Festival di Setubal 2011 - Pagina 2

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Festival di Setubal 2011
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La sfilata è stata aperta da La Petite Chambre (La cameretta) delle svizzere Stéphane Chuat e Vèronique Reymond che hanno raccontato due assenze, concluse da una nuova presenza. Rose è un’infermiera che lavora a domicilio, ha perso da poco un figlio portato nel ventre con amore per otto mesi e non riesce a rassegnarsi. Ha conservata intatta la cameretta preparata per accoglierlo e non vuole che nessuno vi metta mano. Un giorno è assunta per accudire Edmond, un vedovo anziano e bizzoso che non vuole rinunciare alla sua indipendenza. Fra i due, all’inizio, scoccano scintille, poi a mano a mano che le condizioni fisiche del paziente peggiorano, l’uno e l’altra si capiscono quanto la loro solidarietà sia terreno fertile per accettare l’elaborazione completa del lutto e per farsi una ragione di vedovanza e vecchiaia. E’ un film tenero con qualche sprazzo umoristico, chiuso da una doppia accettazione: della vita che sta per ritornare – la donna è nuovamente incinta – e della chiusura di un passato ormai destinato agli archivi della memoria. E’ il classico film in cui le prestazioni degli attori hanno un ruolo fondamentale, in questo caso il veterano Michel Bouquet è tallonato con grande efficienza dalla giovane Florence Loiret Caille.

Beli, beli, svet (Mondo bianco) nasce da una combinazione serbo - tedesco – svedese e porta la firma di Oleg Novkovic. Nella sostanza è un melodramma in cui si agitano amori incestuosi, passioni irrefrenabili, scenari di centri minerari – sullo schermo passano le immagini d Bor, nel sud est del paese – popolati da operai poveri e passionali. La regia pone l’accento ancor più sul taglio melodrammatico del racconto inserendo nella storia lunghi brani cantati e scene di massa che anelano al palcoscenico teatrale. Il tasso di originalità è certamente modesto e la legnosità degli interpreti non migliora la qualità complessiva del film. Nel complesso è un’opera modesta e banale.

Npapiirin sankarit (Odissea Lappone) di Dome Karukoski vorrebbe essere una sorta di zingarata nordica con tanto di lieto fine, ma non va oltre la commediaccia slabbrata e assai poco divertente. Inari e Janne sono sposati da poco, ma fra loro le cose vanno tutt’altro che bene. Tanto lei è ordinata e attiva, altrettanto lui è poltrone e pasticcione. Non fa quasi nulla in casa e persino quando lei gli dà i soldi per comprare un videoregistratore per il loro anniversario riesce a dimenticarsene e a spenderli per altre cose. Da qui l’ultimatum: o il videoregistratore arriva entro la sera seguente oppure lei se ne va di casa. Solo che siamo di sabato pomeriggio e tutti i negozi sono chiusi. Inizia in questo modo un’improbabile corsa per strade innevate e lande desertiche alla ricerca del marchingegno in grado di salvare la sorte della coppia, mentre altri ex-pretendenti spiano l’occasione per conquistare le grazie della bella Inari. Fra blandi occhieggiamenti erotici e trovate che non sorprendono neppure il più ingenuo degli spettatori il film tira a lungo annoiando oltre ogni limite.

Neka ostane medju nama (Resti tra noi) del croato Rajko Grlić è una commedia amara sul genere di quelle che tanto hanno segnato la cinematografia jugoslava ante Emir Kusturica. L’obiettivo è puntato sulla borghesia di Zagabria, quella che è riuscita ad arricchirsi nel pieno delle guerre interetniche e la lacerazione del paese. Un ceto ben simboleggiato da Nikola, un agiato imprenditore che mantiene due famiglie, l’una all’insaputa dell’altra, aiuta il fratello professore squattrinato e aspirante artista a sopravvivere e ha, quasi come unica occupazione, quella di portarsi a letto quante più giovani ragazze gli capitano a tiro. Alla morte del padre, un famoso pittore, i rapporti fra i due fratelli diventano ancora più stretti, si spalleggiano, coprono i reciproci adulteri e si danno da fare come due ragazzini. Tutto questo sino all’esplosione del dramma: la scoperta da parte della moglie legittima dell’altra famiglia e il tentativo di suicidio della consorte dell’artista, separata e impiegata di banca, causa la scoperta di un ammanco di cassa di cui si è resa responsabile per pagare un bel gigolò con velleità di calciatore. E’ un film flebile, superficiale, a tratti divertente ma privo di una vera struttura narrativa. Una proposta godibile che neppure i vezzi e le smancerie di Miki Manojlović, attore principe del cinema serbo, riescono a trasformare in oggetto di riflessione.

Zena sa slomljenim nosem (La donna con il naso rotto) del bosniaco Srdjan Koljevic racconta i triboli di un autista di taxi cui capita di trasportare una donna che, nel pieno di una corsa, esce dalla macchina e si butta da un ponte lasciando nell’auto la figlioletta infante. Il conduttore tenta di trarsi d’impiccio con l’aiuto di un’amica, ex – miss Iugoslavia ora prostituta, sino al momento in cui la madre della piccola - sopravvissuta al salto, ma finita in coma - ritorna a prendersi la bimba per poi fuggire nuovamente con un tenebroso motociclista. Il film si avvia a un melanconico lieto fine, con il tassista e la madre inquieta che (forse) si metteranno assieme. Ciò che più interessa è il quadro di una società violenta e lacerata da insanabili conflitti interetnici, legati, anche, alle guerre che hanno insanguinato il paese e l’hanno portato allo smembramento. In questo senso è un’opera particolarmente interessante dal punto di vista della testimonianza, ma non altrettanto da quello del racconto cinematografico, spesso più detto che effettivamente rappresentato.

Saç (Capelli) del regista turco Yayfun Pirselimoglu rientra nel filone del nuovo cinema di quel paese, una tendenza fatta di racconti cadenzati da lunghi silenzi, ritmo lento, paesaggi diruti, personaggi al limite della degradazione e dell’autodistruzione. La figura al centro di questo film è un fabbricante e venditore di parrucche gestore di un negozio – laboratorio attivo nella zona di Istanbul in cui vivono travestiti e omosessuali. Un giorno la monotonia della sua vita è rotta dall’arrivo di una donna venuta a vendere la fluente capigliatura. Lui gliela taglia, la paga, ma vorrebbe continuare questa conoscenza casuale. La pedina, scopre che vive con un uomo che la tradisce e che, di mestiere, fa il preparatore di cadaveri. Segue anche lui e lo accoltella a morte. Ora può presentarsi alla vedova che, in un primo tempo lo respinge, ma poi lo accoglie. Solo che l’appartamento continua a essere abitato anche dal fantasma silente del morto, a significare che il delitto ha inserito una terza presenza nella coppia e che questo continuerà ad alimentare rimorsi e sensi di colpa. L’ultima immagine ci mostra l’uomo delle parrucche nuovamente solo nel suo bugigattolo, una solitudine cui non esiste rimedio. Il film è fotografato molto bene, interpretato in modo efficace e ci mostra uno scenario tutt’altro che turistico della grande città turca. E’ un tipo di cinema segnato da una grande maturità e percorso da un lacerante dolore del vivere. Un approccio narrativamente maturo e disperato che la regia sorregge con immagini sbiadite, segnate da colori marcescenti, che disegnano uno scenario di abbrutimento morale che non ammette vie d’uscita.