38a Settimana del Film Magiaro - Pagina 5

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38a Settimana del Film Magiaro
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Dolina
C’è, infine, un pugno di titoli che potremo definire colti e sperimentali, una pattuglia che va dalla ricostruzione letteraria alla ricerca più spinta. Ne fanno parte opere come Az emigráns – Minden másképp van (L’emigrato – Ogni cosa è diversa) di Györgyi Szalai e István Dárday, due autori che sono stati fra i nomi di spicco della famosa scuola del documentario falso che segnò profondamente il percorso creativo del cinema magiaro negli anni ottanta. Questa volta quella strada – realizzare opere come fossero documentari, ma con una struttura di finzione tradizionale - è applicata ad una biografia che mette a fuoco gli ultimi mesi di vita dello scrittore Sándor Márai (1900 – 1989) andato in volontario esilio negli Stati Uniti nel 1947 e lì vissuto sino alla morte. Il film ne segue la disperazione, dopo la morte della moglie, il lento precipitare verso l’abbandono, sino al suicidio alla vigilia del novantesimo compleanno, pochi mesi prima del crollo del regine social – realista. E’ un’analisi attenta del mondo e del lavoro di un grande intellettuale, ma aggiunge assai poco a quanto già sapevamo. Az érsek látogatása (titolo internazionale: Dolina) di Zoltán Kamondi è un’opera che fa leva sul fantastico e la metafora. In un tempo non definito, forse post guerre di religione, il mondo è ridotto ad un ammasso d’immondizia, lande semidesertiche, case dirute, penuria. In questo scenario apocalittico, ove il potere è nelle mani di una casta religiosa, un giovane (interprete Adriano Giannini, figlio di Giancarlo Giannini e della regista Livia Giampalmo) arriva per disseppellire le salma del padre e recuperare una preziosa pianta medicinale. Subito derubato e picchiato, finisce per essere considerato un paria e dividere l’esistenza con i più poveri. Dopo molte fatiche riuscirà, forse, a ritornare nelle terre occidentali, portando con se i semi di una preziosa pianta medicinale. Il film è tratto, molto liberamente, da un romanzo, pubblicato nel 1999, di Ádám Bodor, qui presente come sceneggiatore assieme al regista, che costituisce una dolorosa e allucinante metafora dei cambiamenti avvenuti nella società magiara sia con la caduta del regime realsocialista, sia con il trionfo del capitalismo. Di tutto questo è rimasto assai poco in un’opera che pencola sul versante dei film catastrofici, ambientati in mondo prossimo venturo. La confezione è abile, ma in parte compromessa dalle limitate doti dell’interprete principale. Un’ultima nota, poco più di una segnalazione, per l’ultimo lavoro di Miklós Jancsó: Ede Megevé Ebédem (Lo spuntino di Ed). Dopo la scomparsa, nel luglio del 2005, del suo sceneggiatore e complice Gyula Hernádi, l’ottantacinquenne regista de L’armata a cavallo (Csillagosok katonák, 1967) prosegue e, forse, chiude la serie di sei opere interpretate da due comici, Zoltán Mucsi (Kapa) e Péter Scherer (Pepe), passati dal ruolo di netturbini, a quello di necrofori, alla funzione di nuovi affaristi, mafiosi e, ora, vincitori, a ripetizione, di premi della lotteria. E’ un’insieme di opere in cui, solo a tratti, si scorge la grandezza inventiva di questo regista, inventore dei piani – sequenza assunti a stilema narrativo, mentre emerge con forza il gusto per una satira feroce della società post-socialista. Una proposta che scatena numerose risate fra gli spettatori, ma che sconcerta chi non può cogliere i giochi linguistici e i riferimenti pungenti a situazioni e personaggi della cronaca magiara.