38a Settimana del Film Magiaro

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38a Settimana del Film Magiaro
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Image Il cinema ungherese celebra la rivolta del 1956.
Budapest - Il 2006 ha segnato il cinquantesimo anniversario della rivoluzione ungherese (23 ottobre – 11 novembre) del 1956, una rivoluzione schiacciata dai carri armati del Patto di Varsavia e seguita da una lunga scia di repressioni e impiccagioni, arrivare sino agli albori degli anni sessanta. Era ovvio che, fra ricordi e celebrazioni, s’inserisse anche il cinema con un ventaglio di titoli che vanno dai disegni animati, ai film narrativi, ai documentari. La 38ma edizione della Settimana del Cinema Magiaro ha testimoniato questa tensione mai sopita con opere di diverso valore, ma unite da un comune senso della memoria nazionale e dell’omaggio alle migliaia di caduti, il cui numero è tuttora frutto d’ipotesi.
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Mansfeld
Fra i film narrativi merita una segnalazione particolare Mansfeld d’Andor Szilágyi, dedicato ad un giovane che non si è rassegnato alla sconfitta e che due anni dopo, con alcuni amici, sequestra un poliziotto. E’ un’azione dimostrativa, poco più che una ragazzata, come finiscono col capire gli stessi inquirenti, ma che serve al potere per inscenare un processo-simbolo teso a dimostrare la pericolosità dei fascisti controrivoluzionari. E' un dibattito senza difesa e si chiude con la condanna a morte del giovane Péter Mansfeld che si è assunto ogni responsabilità. Il film, ispirato ad un personaggio realmente esistito, ha il taglio della classica opera di denuncia politica ed è realizzato molto bene, ma innova poco a livello di stile. E' molto meglio il disegno animato che Danila Kostil ha dedicato alla stessa tragedia, In memoriam, in cui si ripercorre, in pochi minuti, il Calvario del giovane con disegni straziati commentati da brani della sentenza di condanna a morte. Un piccolo gioiello di pietà e intelligenza.

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I figli della gloria
Giusto il contrario della grandiosa pomposità di Szabagság Szerelem (Figli della gloria), una superproduzione di tipo hollywoodiano in cui Krisztina Goda racconta - in più di due ore dense di scontri, cannonate e battaglie stradali - la storia d’amore fra una rivoluzionaria e un giocatore della nazionale ungherese di pallanuoto, la squadra che vincerà le olimpiadi di Melbourne. E' un superspettacolo in cui la tragedia collettiva si trasforma in semplice sfondo. Altre opere si sono rivolte a questo particolare snodo storico. Budakeszi Srácok (Il ragazzo di Budakeszi), del veterano Pál Erdóss, ha per sfondo un ospedale di una cittadina di provincia. Qui un ragazzino, allevato dalla madre con molti sacrifici, dopo che il padre è scomparso in una delle molte purghe volute dai sovietici, vive i giorni turbinosi della rivolta come un’innata ricerca della giustizia. Proprio quando le cose stanno volgendo al peggio per i ribelli, imbraccerà mitra e bandiera nazionale e andrà verso la morte. E’ un’opera professionalmente corretta, ma aggiunge poco o niente a quanto già conosciamo, né si fa apprezzare per scelte espressive particolarmente originali. Peccato, perché quest’autore aveva dato, in passato, prove molto promettenti come in Adj kirákatoná! (Principessa, 1983) e Homo Novus (1990). Molto interessante anche il materiale documentario riunito da Gyula Gulyás in Questo è il tempo, un video di circa mezz’ora in cui si sviluppa una profonda indagine su quei giorni drammatici partendo da fotografie amatoriali e professionali.
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Fine
Il ricordo di quella lontano dramma non è stato il solo tema affrontato dai cineasti magiari, alcuni dei quali hanno firmato opere d’ottimo livello. Konyec – Az utolsó scekk a pohárban (Fine) è un bel film di Gábor Rohonyi in cui si raccontano, fra l’ironico e il drammatico, i triboli di una coppia di pensionati. I due si erano conosciuti nel pieno delle repressioni post 1956 (lei si nascondeva e lui, l’agente che doveva scovarla, l’aveva salvata) e oggi, oppressi dalle difficoltà economiche, decidono di mettersi a rapinare banche e uffici postali. La loro storia è s’intreccia con quella di una poliziotta incinta di un collega finito in uno scandalo piccante per essere stato fotografato, mentre faceva sesso con una prostituta. Finale è a sorpresa e il film è molto simpatico in costante equilibrio fra riso e malinconia, sociologia e farsa. La performance dei due protagonisti, Földi Teri e Keres Emil, ha dello straordinario. Sempre in tema di problemi causati agli anziani dalla nuova economia c’è da segnalare A Hét Nyolcadik Napja (L’ottavo giorno della settimana) di Judit Elek in cui si racconta la discesa agli inferi di un’anziana stella del balletto (interpretata dalla sempre straordinaria Maja Komoroswska) che, rimasta vedova, si vede spogliare d’ogni bene da un’avvocatessa disonesta. Ciò che conta è il quadro di una società in cui la lotta per arricchirsi travolge ogni argine morale e distrugge qualsiasi remora umana. E’ un film lodevole nelle intenzioni, assai meno riuscito sul piano della costruzione estetica e della coerenza stilistica.
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Oppio
C’è stato, poi, un gruppo di film particolarmente importanti. Iniziamo con Ópium - Egy Elmebeteg Nő Naplója (Oppio – Diario di una pazza) di János Szász, vincitore del premio decretato dai critici internazionali. E’ il 1913 e, in un ospedale psichiatrico più simile ad un girone infernale che ad una casa di cura, si scontrano uno psichiatra morfinomane e un direttore fedele ai vecchi metodi. fatti di bagni in acqua gelata, scosse elettriche, camicie di forza. L’oggetto della contesa è una giovane ricoverata che sfoga la sua schizofrenia scrivendo compulsivamente su ogni cosa che le capita a tiro. In realtà il confronto si traduce ben presto in uno scontro fra l’analista e la paziente, metafora di un più ampio fronteggiarsi di follia come creatività libera e metodo quale gabbia in cui rinchiudere e neutralizzare ogni immaginazione. Il terreno di comunicazione fra i due finirà per essere solo quello del sesso e l’atto estremo del medico, la lobotomizzazione della poveretta, avrà anche il segno di un gesto d’amore. E’ una soluzione intrisa di dolore e cupamente illuminata dalla fiamme del rogo che brucia ciò che la donna aveva scritto, riferimento ad altri falò di libri. Il film muove su due strade: un’atmosfera da incubo, elemento caro a questo regista di cui ricordiamo uno straordinario Woyzeck (1994), e una tenebrosa ricostruzione dello scontro fra libertà della fantasia e oppressione. Ne nasce un’opera cupamente intelligente, un monito e un grido di dolore di grande forza. L’interpretazione di Kristi Stubǿ è oltre ogni lode.

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Frammento
Metafore forti anche in Tőredék (Frammento) di Gyula Maár in cui un gruppo di religiosi e alcuni laici si ritrovano in un monastero, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, mentre stanno per arrivare alcuni emissari russi con il compito di uccidere uno di loro. L’attesa è segnata da discussioni filosofiche da cui traspaiono almeno tra posizioni: quella di un religioso che vuole unire comunismo e pratica cristiana, quella di chi tenta di adattarsi alla situazione e quella, infine, d’alcuni possidenti più che disposti a trovare un accordo con i nuovi padroni. Sarà il primo ad essere ucciso, mentre gli occupanti saranno ben lieti di accordarsi con gli altri. E’ una parabola che denuncia il martirio della purezza, in nome della ragione di stato, la sconfitta della coerenza da parte dell’opportunismo. E' un testo doloroso e pessimista magistralmente interpretato e filmato in uno struggente bianco e nero.
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Il viaggio di Iska
Colori slavati e marcescenti, invece, per Iszka Uraszása (Il viaggio d’Iszka), vincitore del maggior riconoscimento della manifestazione. Il regista Csaba Bollók racconta il calvario, dalla miseria alla prostituzione, di duna ragazzina che vive in una poverissima regione della Transilvania e campa raccogliendo pezzi di metallo da rivendere per poche monete. La sua triste esistenza ha un attimo di sollievo, quando è accolta in una comunità caritatevole; breve pausa che precede un inferno ancor maggiore nel giro del traffico delle donne da destinare al meretricio in Turchia. Il film è girato magnificamente, con stile da documentario, e coglie suggestioni che vanno da Luc e Jean-Pierre Dardenne (Rosetta, 1999) ad Amos Gitai (Terra Promessa, 2004). E’ un formidabile ritratto psicologico e un panorama doloroso del degrado di questa parte del paese, vero emblema di molte regioni in cui il crollo dell’industria pesante, un tempo sovvenzionata dallo Stato, ha aperto orrende ferite sociali. Il taglio equilibra analisi psicologica e affresco sociale, in un’opera di forte impatto morale. Boldog új élet (Felice vita nuova) di Árpád Bogdán è un film molto raffinato, girato in maniera modernissima nello scenario di una città asettica, misteriosa, non identificata. Qui un giovane orfano, che non ha mai conosciuto i genitori, vive solitario in un povero appartamento. La sua esistenza oscilla fra sogni e delusioni, lampi di speranza e frustrazioni. E’ il quadro di un’esistenza smarrita, immersa in immagini gelide. Un’opera più formalmente perfetta che autenticamente ispirata.
Qualche cosa di simile accade anche in Emelet (Errore di calcolo) di János Vecsernyés. In una società non meglio definita, il potere, apparentemente democratico, si mantiene reprimendo ogni dissenso con la tortura e la violenza. Un ricco proprietario di supermercati vive, agiato e tranquillo, in questo clima cupo e oppressivo. Suo figlio, al contrario, mostra inquietudine e turbamenti morali davanti ai crimini commessi dal potere. Il padre, per assecondarlo, gli fa credere che stia partecipando ad una congiura rivoluzionaria, in realtà un’operazione di pura fantasia. Purtroppo per lui, la polizia politica crede al complotto e arresta, tortura e uccide sial il padre che il figlio. La morale è quella, ben espressa dal titolo, secondo cui non ci possono essere furbizie personali all’interno di un regime tirannico e che anche chi crede di trarne vantaggi, finiscono con l’esserne schiacciati. Il film, in bianco e nero, ha immagini costruite con una perfezione geometrica che ricorda alcuni quadri informali, ma, ancora una volta, la lucidità della confezione nasconde un disegno costruito a tavolino e assai poco partecipato. Più belle linee di sangue e carne.

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Citera
Accanto ai testi citati sinora c’è stato, poi, una ampio ventaglio d’opere che potremmo definire commerciali, in modo generico. Vale a dire film professionalmente corretti, ma costruiti tenendo d’occhio più il botteghino che non una reale esigenza di comunicazione. Spesso si tratta di copie, qualche volta raffinate, di modelli reperibili sul grande circuito internazionale, come Lora di Gábor Herendi, una storia d’amore ad alta tensione melodrammatica con una ragazza che ritrova il senso della vita dopo essere diventata cieca per il senso di colpa che le deriva dall’aver causato, involontariamente, la morte del fidanzato. Altro testo di genere lo offre Kitera di Pèter Mészáros, che prende spunto da un quadro di Jean Antoine Watteau (L'imbarco per Citera, 1717) per raccontare la storia triste e prevedibile di una coppia formata da una donna buona e romantica che ha per compagno un cialtrone maschilista. Discorso simile per Férfiakt (Uomini a nudo) in cui Károly Esztergályos racconta i problemi di uno scrittore, nascostamente omosessuale, che s’innamora di un ben marchettaro. Un sottogenere di questo filone, più attento agli incassi che ad un’ispirazione autentica, lo offrono le commedie. Va detto subito che questo tipo di film, un tempo gravato da una teutonica pesantezza, si è venuto raffinando, anche grazie alla bravura di una pattuglia d’attori di lunga esperienza. Non a caso sono, ad esempio, tre mostri sacri come Dezső Garas, Ferenc Kállai e Mari Törőcsik a rendere appetibile una modesta commedia come Noé Bárkája (L’arca di Noé). La storia è quella di un concorso televisivo da cui dovrebbe emergere il miglior nonno d’Ungheria. Un anziano regista, ora in pensione, partecipa alla gara con la segreta speranza di potersi comprare un’Harley Davidson, in sella alla quale compiere un viaggio alla maniera d’Easy Rider (Dennis Hopper, 1969). Laddove l’elemento attoriale s’indebolisce, come S.O.S. Szerelm! (S.O.S. Amore) di Tamás Sas – una commediaccia basata sugli scontri fra due aziende che promettono ai loro clienti meraviglie nell’arte di conquistare uomini e donne – tutto si sfalda e rimane solo un tessuto debole, privo di qualsiasi interesse.

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Dolina
C’è, infine, un pugno di titoli che potremo definire colti e sperimentali, una pattuglia che va dalla ricostruzione letteraria alla ricerca più spinta. Ne fanno parte opere come Az emigráns – Minden másképp van (L’emigrato – Ogni cosa è diversa) di Györgyi Szalai e István Dárday, due autori che sono stati fra i nomi di spicco della famosa scuola del documentario falso che segnò profondamente il percorso creativo del cinema magiaro negli anni ottanta. Questa volta quella strada – realizzare opere come fossero documentari, ma con una struttura di finzione tradizionale - è applicata ad una biografia che mette a fuoco gli ultimi mesi di vita dello scrittore Sándor Márai (1900 – 1989) andato in volontario esilio negli Stati Uniti nel 1947 e lì vissuto sino alla morte. Il film ne segue la disperazione, dopo la morte della moglie, il lento precipitare verso l’abbandono, sino al suicidio alla vigilia del novantesimo compleanno, pochi mesi prima del crollo del regine social – realista. E’ un’analisi attenta del mondo e del lavoro di un grande intellettuale, ma aggiunge assai poco a quanto già sapevamo. Az érsek látogatása (titolo internazionale: Dolina) di Zoltán Kamondi è un’opera che fa leva sul fantastico e la metafora. In un tempo non definito, forse post guerre di religione, il mondo è ridotto ad un ammasso d’immondizia, lande semidesertiche, case dirute, penuria. In questo scenario apocalittico, ove il potere è nelle mani di una casta religiosa, un giovane (interprete Adriano Giannini, figlio di Giancarlo Giannini e della regista Livia Giampalmo) arriva per disseppellire le salma del padre e recuperare una preziosa pianta medicinale. Subito derubato e picchiato, finisce per essere considerato un paria e dividere l’esistenza con i più poveri. Dopo molte fatiche riuscirà, forse, a ritornare nelle terre occidentali, portando con se i semi di una preziosa pianta medicinale. Il film è tratto, molto liberamente, da un romanzo, pubblicato nel 1999, di Ádám Bodor, qui presente come sceneggiatore assieme al regista, che costituisce una dolorosa e allucinante metafora dei cambiamenti avvenuti nella società magiara sia con la caduta del regime realsocialista, sia con il trionfo del capitalismo. Di tutto questo è rimasto assai poco in un’opera che pencola sul versante dei film catastrofici, ambientati in mondo prossimo venturo. La confezione è abile, ma in parte compromessa dalle limitate doti dell’interprete principale. Un’ultima nota, poco più di una segnalazione, per l’ultimo lavoro di Miklós Jancsó: Ede Megevé Ebédem (Lo spuntino di Ed). Dopo la scomparsa, nel luglio del 2005, del suo sceneggiatore e complice Gyula Hernádi, l’ottantacinquenne regista de L’armata a cavallo (Csillagosok katonák, 1967) prosegue e, forse, chiude la serie di sei opere interpretate da due comici, Zoltán Mucsi (Kapa) e Péter Scherer (Pepe), passati dal ruolo di netturbini, a quello di necrofori, alla funzione di nuovi affaristi, mafiosi e, ora, vincitori, a ripetizione, di premi della lotteria. E’ un’insieme di opere in cui, solo a tratti, si scorge la grandezza inventiva di questo regista, inventore dei piani – sequenza assunti a stilema narrativo, mentre emerge con forza il gusto per una satira feroce della società post-socialista. Una proposta che scatena numerose risate fra gli spettatori, ma che sconcerta chi non può cogliere i giochi linguistici e i riferimenti pungenti a situazioni e personaggi della cronaca magiara.

I premi
FILM NARRATIVI
Primo premio per il film di genere KONYEC regia di GÁBOR ROHONYI
Miglior regusta: JÁNOS SZÁSZ per OPIUM - DIARY OF A MADWOMAN
Migliore fotografia: TIBOR MÁTHÉ per OPIUM - DIARY OF A MADWOMAN
Migliore opera prima: ÁRPÁD BOGDÁN for HAPPY NEW LIFE
Migliore scenografia: GYÖRGY ÁRVAI, EDIT SZÛCS, JÁNOS BRECKL, GÁBOR MEDVIGY e ZOLTÁN KAMONDI per DOLINA
Migliore sceneggiatura: JUDIT ELEK per THE EIGHTH DAY OF THE WEEK
Miglior attrice: KATA KOVÁCS per KYTHERA
Miglior attore: SÁNDOR ZSÓTÉR per FRAGMENT
Miglior musica originale: MEMBRÁN for HAPPY NEW LIFE
Miglior produttore: GÁBOR SIPOS e GÁBOR RAJNA della LAOKOON FILM
Miglior montaggio: JUDIT CZAKÓ per ISKA’S JOURNEY e KYTHERA
Miglior sonoro: ISTVÁN SIPOS, MANUEL LAVAL e MATTHIAS SCHWAB per OPIUM - DIARY OF A MADWOMAN
Menzione speciale: SLOW MIRROR di IGOR e IVAN BUHAROV
GENE MOSKOWITZ PRIZE assegnato dai professionisti stranieri presenti alla rassegna: OPIUM - DIARY OF A MADWOMAN di JÁNOS SZÁSZ
Premio del pubblico assegnato via internet: KONYEC di GÁBOR ROHONYI
Premio dell'associazione degli esercenti ungheresi: CHILDREN OF GLORY diretto da KRISZTINA GODA
Premio della tadiotelevisione (ORTT): JUST SEX AND NOTHING ELSE directed by KRISZTINA GODA
Film corti e sperimentali
Miglior film sperimentale: HYPOCRITICAL SAINT di NICOLAUS MYSLICKI
Premio speciale per la regia: DÉNES NAGY per TOGETHER
Miglior fotografia: MÁTÉ TÓTH WIDAMON per ALTEREGO
Menzione speciale: LILI HORVÁTH per SUMMER HOLIDAY
Documentari
Miglior regista: EDIT KÕSZEGI pre ESCAPE INTO LOVE
Miglior fotografia: CSABA TALÁN per PREDESTINATED (regia Barbara Vági e Csaba Talán)
Premio PÁL SCHIFFER: RÉKA PIGNICZKY per JOURNEY HOME: A STORY FROM THE HUNGARIAN REVOLUTION OF 1956
Menzioni speciali: MISS UNIVERSE 1929 - LISL GOLDARBEITER - A QUEEN IN WIEN di PÉTER FORGÁCS
THIS IS THE TIME di GYULA GULYÁS
WHY?! THE STORY OF A TRAGIC LOVE AFFAIR di BÉLA SZOBOLITS
THE FACE OF THE REVOLUTION – IN SEARCH OF A BUDAPEST GIRL di ATTILA KÉKESI
Premio della pari opportunità: THEY LIVE THEIR LIVES – SUB-CARPATHIAN SOAP OPERA di
DEZSÕ ZSIGMOND
Documentari scientifici
Primo premio: A FIERY AUTUMN IN THE COLD WAR – HUNGARY IN 1956 di JUDIT KÓTHY, JUDIT TOPITS
Miglior regista: ANDRÁS DÉR per THE SEVEN DEADLY SINS (ARE THEY SINS?)
Miglior soggetto: ZSOLT MARCELL TÓTH per BUDAPEST WILD

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38a Settimana del Film Magiaro
2007
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