Festival di Setubal 2011

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Festival di Setubal 2011
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27°Festroia

Festival Internacional de Cine Setubal  - Portugal - 3 a 12 Junho 2011

http://www.festroia.pt/

Il Festroia è una rassegna cinematografica, articolata in varie sezioni, che si tiene ogni anno a Setúbal, in Portogallo. Quella di quest’anno è stata la ventisettesima edizione e, come le precedenti, ha avuto il suo punto di forza nella parte competitiva riservata a opere provenienti da paesi che producono meno di trenta film l’anno, il che significa un vasto orizzonte in cui è coinvolta gran parte dell’Europa centrale e settentrionale.



 



La sfilata è stata aperta da La Petite Chambre (La cameretta) delle svizzere Stéphane Chuat e Vèronique Reymond che hanno raccontato due assenze, concluse da una nuova presenza. Rose è un’infermiera che lavora a domicilio, ha perso da poco un figlio portato nel ventre con amore per otto mesi e non riesce a rassegnarsi. Ha conservata intatta la cameretta preparata per accoglierlo e non vuole che nessuno vi metta mano. Un giorno è assunta per accudire Edmond, un vedovo anziano e bizzoso che non vuole rinunciare alla sua indipendenza. Fra i due, all’inizio, scoccano scintille, poi a mano a mano che le condizioni fisiche del paziente peggiorano, l’uno e l’altra si capiscono quanto la loro solidarietà sia terreno fertile per accettare l’elaborazione completa del lutto e per farsi una ragione di vedovanza e vecchiaia. E’ un film tenero con qualche sprazzo umoristico, chiuso da una doppia accettazione: della vita che sta per ritornare – la donna è nuovamente incinta – e della chiusura di un passato ormai destinato agli archivi della memoria. E’ il classico film in cui le prestazioni degli attori hanno un ruolo fondamentale, in questo caso il veterano Michel Bouquet è tallonato con grande efficienza dalla giovane Florence Loiret Caille.

Beli, beli, svet (Mondo bianco) nasce da una combinazione serbo - tedesco – svedese e porta la firma di Oleg Novkovic. Nella sostanza è un melodramma in cui si agitano amori incestuosi, passioni irrefrenabili, scenari di centri minerari – sullo schermo passano le immagini d Bor, nel sud est del paese – popolati da operai poveri e passionali. La regia pone l’accento ancor più sul taglio melodrammatico del racconto inserendo nella storia lunghi brani cantati e scene di massa che anelano al palcoscenico teatrale. Il tasso di originalità è certamente modesto e la legnosità degli interpreti non migliora la qualità complessiva del film. Nel complesso è un’opera modesta e banale.

Npapiirin sankarit (Odissea Lappone) di Dome Karukoski vorrebbe essere una sorta di zingarata nordica con tanto di lieto fine, ma non va oltre la commediaccia slabbrata e assai poco divertente. Inari e Janne sono sposati da poco, ma fra loro le cose vanno tutt’altro che bene. Tanto lei è ordinata e attiva, altrettanto lui è poltrone e pasticcione. Non fa quasi nulla in casa e persino quando lei gli dà i soldi per comprare un videoregistratore per il loro anniversario riesce a dimenticarsene e a spenderli per altre cose. Da qui l’ultimatum: o il videoregistratore arriva entro la sera seguente oppure lei se ne va di casa. Solo che siamo di sabato pomeriggio e tutti i negozi sono chiusi. Inizia in questo modo un’improbabile corsa per strade innevate e lande desertiche alla ricerca del marchingegno in grado di salvare la sorte della coppia, mentre altri ex-pretendenti spiano l’occasione per conquistare le grazie della bella Inari. Fra blandi occhieggiamenti erotici e trovate che non sorprendono neppure il più ingenuo degli spettatori il film tira a lungo annoiando oltre ogni limite.

Neka ostane medju nama (Resti tra noi) del croato Rajko Grlić è una commedia amara sul genere di quelle che tanto hanno segnato la cinematografia jugoslava ante Emir Kusturica. L’obiettivo è puntato sulla borghesia di Zagabria, quella che è riuscita ad arricchirsi nel pieno delle guerre interetniche e la lacerazione del paese. Un ceto ben simboleggiato da Nikola, un agiato imprenditore che mantiene due famiglie, l’una all’insaputa dell’altra, aiuta il fratello professore squattrinato e aspirante artista a sopravvivere e ha, quasi come unica occupazione, quella di portarsi a letto quante più giovani ragazze gli capitano a tiro. Alla morte del padre, un famoso pittore, i rapporti fra i due fratelli diventano ancora più stretti, si spalleggiano, coprono i reciproci adulteri e si danno da fare come due ragazzini. Tutto questo sino all’esplosione del dramma: la scoperta da parte della moglie legittima dell’altra famiglia e il tentativo di suicidio della consorte dell’artista, separata e impiegata di banca, causa la scoperta di un ammanco di cassa di cui si è resa responsabile per pagare un bel gigolò con velleità di calciatore. E’ un film flebile, superficiale, a tratti divertente ma privo di una vera struttura narrativa. Una proposta godibile che neppure i vezzi e le smancerie di Miki Manojlović, attore principe del cinema serbo, riescono a trasformare in oggetto di riflessione.

Zena sa slomljenim nosem (La donna con il naso rotto) del bosniaco Srdjan Koljevic racconta i triboli di un autista di taxi cui capita di trasportare una donna che, nel pieno di una corsa, esce dalla macchina e si butta da un ponte lasciando nell’auto la figlioletta infante. Il conduttore tenta di trarsi d’impiccio con l’aiuto di un’amica, ex – miss Iugoslavia ora prostituta, sino al momento in cui la madre della piccola - sopravvissuta al salto, ma finita in coma - ritorna a prendersi la bimba per poi fuggire nuovamente con un tenebroso motociclista. Il film si avvia a un melanconico lieto fine, con il tassista e la madre inquieta che (forse) si metteranno assieme. Ciò che più interessa è il quadro di una società violenta e lacerata da insanabili conflitti interetnici, legati, anche, alle guerre che hanno insanguinato il paese e l’hanno portato allo smembramento. In questo senso è un’opera particolarmente interessante dal punto di vista della testimonianza, ma non altrettanto da quello del racconto cinematografico, spesso più detto che effettivamente rappresentato.

Saç (Capelli) del regista turco Yayfun Pirselimoglu rientra nel filone del nuovo cinema di quel paese, una tendenza fatta di racconti cadenzati da lunghi silenzi, ritmo lento, paesaggi diruti, personaggi al limite della degradazione e dell’autodistruzione. La figura al centro di questo film è un fabbricante e venditore di parrucche gestore di un negozio – laboratorio attivo nella zona di Istanbul in cui vivono travestiti e omosessuali. Un giorno la monotonia della sua vita è rotta dall’arrivo di una donna venuta a vendere la fluente capigliatura. Lui gliela taglia, la paga, ma vorrebbe continuare questa conoscenza casuale. La pedina, scopre che vive con un uomo che la tradisce e che, di mestiere, fa il preparatore di cadaveri. Segue anche lui e lo accoltella a morte. Ora può presentarsi alla vedova che, in un primo tempo lo respinge, ma poi lo accoglie. Solo che l’appartamento continua a essere abitato anche dal fantasma silente del morto, a significare che il delitto ha inserito una terza presenza nella coppia e che questo continuerà ad alimentare rimorsi e sensi di colpa. L’ultima immagine ci mostra l’uomo delle parrucche nuovamente solo nel suo bugigattolo, una solitudine cui non esiste rimedio. Il film è fotografato molto bene, interpretato in modo efficace e ci mostra uno scenario tutt’altro che turistico della grande città turca. E’ un tipo di cinema segnato da una grande maturità e percorso da un lacerante dolore del vivere. Un approccio narrativamente maturo e disperato che la regia sorregge con immagini sbiadite, segnate da colori marcescenti, che disegnano uno scenario di abbrutimento morale che non ammette vie d’uscita.


Fridrik Thór Fridriksson è un frequentatore abituale del Festroia ove ha già vinto il massimo premio – Delfino D’Oro – nel 1996 con Á köldum klaka (Febbre fredda). Quest’anno è ritornato in concorso con un film dal taglio molto autobiografico. Mamma Gógó è il ritratto di un’anziana che sprofonda lentamente, ma progressivamente, nell’Alzheimer sino ad andare a morire sulla tomba dell’amatissimo marito con cui idealmente si ricongiunge in un’eternità segnata da panorami bellissimi e in un’atmosfera di pace eterna. Quando le storie toccano troppo profondamente chi le racconta è raro che riescano a impregnarsi della distanza necessaria a trasformarle in materiali universalmente validi. E’ quanto capita anche in questo caso, nonostante gli sforzi della protagonista di mantenere il taglio narrativo fuori da eccessi sentimentalistici. E’ un film toccante, forse persino troppo, in cui il dolore individuale esplode senza riuscire a farsi momento di riflessione generale.

Frit Fald (Il sussurro) della danese Heidi Maria Faisst mette in scena uno dei topos del dramma interpersonale: il rapporto fra madre e figlia. Louise è una quattordicenne ribelle affidata ai nonni durante la detenzione della madre, condannata per spaccio di droga. Quando la detenuta esce per buona condotta, la ragazza tenta in ogni modo di riallacciare un rapporto con lei. Il suo sogno sarebbe di andare a vivere assieme a lei e condividerne la vita, ancora una volta invischiata in commerci di stupefacenti. Il suo estremo tentativo di immergersi nella genitrice sarà di fare l’amore con un suo ex fidanzato, ma proprio questa decisione causerà la rottura definitiva fra le due donne. Ora la giovane è più sola che mai e inizia a capire quanto sia importante il sostegno che la nonna le ha dato sino a quel momento imponendole regole precise di vita. E’ il classico film familiare amato dalle cinematografie nordiche e, al netto della buona confezione, non aggiunge nulla a quanto già sappiamo, ma lo fa con professionalità e precisione narrative.

Hjem til jul (Tornando a casa per Natale) del norvegese Bent Hamer è un piccolo gioiello che, una volta tanto, gli spettatori italiani hanno già potuto giudicare e che intreccia varie storie che si sviluppano nella notte di Natale. C’è la coppia d’immigrati clandestini – lei albanese, lui serbo – in attesa di un figlio. C’è l’ex-calciatore in disarmo che decide di ritornare finalmente a casa, c’è la donna in speranzosa attesa che l’amante lasci la moglie per mettersi con lei. C'è l’ex-marito che sequestra il nuovo compagno della moglie pur di riuscire a incontrare – in panni di Babbo Natale – il figlio che gli è stato sottratto. Ci sono i due, possibili innamoratini che trovano nell’osservazione del cielo un modo per avvicinarsi nonostante le barriere razziali e religiose che li dividono. E’ il quadro di una società complessa, segnata da ampie venature tristi che si affaccia alla maggiore festa cristiana con spirito tutt’altro che univocamente caritatevole. Il regista, di cui ricordiamo almeno lo straordinario O’Horten (2007), disegna un mosaico ampio che ingloba più ceti e condizioni umane. Ci sono episodi e parti particolarmente riusciti – segnaliamo quella dei due immigrati in cui a un gesto di umanità in guerra fa da contrappeso la nascita di un bimbo e la generosità del medico che assiste la puerpera – e parti meno originali, ma nel complesso il film ha un taglio forte e una struttura narrativa che domina efficacemente un mosaico che non era facile condurre a unità. In casi come questo non è raro che la direzione perda qualche colpo, si lasci sfuggire qualche cosa. Qui ciò non accade e l’intera opera poggia su un bilancio, narrativo e stilistico, davvero pregevole.


Una settimana dopo la scomparsa di Papa Paolo Giovanni II, il 9 aprile del 2006, alle ventuno e trentasette, nel momento esatto in cui il pontefice era morto, milioni di polacchi, obbedendo a un gigantesco passaparola, spensero le luci di casa per tre minuti in segno di lutto. Fu una manifestazione spontanea e di straordinario valore collettivo che cancellò letteralmente il paese dalla mappa terrestre così come solitamente comprate nelle immagini dei satelliti notturne. Trzy Minuty. 21:37 (Tre minuti – 21:37) di Maciej Slesicki parte sin dal titolo da quel fatto straordinario per disegnare un mosaico della geografia morale del paese. Le ambizioni del regista sono ampie, sia dal punto di vista politico, sia da quello stilistico. Sul primo versante mira a disegnare un ritratto impietoso di un paese in preda a violenza diffusa, menefreghismo, indifferenza verso i propri simili. Sul versante della costruzione narrativa tende a mescolare i tempi e le scansioni delle storie che racconta muovendo, in un caso, dalla fine verso l’inizio, in altri mescolando i tempi, in un ultimo episodio, infine, procedendo in maniera quasi lineare. S’inizia con la polizia che uccide un uomo armato, si prosegue con un regista alcolizzato che ritrova la gioia di vivere nel rapporto con una giovane insegnante d’inglese che lo lascerà per ragioni di lavoro, si procede con un pittore, maturo compagno della figlia del regista, trasformato in vegetale a seguito a un’aggressione di strada. Il poveretto, una volta affidato alla sanità pubblica subirà un calvario intessuto d’inefficienza, crudeltà, indifferenza. Infine, quasi fuori dal contesto complessivo delle altre vicende, c’è la storia del cavallo bianco, fuggito da un trasporto verso il macello a causa di un gesto eco-terrorista dell’uomo che abbiamo visto morire all’inizio. L’animale capita in un cortile in cui abitano padre e figlio, il primo è un ex – pugile disoccupato e con precedenti penali, mentre il ragazzo trova nell’animale un compagno indispensabile a lenire miserie e solitudine della sua grama esistenza. Nessuna di queste vicende finirà bene, anche se un raggio di luce traspare da un finale posticcio e non molto ben sviluppato. L’obiettivo del regista appare chiaro: mostrare il conflitto fra la vita quotidiana e gli elementari valori di moralità solidarietà che dovrebbero contraddistinguere la collettività umana. Valori che qui latitano totalmente cedendo il passo alla ferocia più bestiale e gratuita. Il film ha un intento chiaramente morale e questo condiziona la costruzione di molti personaggi che sembrano impastati solo di cinismo, violenza e crudeltà gratuita. Inoltre la scelta di mescolare i tempi narrativi delle varie storie richiedeva una mano rigorosa che l’autore non mostra sempre di possedere. In definitiva un film complesso, a tratti interessante, ma piuttosto ingarbugliato.

La vida de los peces (La vita dei pesci) del cileno Matias Bize è il classico film da camera, uno di quelli in cui i dialoghi la fanno da padroni sulle immagini e ove sono di rigore i ricordi del passato e lo scandaglio dei sentimenti. Andreas ha vissuto a Berlino per dieci anni, facendo il giornalista per una rivista di turismo. Ritornato in Cile, partecipa a una festa di compleanno in una grande villa in cui ritrova amici, amori, persone da cui credeva non si sarebbe mai separato. Ciò che lo turba in modo particolare è l’incontro con una donna, un tempo sua fidanzata, oggi madre inquieta di due gemelli. Per un attimo l’antica passione, da entrambi mai dimenticata, sembra riesplodere. Tutti e due hanno un guizzo d’amore, si dichiarano pronti a iniziare una nuova vita assieme, lasciandosi alle spalle il passato, poi, basta un attimo di riflessione, quattro chiacchiere con i conoscenti perché l’irrealtà della cosa balzi agli occhi in tutta evidenza e, con ogni probabilità, ciascuno riprenda la propria strada. Opere di questo tipo richiedono prestazioni attoriali di altissima qualità, interpreti capaci di far scorrere sul viso interi dialoghi sostituendo le parole con le espressioni. Si veda, in questo caso, la sequenza finale in cui i due ex – amanti si scambiano sguardi intensamente eloquenti da lontano. Il pericolo, in casi come questo, è che la storia finisca relegata in una sorta di limbo, priva di riferimenti di qualsiasi tipo. Il regista sembra intuire il rischio, anche se non riesce ad annullarlo del tutto. Si comprende dalle non brevi sequenze in cui il protagonista incontra un gruppo di ragazzi, che giocano a calcio virtuale e, poco dopo, alcune ragazze sovraeccitate – anche chimicamente - e già avviate sulla strada del consumo, in tutti i sensi, della vita e dei sentimenti. Sono due momenti di confronto sia fra generazioni, sia di comparazione fra modi di vivere che aprono qualche breve spiraglio su ciò che il film avrebbe potuto essere, oltre a ciò che già è.

L’olandese Rudolf van Berg ha tratto Tirza da un racconto pubblicato dallo scrittore Arnon Grunberg (1971) nel 2006. Il film è stato candidato dall’Olanda al premio Oscar, categoria miglior film in lingua non inglese, ed è la radiografia di un’ossessione criminale. Il professor Jörgen Hofmeester, che ha perso buona parte dei suoi risparmi dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York, non riesce ad accettare l’idea che la sua giovane figlia abbia una relazione con un africano mussulmano e lo identifica progressivamente uno dei terroristi, l’egiziano Mohamed Atta. In realtà è ossessionato da una pulsione incestuosa verso la figlia. La follia lo spinge sino al delitto – uccide la ragazza, che nel frattempo lo ha scoperto mentre faceva l’amore con una sua amica, e fa a pezzi il fidanzato – convincendosi, poi, che i due siano andati in Namibia, la donna trascinata dall’amato. Per recuperarla parte per il paese sub tropicale, incontra una ragazzina che, all’età di meno di dieci anni già si prostituisce per ricchi stranieri, finisce nel deserto da cui si salva grazie alla bambina e va a smarrirsi e morire in una bidonville che affonda nella sporcizia. Il tema della paura verso il diverso che induce alla pazzia non è nuovo neanche al cinema, ma in questo caso si sposa con le più tipiche allucinazioni da film horror. La regia impugna il bandolo della matassa badando più a esaltarne gli aspetti grandguignoleschi che non a fornire una qualche sistemazione o razionalizzazione della follia antiaraba. E’ un film confuso, slabbrato, improbabile e del tutto ridondante. Se l’intento era di denunciare la pazzia cui conduce l’estremismo – anche quello occidentale – l’obiettivo è clamorosamente fallito e la storia non va oltre il quadro di una follia la cui origine antiterroristica appare del tutto casuale. In poche parole è un testo pasticciato, noioso e per nulla convincente.


 

Fra le molte sezioni che hanno composto il cartello del Festival, merita una particolare attenzione quella riservata alle opere prime in cui si sono visti alcuni titoli di valore più o meno alto, citiamone alcuni. Svinalängorna (Oltre) segna l’esordio alla regia dell’attrice svedese Pernilla August. La storia è un classico nella cultura e nel cinema nordici: la rabbia e i sensi di colpa in cui si dibattono i figli di genitori violenti e alcolizzati. Qui è il caso di Lena, una Noomi Rapace ben lontana dai manierismi della trilogia Millennium, cui annunciano le gravissime condizioni della madre. E’ l’occasione per un percorso indietro nel tempo con ricordi d’infanzia punteggiati di botte, appartamenti sfasciati, vomito ed escrementi seminati per casa da un padre, d’origine finlandese, in perenne stato alcolico. Non manca la morte per overdose del fratellino e il progressivo degrado della genitrice, anch’essa indulgente con la bottiglia. E’ un film robusto, ben costruito, a tratti commuovente che conferma le profonde distanze fra la cultura protestante e quella mediterranea. Loro hanno solo lo psichiatra, i cattolici hanno anche e principalmente la confessione, una differenza di non poco conto.
Ostavljeni Abbandonato) del bosniaco Adis Bakrac ritorna sui drammi legati alla guerra che ha portato alla dissoluzione della Iugoslavia, in particolare gli stupri etnici. La diciannovenne Amila subisce torture e violenza sessuali sino a quando partorisce, da sola e in una foresta, il piccolo Alen. Il bimbo è affidato a un istituto per ragazzi abbandonati e ora, tredicenne, è in lizza per essere adottato. Tuttavia lui recalcitra, perché gli hanno sempre raccontato che è figlio di un inglese e di una giornalista francese. Il suo sogno è andare a Parigi per ritrovare la madre, nel frattempo non disdegna di farsi complice di un commerciante che usa i piccoli ospiti dell’istituto per furti e rapine. L’arrivo di un nuovo direttore, aperto e umano, lo costringerà a guardare in faccia la realtà e a prendere atto di essere il prodotto di uno stupro di guerra. La storia non è particolarmente originale, ma il disegno dei personaggi funziona narrativamente bene, così come il qadro di una situazione segnata da ferrite non rimarginabili.

Rimaniamo in terra ex – iugoslava con Sedamdeset i dva dana (72 giorni) di Avô Djuradj, figlio del noto attore Rade Serbedzija. Il racconto parte da un fatto di cronaca: un paio di famiglie, imparentate fra loro, hanno vissuto per anni con la pensione americana concessa a un militare che aveva combattuto con gli alleati nel corso della seconda guerra mondiale. Per avere questo beneficio avevano coccolato una capricciosa vecchietta, madre del defunto. Quando la vegliarda muore, la sostituiscono con un’altra. Come si sarà capito siamo dalle parti, meglio dovremmo esserlo, della commedia macabra spruzzata d’irriverenza balcanica. L’uso del condizionale è imposto dalla totale incapacità del giovane regista di dominare e organizzare in qualche misura una materia che gli sfugge dalle mani a ogni piè sospinto. Ne emerge una commediaccia slabbrata, pasticciata, piena d’incongruenze, del tutto trascurabile.

Anche l’idea su cui si regge Girlfriend (Fidanzata) dell’americano Justin Lerner poteva dare vita a un’opera interessante. Un ragazzo affetto dalla sindrome di Down vive e lavora con la madre, quando questa muore lasciandogli un po’ di denaro, dà sfogo all’amore verso una ragazza – madre, sua vicina di casa. La storia finirà, forse, positivamente, ma non prima di aver percorso un calvario fatto di violenza da parte di altri, imbrogli della concupita e pasticci vari. L’uso del condizionale è legato alla frammentarietà con cui la regia conduce il discorso, spezzando non pochi fili logici e approdando a un pseudo lieto fine del tutto appiccicaticcio.


I premi

Premio del pubblico

Mamma gógó di Fridrik Thor Fridriksson, Islanda / Norvegia / Germania / Gran Bretagna / Svezia.

Premio l’Uomo e la natura

Severn, la voix de nos enfants (Severn, la voce dei nostri figli) di Jean-Paul Jaud, Francia.

menzione speciale

Prinsessa (Principessa) di Arto Halonen, Finlandia.

menzione speciale

Ci provo di Susana Pilgrim, Germania / Italia.

Premio opera prima

Ostavljeni (Abbandonato) di Adis Bakrac, Bosnia.

menzione speciale

Siyah beyaz (Bianco e nero) di Ahmet Boyacioglu, Turchia.

menzione speciale

a Magdalena Poplawska per la sua prestazione nel film Between z fires (Fra due fuochi) di Agnieszka Lukasiak, Polonia / Svezia.

Premio della critica (FIPRESCI)

Saç (Capelli) di Tayfun Pirselimoglu, Turchia / Grecia.

Premio SIGNIS

La petite chambre (La cameretta) di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, Svizzera / Lussemburgo.

menzione speciale

Weiro (Ridicolo) di Audrey Najar e Fréderic Perrot, Francia.

Premio CICAE

Frit fald (Il sussurro) di Heidi Maria Faisst, Dannimarca.

Premio MÁRIO VENTURA

The Hardest Part (La parte più difficile) di Olivier Refson, Gran Bretagna.

Miglior film (Delfino d’Oro)

Tirza di Rudolf van den Berg, Olanda / Belgio.

Premio speciale della giuria (Delfino d’Argento)

Neka ostane medju nama (Resti fra noi) di Rajko Grlic, Croazia / Serbia / Slovenia.

Miglior regia (Delfino d’Argento)

Oleg Novkovic per Bli, beli svet (Bianco, bianco mondo), Serbia / Germania / Svezia.

Miglior attore (Delfino d’Argento)

Nebojsa Glogovac per la sua interpretazione in Zena sa slomljenim nosem (La donna con il naso rotto) di Srdjan Koljevic, Serbia / Germania.

Migliore attrice (Delfino d’Argento)

Florence Loiret Caille per la sua interpretazione in La petite chambre (La cameretta) di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond, Svizzera / Lussemburgo.

Miglior sceneggiatura (Delfino d’Argento)

Julio Rojas e Matias Bize per La vida de los peces (La vita dei pesci) di Matias Bize, Cile / Francia.

Miglior direzione della fotografia (Delfino d’Argento)

Pini Hellstedt per Napapiirin sankarit (Odissea lappone) di Dome Karukoski, Finlandia.