università dove ha imparato tutto sulla comicità. Jacopo Cullin, attore qui alla sua prima prova importante, vive in maniera perfetta il suo ruolo di emarginato andato lontano assieme alla famiglia sempre irrisa dai compaesani e tornato con le pive nel sacco. Per lui tutto cambia in meglio perché sa giocare al calcio e questo lo trasforma in un eroe. Qui il regista avvia una vera denuncia sul mondo del calcio o genericamente dello sport e dello spettacolo in cui tutto è possibile. Franco Fais interpreta sia nel corto che nel film lo stesso personaggio, il numero sei che perpetra la tragica faida familiare durante gli ultimi minuti della partita, sul campo, davanti a tutti. Mimo di grande bravura, col suo sguardo, duro e determinato, non ha bisogno di parole per essere inteso. Le storie sono tre: il tifo per le due squadre di terza categoria, la faida tra giocatori che porta alla morte, un principe del fischietto che non si accorge di essersi fatto corrompere e perde tutto. Stefano Accorsi, Geppi Cacciari e Marco Messeri sono un po’ deludenti, bravo come sempre Francesco Pannofino nel ruolo di un arbitro corrotto.
GirafadaLa passerella delle opere in concorso è stata chiusa da Girafada (come dire l’intifada della giraffa) del palestinese Rani Massalah. E’ un film ben fatto, ironico e fantastico in cui s’immagina che - nella zona sottoposta all’Autorità Palestinese, territorio che gli israeliani hanno trasformato in qualche cosa di simile a un ghetto circondato da alte mura – ci sia uno zoo che ospita anche una coppia di giraffe. Quando il maschio muore sotto le bombe degli aerei con la stella di Davide, la femmina entra in crisi e smette di mangiare anche se attende un cucciolo. Diventa allora necessario procurarle un compagno che l’aiuti a superare la solitudine. Si occupano di questo il veterinario che cura gli animali fra mille difficoltà, il figlio orfano che stravede per questi mammiferi, e una volenterosa fotografa francese. La missione sarà portata a termine rubando un maschio di giraffa da uno zoo israeliano e facendolo arrivare, attraverso mille ostacoli, in quello palestinese. Poco importa se il generoso veterinario finirà in prigione, ad attenderlo rimarranno la bella fotografa e il figlio. Nel film chi fa la figura peggiore, non poteva essere altrimenti, sono i militari di Tel Aviv e i coloni mandati a impiantare fattorie nei territori ex - palestinesi. Come capitava nei film di propaganda americana durante la seconda guerra mondiale, sono tutti brutti, violenti e stupidi. Questa prevedibile presa di posizione non compromette del tutto un racconto spiritoso, dolce e divertente. Come dire il classico film per famiglie da destinarsi alle programmazioni natalizie.

U.R.


poster turcoSezione Panorama

Anche per quest’anno il cartellone della 35° edizione del Festival ha previsto, accanto alla sezione competitiva, la sezione Panorama dedicata alle migliori produzioni recenti dei diversi paesi che affacciano sul Mediterraneo e che contribuiscono in modo sostanziale a dare corpo ad una visione quanto mai variegata della cultura cinematografica di questa vasta area d’Europa. Dei quattordici lungometraggi proposti in questa edizione quattro titoli, meritano particolare attenzione: Sen aydinlatirsin geceyi (Si illumina la notte) del turco Onur Ünlü, Despre oameni si melci (Lumache e uomini) opera seconda del romeno Tudor Giurgiu, Afrik’Aioli del francese Christin Philibert e Harraga Blues dell’algerino Moussa Haddad.
Onur Ünlü, appartiene alla seconda generazione di bravi cineasti turchi e propone il suo quarto lungometraggio  che ha per protagonista un impacciato, quanto strambo, barbiere trentenne che vive in una cittadina non ben definita dell’Anatolia, la cui comunità trascorre la propria esistenza in apparenza senza particolari emozioni. Monotonia e routine, tuttavia, vengono rotti da alcuni personaggi che il regista immagina dotati di poteri paranormali. Il protagonista Cemal, ad esempio, riesce a vedere ed a oltrepassare i muri, la giovane Yasemin, la sua amata, è in grado di levitare, mentre la venditrice ambulante di libri di poesia è in grado di fermare lo scorrere delle ore con il solo congiungere delle mani. E’ attraverso questi espedienti che il quarantenne regista costruisce la parabola discendente d’amore tra Cemal e Yasemin, fatta di sguardi malinconici, tragici, quieti e sospesi, alla cui fine, nemmeno le mani della venditrice di poesie nulla potranno. Un film originale, non certo per il vasto pubblico, dove realtà e finzione si intrecciano perfettamente e dove il tutto è supportato, come nella migliore filmografia turca, da una eccellente fotografia.
lumache e uominiTutt’altro tema è quello che ripercorre in modo gradevole e leggero il rumeno Tudor Giurgiu, al suo secondo lungometraggio. La storia di Lumache e uomini prende avvio da una vicenda realmente accaduta nella Romania del dopo Ceausescu, ovvero, l’acquisizione da parte di imprenditori francesi di una fabbrica automobilistica di stato, in via di fallimento, al fine di impiantarvi una produzione di lumache. Il film segue uno di questi dipendenti, (Andi Vasluianu), leader della protesta sindacale, la cui idea è quella di convincere i colleghi, solo trecento dei tremila lavoratori conserveranno il posto di lavoro, a donare più volte il proprio seme ad una banca dello sperma al fine di raccogliere i soldi necessari a superare l’offerta dei compratori stranieri. Il finale, neanche a dirlo, è agrodolce e vede gli operai intenti nella ricerca nella campagna assolata delle preziose lumache. Giurgiu conduce con buon ritmo e mano ferma il cast composto prevalentemente da attori non professionisti e sebbene debitore verso la più ben più nota commedia sociale inglese Full Monty - Squattrinati organizzati (1997) imprime al suo lavoro una buona dose di originalità.
afrik-aioli portrait w193h257Afrik’ Aioli del francese Christof Philibert è un film che sfida molte le regole, in particolare nel campo della scrittura. Girato in sole due settimane, con pochi soldi, senza particolari mezzi tecnici e una piccola squadra, confronta senza cadere in velleità documentaristiche e rimanendo saldamente ancorato al genere della commedia umoristica, due culture: quella senegalese e quella francese. Il viaggio che intraprende lo spettatore è quello che compie il protagonista Jean-Marc da poco in pensione che, dopo molte esitazioni, accetta di andare in vacanza in Senegal con il suo amico Momo. A guidarli, all’arrivo all’aeroporto di Dakar, alla scoperta del paese troveranno Modou, ragazzone tuttofare e un po’ trafficone, di professione tassista di una vecchia quanto scassata Mercedes station vagon che non ha nulla da invidiare per originalità al taxi di Donne sull'orlo di una crisi di nervi (Mujeres al borde de un ataque de nervios, 1988) di Pedro Almodovar. Nonostante un inizio difficile, dovuto alla naturale diffidenza tra i protagonisti - troppo diversi tra loro, per cultura, stili di vita e mentalità - con l’andare del viaggio e il venir meno di molti luoghi comuni nascerà fra i protagonisti  un profondo sentimento di comunione. Per gli amanti delle storie complicate il lavoro di Christof Philibert non potrà che sembrare solo una semplice storia di amicizia, tuttavia ad uno sguardo attento, vi è molto di più. E’ un inno alla fratellanza degli uomini e dei popoli, un accorato invito a ricercare la felicità nella riscoperta di gesti comuni, semplici, nell’umanità e autenticità delle persone.

haraga bDopo un'assenza di tredici anni dallo schermo, il regista Moussa Haddad ritorna con Harraga Blues, la cui traduzione letterale dall’arabo suona: coloro che bruciano. Il riferimento è al modo in cui i migranti distruggono i loro documenti d'identità prima di emigrare clandestinamente. Il film affronta il tema del viaggio a cui si sottopongono tanti giovani nord africani nel tentativo di sfuggire ad una esistenza di povertà alla ricerca di una vita migliore in Europa. Le intenzioni del cineasta algerino, certamente lodevoli nel rappresentare una piaga sociale che affligge la sua terra, sono tradite però dal risultato. Il film segue due giovani Zine e Rayan, stanchi della mancanza di prospettive che offre loro l’Algeria, che progettano di raggiungere illegalmente le coste della Spagna. Nella costruzione della storia però risulta assente ogni riferimento alla situazione politico sociale, al conflitto religioso in atto nell’Algeria d’oggi, ed anche la ricostruzione della stessa traversata, nella realtà spesso mortale, risulta poco credibile. Un film più per il piccolo schermo, dove le atmosfere sono quasi patinate e ove a contare sono i buoni sentimenti e il lieto fine.

A.S.


Rang and tattes

PREMI

Lungometraggi


Antigone d’oro
Farsh w ghatta (Stracci e brandelli, Egitto 2013) di Ahmad Abdalla
con un premio di 15000 euro concesso dall’Agglomération di Montpellier, un aiuto alla campagna di promozione per l’uscita del film offerto da CINÉ+ e un aiuto alla distribuzione di 2.500 euro concesso da Titra Film per il sottotitolaggio.
Menzione speciale a Ghazi Albuliwi interprete di Only in New York. Peace after Mariage (Soli a New Work. Pace dopo il matrimonio, Usa, Francia, Turchia, 2013) da lui stesso diretto.
Premio della critica
Levaya Bazaharaim (Funerale a mezzogiorno, Israele, 2013) di Adam Sanderson con un premio di 2000 euro offerto da Allianz.
Premio del pubblico
Only in New York. Peace after Mariage (Soli a New Work. Pace dopo il matrimonio, Usa, Francia, Turchia, 2013) di Ghazi Albuliwi. Con una dotazione di 4000 euro offerta al regista dal quotidiano Midi Libre
Premio per la migliore musica.
Wisam Gibran per la musica del film Levaya Bazaharaim (Funerale a mezzogiorno, Israele, 2013) di Adam Sanderson. Con una dotazione di 1200 euro offerta da le JAM.
Premio del pubblico giovane
L’arbitro (Italia, Francia 2013), di Paolo Zucca con una dotazione di 2000 euro per il regista offerta da CMCAS Linguadoca.

Cortometraggi


Gran premio del cortometraggio
Gambozinos di João Nicolau (Portogallo, Francia, 2013) con una dotazione di 4000 euro alla regista offerta dall’Agglomération di Montpellier
Menzione speciale a Skok (Vai) di Petar Valchanov e Kristina Grozeva (Bulgaria, 2012)
Premio del pubblico
Yed Ellouh (Adesivo di pelle), di Kaouther Ben Hania (Tunisia, Francia, 2013) con una dotazione di 2000 euro offerti dal quotidiano Midi Libre e da Champagne Lanson
Premio del pubblico giovane
Calea Dunarii (A filo del Danubio) di Sabin Dorohoi (Romania, 2013) con una dotazione di 2000 euro offerti al regista dalla Città di Montpellier
Premio Cinecourts CINÉ+
Welcome and... Our Condolences (Benvenuti e ... sincere condoglianze) di Leonid Prudovsky (Israele, 2012). Il film sarà acquistato per la distribuzione e la messa in onda da Cinecourts
Premio Canal+
Pastila fericirii (La pastiglia della felicità) di Cecilia Felmeri (Romania, 2012). Il film sarà acquistato per la messa in onda da Canal+.

Documentari

Premio Ulisse
La Femme a la Camera (La donna con la macchina da presa) di Karima Zoubir (Maroc, 2012). Con una donazione di 3 euro alla regista offerti da Allianz e dalla Mediateca Federico Fellini di Montpellier.
Menzione speciale a Emak Bakia baita (Alla ricerca di Emak Bakia) di Oskar Alegria (Spagna, 2012).