Festival di Setubal 2009 - Pagina 4

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Festival di Setubal 2009
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Conclusioni e premi
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Il mondo è grande e la salvezza è dietro l'amgolo
Il mondo è grande e la salvezza è dietro l'amgolo
Vstat e goljam i spaseniedebne otvsjakade (Il mondo è grande e la salvezza è dietro l’angolo) del bulgaro Stephan Komandarev è una sorta di bella favola balcanica basata sul lungo ritorno a casa - via Ungheria, Italia, Serbia - di un giovane immigrato che ha perso la memoria, in Germania, dopo un incidente d’auto in cui sono morti i genitori. Il nonno - uno straordinario Miki Manojlovc - parte dal lontano villaggio Natale e lo costringe a ritornare a casa pedalando su un tandem. E’ un’immersione nei ricordi e nel passato che finirà col dare i suoi frutti: non solo il recupero delle radici culturali profonde, ma anche la scoperta di un amore. Il film viaggia su due piani: l’oggi in bicicletta e il ricordo del passato, con le vessazioni del regime che scambia un gruppo di giocatori di backgammon - l’anziano è considerato il re di questo gioco, titolo che, nel finale cede al nipote - per i partecipanti a una congiura politica. Ci sono molte riflessioni amare sul presente, come il torturatore di un tempo che compare, non invecchiato, come un personaggio politico di oggi. Come dire: il regime è finito, ma l’opportunismo e il trasformismo continuano. Dati interessanti, che funzionano da contorno a quello che appare il vero asse del film: la forza delle tradizioni, l’umanità dei ricordi, la saldezza dei rapporti amicali e familiari anche sotto le più feroci tempeste politiche. E’ un buon testo, forse eccessivamente ottimista, ma realizzato con grazia e intelligenza.
La sorella di Katia
La sorella di katia
Het Zusje van Katia (La sorella di Katia) della regista olandese Mijke de Jong è un bel ritratto di una solitudine infantile. Il film nasce da un racconto, dallo stesso titolo, di Andrés Barba e ruota attorno ad una tredicenne che vive con madre e sorella. Le due donne sono arrivate ad Amsterdam dalla Russia in cerca di una vita migliore, ma non hanno trovato altro se non prostituirsi e lavorare in un club di spogliarello. Questo fallimento ha esacerbato i loro caratteri e le ha portate a insultarsi di continuo, salvo improvvise e torrenziali riconciliazioni. L’adolescente si colloca fra le due adulte quasi come una barriera umanissima: svolge le più umili faccende di casa, assiste la nonna affetta da demenza senile, cerca disperatamente affetto e comunicazione. Un giorno incontra un ragazzo americano che predica la Bibbia per strada e intesse con lui un rapporto di affetto e solidarietà, ma quando tenta di rendere ancor più solido il legame con lui offrendogli prestazioni sessuali, unica cosa che le è stata insegnata può essere usata con gli uomini, il giovane fugge inorridito. Ora la sorella di Katia (non ha quasi nome, ma si definisce solo in questo modo) è veramente sola, sua madre è partita con un nuovo amante e l’altra è andata via con un italiano che le ha promesso mari e monti. Per alleviare in qualche modo la solitudine che sempre più la opprime, la ragazza inizia a recitare anche le parti delle altre due, partecipando a liti immaginarie in cui insulta e risponde alle offese. E’ il quadro di una distruzione umana che inizia sin dall’infanzia e di un abbandono feroce, anche se apparentemente motivato da condizioni oggettive. E’ un bel ritratto a tinte strazianti non alleviate da un lieto fine posticcio che vede le due fuggitive ritornare a casa dopo aver subito nuove sconfitte e delusioni.
Il casellante numero 47
Il casellante numero 47
Hlidac c.47 (Il casellante numero 47) del ceco Filip Renc è un melodramma a forti tinte, ambientato nella Cecoslovacchia profonda nel 1920. e tratto da un romanzo di Josef Kopta (1894 - 1962) che ha già avuto due versioni cinematografiche, una del 1937, firmata da Josef Rovensky, e una del 1951 a cura del famoso attore attore ebreo Hugo Haas (1901 - 1968). Ne è protagonista un mutilato della Grande Guerra che ha perso, quasi completamente l’udito ed è ossessionato dal ricordo degli orrori cui ha preso parte. Per compensarlo in qualche modo gli offrono con un posto di casellante ferroviario. Nel nuovo incarico lo accompagna la giovane moglie, subito concupita dal becchino del paese. Lei accetta la relazione, ma si ribella quando il locale sacrestano vuole avere un rapporto con lei minacciando di svelare il suo tradimento al marito. L’amante infuriato aggredisce il reduce, nel frattempo diventato oste, e lo uccide a coltellate. Finale cupo con l’assassino condotto in galera e la vedova che piange sulla tomba del coniuge. Ci sono tutti gli elementi per un melodramma sanguinolento e il regista vi pesca a piene mani tentando di nobilitare l’operazione con una fotografia seppiata che dovrebbe ricordare i vecchi dagherrotipi. E’ un’operazione più cervellotica che realmente ispirata imbottita di scene madri ed effetti grandguignoleschi.
Terribilmente felice
Terribilmente felice
Frygteling lykkelig (Terribilmente felice) del danese Henrik Ruben Genz mescola cinema nero ad atmosfere americane sulla vita di provincia, condendo il tutto con qualche suggestione alla Claude Chabrol. Un poliziotto è inviato da Copenhagen una minuscola cittadina dello Jutland del sud quale unico responsabile della locale stazione di polizia. Il trasferimento ha un tono punitivo, causa la cattiva condotta professionale dell’agente che, anche per questo, è stato abbandonato dalla moglie. Nel piccolo villaggio, poche case sui lati di una strada fangosa come nel migliore western classico, lo accolgono alcuni abitanti, sospettosi, sgradevoli e depositari di non pochi scheletri nascosti negli armadi. L’agente deve confrontarsi, in particolare, con un marito violento che picchia la moglie, anche se questa rifiuta di denunciarlo preferendo stuzzicare sessualmente il tutore della legge. Questo comportamento sarà la causa di un paio di omicidi in cui l’agente è coinvolto in prima persona. Quando le cose sembrano aggiustasi, visto che è arrivato l’ordine di trasferimento nella capitale, saranno i capi della piccola comunità a ricattare il poliziotto sino a costringerlo a restare, cosa che lui accetterà senza molto dispiacere. Il film, alla base cui base c’è un romanzo dallo stesso titolo di Erling Jepsen (1956) edito nel 2004, è girato in modo molto professionale con un utilizzo assai efficace del paesaggio. E’ una storia in cui confluiscono temi individuali, metafore sociali, citazioni del grande cinema americano. Un po’ troppa carne al fuoco, che rischia di compromettere il bilancio di un’opera per molti versi interessante e ben costruita da cui sgorga uno sguardo originale su una situazione ricca di suggestioni e rimandi. Da segnalare, in modo particolare, l’intreccio fra notazioni psicologiche e un modo di raccontare tipico del cinema nero, con atmosfere cupe, improvvise aperture tragiche, paesaggi desolati.