06 Giugno 2011
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Festival di Setubal 2011 |
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La vida de los peces (La vita dei pesci) del cileno Matias Bize è il classico film da camera, uno di quelli in cui i dialoghi la fanno da padroni sulle immagini e ove sono di rigore i ricordi del passato e lo scandaglio dei sentimenti. Andreas ha vissuto a Berlino per dieci anni, facendo il giornalista per una rivista di turismo. Ritornato in Cile, partecipa a una festa di compleanno in una grande villa in cui ritrova amici, amori, persone da cui credeva non si sarebbe mai separato. Ciò che lo turba in modo particolare è l’incontro con una donna, un tempo sua fidanzata, oggi madre inquieta di due gemelli. Per un attimo l’antica passione, da entrambi mai dimenticata, sembra riesplodere. Tutti e due hanno un guizzo d’amore, si dichiarano pronti a iniziare una nuova vita assieme, lasciandosi alle spalle il passato, poi, basta un attimo di riflessione, quattro chiacchiere con i conoscenti perché l’irrealtà della cosa balzi agli occhi in tutta evidenza e, con ogni probabilità, ciascuno riprenda la propria strada. Opere di questo tipo richiedono prestazioni attoriali di altissima qualità, interpreti capaci di far scorrere sul viso interi dialoghi sostituendo le parole con le espressioni. Si veda, in questo caso, la sequenza finale in cui i due ex – amanti si scambiano sguardi intensamente eloquenti da lontano. Il pericolo, in casi come questo, è che la storia finisca relegata in una sorta di limbo, priva di riferimenti di qualsiasi tipo. Il regista sembra intuire il rischio, anche se non riesce ad annullarlo del tutto. Si comprende dalle non brevi sequenze in cui il protagonista incontra un gruppo di ragazzi, che giocano a calcio virtuale e, poco dopo, alcune ragazze sovraeccitate – anche chimicamente - e già avviate sulla strada del consumo, in tutti i sensi, della vita e dei sentimenti. Sono due momenti di confronto sia fra generazioni, sia di comparazione fra modi di vivere che aprono qualche breve spiraglio su ciò che il film avrebbe potuto essere, oltre a ciò che già è.
L’olandese Rudolf van Berg ha tratto Tirza da un racconto pubblicato dallo scrittore Arnon Grunberg (1971) nel 2006. Il film è stato candidato dall’Olanda al premio Oscar, categoria miglior film in lingua non inglese, ed è la radiografia di un’ossessione criminale. Il professor Jörgen Hofmeester, che ha perso buona parte dei suoi risparmi dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, non riesce ad accettare l’idea che la sua giovane figlia abbia una relazione con un africano mussulmano e lo identifica progressivamente uno dei terroristi, l’egiziano Mohamed Atta. In realtà è ossessionato da una pulsione incestuosa verso la figlia. La follia lo spinge sino al delitto – uccide la ragazza, che nel frattempo lo ha scoperto mentre faceva l’amore con una sua amica, e fa a pezzi il fidanzato – convincendosi, poi, che i due siano andati in Namibia, la donna trascinata dall’amato. Per recuperarla parte per il paese sub tropicale, incontra una ragazzina che, all’età di meno di dieci anni già si prostituisce per ricchi stranieri, finisce nel deserto da cui si salva grazie alla bambina e va a smarrirsi e morire in una bidonville che affonda nella sporcizia. Il tema della paura verso il diverso che induce alla pazzia non è nuovo neanche al cinema, ma in questo caso si sposa con le più tipiche allucinazioni da film horror. La regia impugna il bandolo della matassa badando più a esaltarne gli aspetti grandguignoleschi che non a fornire una qualche sistemazione o razionalizzazione della follia antiaraba. E’ un film confuso, slabbrato, improbabile e del tutto ridondante. Se l’intento era di denunciare la pazzia cui conduce l’estremismo – anche quello occidentale – l’obiettivo è clamorosamente fallito e la storia non va oltre il quadro di una follia la cui origine antiterroristica appare del tutto casuale. In poche parole è un testo pasticciato, noioso e per nulla convincente.
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