Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival - Pagina 2

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Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival
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La paura di Dio nell'uomo

Si sono visti, poi, due film particolarmente importanti. Il primo è stato proprio il già citato Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan che affronta il tema del fanatismo religioso sotto forma degli incubi e del senso di colpa che possiedono, sino a condurlo alla follia, l’economo di un gruppo religioso che si richiama all’Islam più radicale. Il protagonista della vicenda vive poveramente, avendo rinunciato a qualsiasi rapporto mondano, inclusi quelli sessuali, e lavorando come servo d’ufficio di un commerciante di sacchi. La sua devozione lo fa notare dal capo religioso di una ricca comunità derviscia che lo eleva a cassiere. Riscuotendo affitti, saldando fatture, facendo operazioni in banca viene a contatto con problemi, comportamenti, movimenti di denaro che ne intaccano la fede sino ad indurlo ad un piccolo furto. Il rimorso lo sconvolge sino al punto di farlo uscire di senno. Il film tratta un tema importante e svolge un ruolo di primo piano nel dibattito in questo periodo in corso in Turchia a proposito di laicità e fanatismo religioso, tuttavia l’obiettivo non appare centrato. La prima parte ha un tono quasi neorealista e funziona assai bene nel descrivere la piccola vita di un piccolo uomo, mentre la seconda, con le intrusioni di sogni, fantasticherie erotiche, immagini virate e deformate fa precipitare il film in un melodramma psicologico poco convincente. L’attore principale, Müfit Aytekin, è davvero molto bravo, ma neppure la sua arte riesce a sorreggere il film quando precipita verso lo psicodramma già visto molte altre volte. L’opera, che riveste un importante senso politico per gli spettatori turchi, ha ottenuto una valanga di riconoscimenti: premio per l’attore protagonista, sceneggiatura, fotografia, direzione artistica, musica, costumi, trucco e, come già segnalato, lavoro di laboratorio.
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Ritorno a casa

Anche Eve Dönüş (Ritorno a casa) di Ömer Uğur appartiene alla categoria delle opere politicamente importanti, ma stilisticamente medi. E’ uno dei quei titoli che non passeranno alla storia del cinema, ma che era necessario realizzare in questo momento politico. La storia è quella di uno dei tanti poveracci arrestati per errore, torturati, emarginati, messi al bando negli anni che seguono dopo il colpo di stato del 12 settembre 1982, quando non pochi lavoratori furono incarcerati quali pericolosi agitatori, studenti inermi accusati di terrorismo, intellettuali imprigionati senza alcuna giustificazione. Una lunga galleria di esseri umani umiliati, massacrati di botte, menomati in modo irreparabile, licenziati, indicati alla pubblica opinione come pericolosi bombaroli. Mustafa e sua moglie sognano una tranquilla vita borghese, tanto che lui si è iscritto al sindacato più perché spinto dai colleghi che per intima convinzione. Prelevato dalla sezione politica della polizia è torturato per ventidue giorni, prima che i suoi inquisitori si rendano conto di aver arrestato la persona sbagliata. Il film è di quelli che colpiscono violentemente allo stomaco con immagini truci, ma ha il merito di portare alla pubblica discussione le vergogne di una fase tutt’altro che archiviata in un paese costantemente in bilico fra autoritarismo e democrazia, rispetto dei diritti umani e cieca repressione. Alla prima proiezione il pubblico ha applaudito commosso e non pochi fra gli ospiti stranieri sono stati colpiti dall’imponente massa di cifre che scorrono assieme ai titoli di coda: seicentomila gli imprigionati, migliaia i morti in prigione o sotto tortura, decine le condanne a morte e via elencando. Un presa di posizione coraggiosa che fa perdonare la piattezza stilistica che segna buona parte del film.
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Aspettando il Paradiso

Il discorso è parzialmente rovesciato nel caso di Canneti Beklerken (Aspettando il Paradiso) di Derviş Zaim che conferma la tendenza a negare gli esordi realisti e socialmente forti del suo primo film, Tabutta Rövaşata (Capriole nella bara, 1996) in favore di un cinema di grandi mezzi, stilisticamente composito, orientato ai grandi temi morali. In questo caso siamo nell’impero ottomano del 17mo secolo, con le lotte fra il Sultano in carica e un pretendente che viene dalla Spagna e vanta di essere l’erede al trono, in quanto figlio di una dalle concubine del precedente monarca. Il tutto è filtrato attraverso la storia di un miniaturista, che ha perso moglie e figlio e non riesce ad elaborare il lutto, cui il potere assegna il compito di seguire un drappello militare per ritrarre il volto del ribelle prigioniero condannato a morte. L’artista accetta solo perché obbligato con la forza e, assieme ad una ragazza orfana raccattata lungo la strada, finisce col passare dalla parte dei rivoltosi e dipingere per il pretendente iberico un quadro, che cita apertamente Las Meninas di Diego Velazquez, che ne legittimerebbe i titoli in quanto nuovo Messia. Ritorno ad Istanbul e alla vita d’artista con una nuova moglie e il ritrovato fido discepolo. Il film ha uno stile che mira a riprodurre quello delle miniature, da cui immagini rovesciate, punti di vista diversi della stessa inquadratura, uso di effetti speciali su sfondi di antichi documenti. Un sovraccarico di impostazioni che lo rende confuso e che alterna panorami da cartolina, immagini inutilmente rovesciate, disegni animati, inquadrature contornate da cornici e ugualmente poco chiaro sul piano tematico che sembra ruotare attorno all’impossibilità di forzare l’arte agli interessi della politica. Ne risulta un piatto piuttosto indigesto e, a tratti, oscuro.