Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival

Stampa
PDF
Indice
Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival – 2° Eurasia Film Festival
Pagina 2
Pagina 3
Pagina 4
Pagina 5
I premi
Galleria fotografica
Tutte le pagine
Image 43mo Arancia d’Oro Film Festival d’Antalya – 2° Eurasia Film Festival.
Il Festival del cinema d’Antalya, città del sud anatolico turco, ha almeno due anime. La prima riguarda la sezione dedicata al film nazionale, che si tiene da ben 43 anni avendo acquistato, con il passare degli anni un’attrazione molto forte per i cineasti di questo paese, anche grazie a cospicui premi in denaro che partono da oltre 150 mila euro per il miglior film scendendo, in ogni caso, non sotto i 10 mila euro per le categorie quali migliore musica. Da due anni a questa parte, poi, alla competizione nazionale si è affiancato un festival, diviso in più sezioni, denominato Eurasia la cui ragione dovrebbe essere quella di gettare un ponte fra i cineasti dei due continenti. Anche in questo caso sostanziosi assegni accompagnano la consegna delle statuette dorate e argentate. In poche parole, una rassegna che dispone di consistenti risorse economiche, come hanno dimostrato le feste che hanno accompagnato la presentazione di tutti i film in concorso. Sono denari che arrivano da una lista di sponsor, in testa la società tedesca di supermercati real,-, anche se non mancano gli apporti della municipalità, una delle più ricche del paese grazie al richiamo turistico della provincia, una sorta di Rimini asiatica. La parte nuova della rassegna si è rivelata quella più debole e, anche se non sono mancati i titoli interessanti, è stata caratterizzata, in maggioranza, da opere già viste in altre manifestazioni internazionali come Cannes, Karlovy Vary, Berlino e via elencando.

Image
Destino
Veniamo, dunque, al settore nazionale segnato da quattro opere di buon interesse. La palma della vittoria è andata a Kader (Destino) Zeki Demirkubuz, un regista fra i più indicativi della nuova generazione di cineasti turchi - autore di film come Musumiyet (L’innocenza, 1997), Üçüncü sayfa (Terza pagina, 1999) e Yazgi (Destino, 2001). In quest’ultimo lavoro ritorna ai temi a lui cari proponendo l’antifatto del testo del 1997. Il discorso, quasi ossessivo, ruota attorno al sogno della donna, la sua fascinazione impossibile, la follia che induce la sua presenza o la sua assenza. E’ un tema già presente in C Blok (Blocco C, 1994), suo film d’esordio, e confermato, appunto, in Musumiyet. Un giovane gestore di un negozio di tappeti s’innamora perdutamente di una ragazza entrata, quasi per caso, nella sua bottega. Il sogno del possesso di quella donna diventa per lui una follia che lo induce a rovinarsi economicamente, distruggere il matrimonio e a girovagare inseguendola anche dopo aver scoperto che è una sorta di prostituta, amante di un assassino ora in prigione e che lei segue da carcere in carcere. Sono due amori impossibili, quello suo per una figura femminile, più sognata che reale, e quello di lei per il detenuto; passioni spinte sino ai gesti inconsulti e alla distruzione fisica e morale. Il film è pieno di momenti ripetitivi, quasi che il regista non sia convinto di aver esposto in modo sufficientemente chiaro il suo assunto. E’ un’opera dall’equilibrio precario, ma molto ben girata e stilisticamente solida. Rimane la sorpresa nel constatare una sorta d’immaginario cattolico, in un cineasta, dal passato di militante politico di sinistra, si spinge sino a guardare alle figure femminili come a un ricettacolo di tentazioni demoniche, albergo di vizi e perdizione per gli uomini che se ne lasciano attrarre.
Image
Climi
Sulla stessa linea d’analisi psicologica dei rapporti uomo – donna si muove anche l’opera più interessante presente nella selezione e già vista al Festival di Cannes, ove ha vinto il premio dei critici internazionali (FIPRESCI): Iklimler (Climi) di Nuri Bilge Ceylan, un autore che incarna una delle voci nuove del cinema mondiale avendo solo quattro lungometraggi all’attivo: Uzak (Distante, 2002), Mayis sikintisi (Nubi di maggio, 1999), Kasaba (La cittadina, 1998). Questo suo ultimo lavoro è fedele allo stile antonioniano che predilige: lunghi piani - sequenza, poche parole, immagini perfette di un paesaggio freddamente indifferente alle turbe emozionali dei personaggi. E' una storia che ruota attorno alla crisi sentimentale ed esistenziale fra un professore d’arte e una direttrice artistica televisiva. I due vanno in vacanza al mare e lì esplode il conflitto, lei tenta di ucciderlo e suicidarsi, poi lo lascia. Passano i mesi e l'uomo è sempre più solo e melanconico, neppure un ritorno di fiamma con un’ex – amante, per la verità più simile ad uno stupro che ad un atto d’amore, serve a lenire la malinconia e il dolore. La compagna, nel frattempo, ha accettato di seguire la lavorazione di una serie tv che si gira all’interno del paese, in zone gelide e innevate, per cui lui parte alla sua ricerca e, quando la trova, riesce a convincerla di essere cambiato e pronto a trattarla come un essere umano autonomo e non come una sua proprietà. La donna si lascia persuadere, ma bastano pochi gesti prima del ritorno ad Istanbul, a farle capire che nulla è mutato e che il compagno è sempre il maschilista, mentitore e soprafattore di sempre. Il film termina su un primissimo piano della donna, dal cui viso traspare l’incertezza sul da fare. E’ un’opera meravigliosa per il modo in cui dissemina piccole tracce, ma pesanti come macigni, sul carattere dei due protagonisti. E’ uno dei discorsi più intelligenti femministi visti negli ultimi anni, una perorazione a favore dell’indipendenza delle donne che non dimentica, anzi evidenzia, il dolore, la melanconia, l’insicurezza psicologica degli uomini. Un film perfetto con una fotografia eccezionale – il regista viene da questa professione – e con un amore per la protagonista, compagna di vita del cineasta, che traspare da ogni inquadratura che gli è dedicata. Un’opera forte ed espressivamente straordinaria. Ad Antalya ha vinto ben cinque premi: miglior regia, migliore attrice non protagonista, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior lavoro in laboratorio ( ex – aequo con Takva di Özer Kizlitan).

Image
La paura di Dio nell'uomo

Si sono visti, poi, due film particolarmente importanti. Il primo è stato proprio il già citato Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan che affronta il tema del fanatismo religioso sotto forma degli incubi e del senso di colpa che possiedono, sino a condurlo alla follia, l’economo di un gruppo religioso che si richiama all’Islam più radicale. Il protagonista della vicenda vive poveramente, avendo rinunciato a qualsiasi rapporto mondano, inclusi quelli sessuali, e lavorando come servo d’ufficio di un commerciante di sacchi. La sua devozione lo fa notare dal capo religioso di una ricca comunità derviscia che lo eleva a cassiere. Riscuotendo affitti, saldando fatture, facendo operazioni in banca viene a contatto con problemi, comportamenti, movimenti di denaro che ne intaccano la fede sino ad indurlo ad un piccolo furto. Il rimorso lo sconvolge sino al punto di farlo uscire di senno. Il film tratta un tema importante e svolge un ruolo di primo piano nel dibattito in questo periodo in corso in Turchia a proposito di laicità e fanatismo religioso, tuttavia l’obiettivo non appare centrato. La prima parte ha un tono quasi neorealista e funziona assai bene nel descrivere la piccola vita di un piccolo uomo, mentre la seconda, con le intrusioni di sogni, fantasticherie erotiche, immagini virate e deformate fa precipitare il film in un melodramma psicologico poco convincente. L’attore principale, Müfit Aytekin, è davvero molto bravo, ma neppure la sua arte riesce a sorreggere il film quando precipita verso lo psicodramma già visto molte altre volte. L’opera, che riveste un importante senso politico per gli spettatori turchi, ha ottenuto una valanga di riconoscimenti: premio per l’attore protagonista, sceneggiatura, fotografia, direzione artistica, musica, costumi, trucco e, come già segnalato, lavoro di laboratorio.
Image
Ritorno a casa

Anche Eve Dönüş (Ritorno a casa) di Ömer Uğur appartiene alla categoria delle opere politicamente importanti, ma stilisticamente medi. E’ uno dei quei titoli che non passeranno alla storia del cinema, ma che era necessario realizzare in questo momento politico. La storia è quella di uno dei tanti poveracci arrestati per errore, torturati, emarginati, messi al bando negli anni che seguono dopo il colpo di stato del 12 settembre 1982, quando non pochi lavoratori furono incarcerati quali pericolosi agitatori, studenti inermi accusati di terrorismo, intellettuali imprigionati senza alcuna giustificazione. Una lunga galleria di esseri umani umiliati, massacrati di botte, menomati in modo irreparabile, licenziati, indicati alla pubblica opinione come pericolosi bombaroli. Mustafa e sua moglie sognano una tranquilla vita borghese, tanto che lui si è iscritto al sindacato più perché spinto dai colleghi che per intima convinzione. Prelevato dalla sezione politica della polizia è torturato per ventidue giorni, prima che i suoi inquisitori si rendano conto di aver arrestato la persona sbagliata. Il film è di quelli che colpiscono violentemente allo stomaco con immagini truci, ma ha il merito di portare alla pubblica discussione le vergogne di una fase tutt’altro che archiviata in un paese costantemente in bilico fra autoritarismo e democrazia, rispetto dei diritti umani e cieca repressione. Alla prima proiezione il pubblico ha applaudito commosso e non pochi fra gli ospiti stranieri sono stati colpiti dall’imponente massa di cifre che scorrono assieme ai titoli di coda: seicentomila gli imprigionati, migliaia i morti in prigione o sotto tortura, decine le condanne a morte e via elencando. Un presa di posizione coraggiosa che fa perdonare la piattezza stilistica che segna buona parte del film.
Image
Aspettando il Paradiso

Il discorso è parzialmente rovesciato nel caso di Canneti Beklerken (Aspettando il Paradiso) di Derviş Zaim che conferma la tendenza a negare gli esordi realisti e socialmente forti del suo primo film, Tabutta Rövaşata (Capriole nella bara, 1996) in favore di un cinema di grandi mezzi, stilisticamente composito, orientato ai grandi temi morali. In questo caso siamo nell’impero ottomano del 17mo secolo, con le lotte fra il Sultano in carica e un pretendente che viene dalla Spagna e vanta di essere l’erede al trono, in quanto figlio di una dalle concubine del precedente monarca. Il tutto è filtrato attraverso la storia di un miniaturista, che ha perso moglie e figlio e non riesce ad elaborare il lutto, cui il potere assegna il compito di seguire un drappello militare per ritrarre il volto del ribelle prigioniero condannato a morte. L’artista accetta solo perché obbligato con la forza e, assieme ad una ragazza orfana raccattata lungo la strada, finisce col passare dalla parte dei rivoltosi e dipingere per il pretendente iberico un quadro, che cita apertamente Las Meninas di Diego Velazquez, che ne legittimerebbe i titoli in quanto nuovo Messia. Ritorno ad Istanbul e alla vita d’artista con una nuova moglie e il ritrovato fido discepolo. Il film ha uno stile che mira a riprodurre quello delle miniature, da cui immagini rovesciate, punti di vista diversi della stessa inquadratura, uso di effetti speciali su sfondi di antichi documenti. Un sovraccarico di impostazioni che lo rende confuso e che alterna panorami da cartolina, immagini inutilmente rovesciate, disegni animati, inquadrature contornate da cornici e ugualmente poco chiaro sul piano tematico che sembra ruotare attorno all’impossibilità di forzare l’arte agli interessi della politica. Ne risulta un piatto piuttosto indigesto e, a tratti, oscuro.

Image
Purgatorio

Veniamo ora ad alcuni titoli decisamente poco riusciti. Araf (Purgatorio) di Biray Dalkiran piacerebbe agli antiaboristi estremi. Racconta, con immagini allucinate e virate in vario modo, gli incubi di una donna che ha perso il figlio che portava in grembo per un aborto spontaneo, ma che stava decidendo se portare a termine o meno la gravidanza. Bambine dalle occhiaie vuote, feti insanguinati, incubi da senso di colpa, c’è tutto per sostenere la sacralità della vita, il compito primario delle donne quali fattrici e via discorrendo. Lo stile è greve, pieno di insopportabili effetti speciali e la teoria di fondo, aberrante, sostiene che la follia della donna porta alla pazzia anche il compagno, complice nell’uccisione della figlia non nata. Poche cose buone da dire sia di Aura di Orhan Oğuz e di Iki Süper Film Birden (Due superfilm assieme) dell’esordiente Murat Şeker. Il primo segna il ritorno a quel cinema di campagna che si credeva scomparso da anni. Un uomo, ingiustamente accusato di tradimento, è esiliato e costretto a vivere, in mezzo alle montagne, con la donna dalla salute fragile, sottratta alla comunità che mal la sopportava. Quando la moglie si ammala, lui tenta di portarla a braccia nel villaggio più vicino. Lo aiutano, forzatamente, due contrabbandieri – guerriglieri che stanno cercando di portare all’estero un prezioso gioiello di grande valore archeologico. La donna muore e il terzetto fa marcia indietro per seppellirla nel posto dove abitava. I personaggi sembrano usciti da un fumetto degli anni cinquanta e ci sono effetti che vorrebbero essere truci, ma che sconfinano nel ridicolo per i litri di vernice rossa gabellata per sangue. Da dimenticare, peccato per un regista che, in passato aveva firmato opere non banali come: Herþeye Rağmen (Malgrado tutto, 1987) e Donersen Islik Cal (Se ritorni fa un fischio, 1992).
Image
Gli uomini della neve
Il lavoro di Murat Şeker vorrebbe essere una commedia stile cinema sul cinema, ma risulta solo la solitaria elucubrazione di un regista che vorrebbe prendere in giro ciò che non sembra neppure conoscere a fondo. Un regista al primo film, che vuole girare senza sceneggiatura né attori noti, non riesce ad ottenere i finanziamenti che gli servono. Finisce per accettare la regia di un porno, ma non arriva a tempo sul set in quanto rapito da un gangster che ha girato una videocassetta compromettente per un ricco uomo d’affari. Il prezioso materiale è finito, per un errore, nelle mani dell’aspirante cineasta ed ora il malavitoso lo rivuole indietro. Il pubblico ha riso su alcune battute che occhieggiano situazioni e personaggi dello spettacolo turco, ma le immagini e la storia affogano nella noia e nell’inutilità più totali. Poco interessante anche un’altra opera prima, Kardan Adamlar (Gli uomini della neve) di Aytan Gönülşen, un film che, un tempo, si direbbe saggio di professionalità, nel senso che trova la sua unica giustificazione nella dimostrazione delle capacità del regista di manovrare la macchina da presa per costruire una storia accattivante e quasi claustrofobica nonostante l’ambientazione all’aria aperta. Due amici finiscono dispersi in una zona innevata per supponenza (hanno imboccato una strada chiusa non rispettando le disposizioni della polizia) e incapacità (impantanano la macchina su cui viaggiano). Dopo alcuni giorni passati a girovagare senza meta fra neve e fiumi gelati, muoiono assiderati. Il film racconta la loro odissea, i sogni di salvezza, i ricordi della vita normale e la tensione che cresce fra i due. Lo fa con abilità, ma senza un reale costrutto, più per dimostrare la capacità del regista che per raccontare una storia o comunicare emozioni.
Image
Il documento deve essere blu

Nella sezione internazionale si sono distinti due film rumeni che ruotano attorno al 22 dicembre 1989 e all’arresto e uccisione del dittatore Nicolae Ceauþescu. Hirtia ve fi albastra (Il documento blu) di Radu Muntean, già in concorso al Festival di Locarno e qui vincitore del primo premio della sezione Eurasia, racconta, in flash back la morte di un soldato che si unisce ai rivoltosi nei giorni del grande caos e, ironia della sorte, è ucciso come uno dei sostenitori del regime. Il film ha il pregio di fornire un quadro variegato e approfondito del grande caos seguito alla caduta del tiranno, i salti della quaglia fatti da molti, l’incapacità dei rivoltosi a dare un senso immediato e preciso alle loro scelte. Un film interessante più che bello. Assai meglio A fost sau n-a fost? (letteralmente C’è stato o non c’è stato, ma il titolo internazionale è: 12:08 Est di Bucarest) di Corneliu Porumboiu, vincitore della Camera d’Or all’ultimo Festival di Cannes e qui coronato dall’alloro dei critici, affronta temi legati alla memoria di quella rivolta e lo fa con il taglio di una commedia amara. Il direttore di una miserabile televisione di provincia invita due partecipanti ai moti, in occasione del diciassettesimo anniversario della rivolta, e chiede loro di rispondere alle domande degli ascoltatori. Il risultato è devastante, la maggior parte degli interlocutori mettono in dubbio l’eroismo dei due, mentre un ex funzionario della polizia politica, oggi importante industriale, arriva sino a minacciare querele. E’ il quadro della società emersa da quelle fragili speranze e finita annegata nell’alcol o corrotta dalla corsa al denaro facile e, spesso, sporco. Un film amaro in cui i toni da commedia di tingono abbondantemente di nero.

Image
Isabella

Altro punto interessante la presentazione di tre film cinesi. Isabella di Ho-Cheung Pang, cui i giurati della Berlinale 2006 hanno assegnato il premio per la migliore colonna sonora, ha per sfondo la Macao del 1999, nei mesi che precedono la restituzione della colonia portoghese all’amministrazione della Repubblica Polare Cinese. Qui un poliziotto violento e corrotto riceve la visita di una ragazzina che dice di essere sua figlia. Si forma in questo modo una strana coppia fra la fanciulla e l’adulto, maturo e disincantato. Potrebbe essere una metafora del cambiamento che si appresta a subire la colonia, vecchia di quattro secoli, con il passaggio all’amministrazione della Cina del boom economico. Potrebbe, ma le tracce sono davvero labili e ciò che domina è il tentativo d’inserirsi in un contesto da commedia malinconica in un ambiente che assomiglia molto a quelli che fanno da sfondo ai film d’azione hongkonghesi. Il risultato non è molto convincente e il film soffre di eccessiva lunghezza e frequente ripetitività delle situazioni. Straordinaria, come di consueto, la maestria nell’uso della macchina da presa e la perizia della fotografia.
Image
Il banchetto
Ye Yan (Il banchetto) di Xiaogang Feng, vincitore di un premio all’ultima Mostra di Venezia, è la versione cinese, in salsa duelli – balletto e scenografie ammalianti, dell’Amleto di William Shakespeare. La proposta è suggestiva e la confezione straordinariamente ricca in mezzi ed invenzioni linguistiche, ma il risultato segna una perdita netta della complessità psicologica del testo in favore di un’esaltazione d’azione e ambientazione. Si ammira la geometria della composizione interna delle immagini, la meraviglia degli scontri fra spadaccini con i personaggi che volano, sorgono dalla terra o scendono dal cielo, ma alla fine si resta con l’impressione di avere fra le mani un bel guscio vuoto.
Image
Il fiore del gelsomino
Mo li Hua Kai (Mo Il fiore del gelsomino, 2004) di Yong Hou percorre la strada, ormai trasformata in qualche cosa di simile ad un genere vero e proprio, della saga familiare come ritratto delle grandi e drammatiche trasformazioni avvenute in Cina dalla fine degli anni trenta agli anni ottanta. Lo sfondo è quello di Shanghai fra il 1937 e gli anni novanta, vissuto da quattro donne che animano i tre capitoli in cui il film si articola: nonne, madri, figlie. Si inizia con la giovane Mo che s’inebria per il cinema essendo stata scelta come attrice debuttante da un produttore che ne fa la sua amante. Cacciata dalla madre, che l’ha allevata da sola, ritorna a casa dopo l’occupazione giapponese della Cina, quanto il cinematografaro fugge a Hong Kong. Qui scopre di essere incinta e vi trova uno zio, accasatosi con sua madre, che tenta di possederla, ma si fa scoprire causando il suicidio dell’amante. Una quindicina d’anni dopo Mo è una matura, piacente signora la cui figlia aderisce alla rivoluzione culturale e sposa un militante comunista duro e puro. La coppia va a vivere nella vecchia casa e la cosa fa impazzire di gelosia la giovane, che accusa il marito di concupire la madre. Il giovane, sconvolto, si uccide, mentre la falsa accusatrice finisce in manicomio. Poco prima di questa melodrammatica tragedia la coppia aveva adottato una bambina che sarà allevata dalla nonna. Passano gli anni ed ora la ragazzina è diventata donna, mentre Mo è ormai un’anziana. Altre tragedie, con un matrimonio sfortunato della giovane, la nascita di una figlia destinata ad essere allevata senza padre e morte dell’anziana protagonista. In poche parole, un melodramma di quelli che non dovrebbero dispiace agli estimatori del cinema di Raffaello Matarazzo con, in più, qualche pennellata sociale. Un film ben costruito, esagerato negli effetti sentimentali, più attento ai personaggi che al contesto, ma non disprezzabile.

Image
Fuochi d’artificio il mercoledì

Qualche riga per Chahar Shanbeh Souri (Fuochi d’artificio il mercoledì) dell’iraniano Asghar Farhadi che è l’esempio delle difficoltà e delle potenzialità del cinema iraniano di oggi. Il giorno del capodanno, che in Iran cade il 21 marzo, una ragazza, che sta per sposarsi, si presenta come domestica nella casa di una famiglia medioborghese in crisi in quanto la moglie è convinta che il marito la tradisca con una vicina. La ragazza è involontaria testimone di liti, riconciliazioni, nuove liti e scopre che, nonostante tutte le assicurazioni, l’uomo ha una relazione con la vicina di casa che, in realtà, è stata sua cognata. Un groviglio di serpi in cui gli uomini fanno una pessima figura e le donne si presentano come vittime predestinate. Il film è molto ben costruito nella struttura psicologica e ricco nel taglio narrativo, ma testimonia anche di un obbligo a parlare d’altro non consentendo la censura khomeinista di affrontare precisi temi politici, come la condizione di subordinazione della donna, o gravi questioni sociali, come la povertà di una vasta parte della popolazione. Lo stile è quello di una piece teatrale con molti dialoghi, pochi luoghi, costruzione per scene madri, ma la regia imprime a questa gabbia espressiva un taglio nettamente cinematografico ottenendone un film molto bello e forte.
Image
Come sei bella

Il cartellone conteneva anche alcuni film francesi, nessuno di grande spessore. Camping Sauvage (Camping selvaggio) di Christophe Ali e Nicolas Bonilauri è un brutto testo basato sulla storia d’amore, molto contrastata, fra una giovane che campeggia con i genitori e un maturo istruttore di vela. Finale tragico, meglio tragicomico, con un suicidio – omicidio. Il film è girato male, interpretato in modo approssimativo, pieno di effetti scadenti. Comme t’y es belle (Come sei bella) di Lisa Azuelos è una commedia al femminile, basata su quattro amiche, sessualmente infelici che finiscono per trovare l’uomo dei loro sogni. Battute sulla comunità ebraica, discorsi spregiudicati quel tanto che basta, svolte prevedibili dalla prima all’ultima. Un film di genere che ha ben pochi titoli per entrare in un concorso internazionale.
Image
Come l’ombra

Infine una nota su Come l’ombra di Marina Spada, già in cartellone a Venezia e Toronto, un film povero di mezzi, ma di grande valore inventivo ed intellettuale. L’impiegata di un’agenzia di viaggi studia il russo con un insegnante che viene da Kiev. Un giorno il docente - per il quale lei prova una certa attrazione, ma che conduce un’esistenza decisamente misteriosa - le chiede di ospitare per qualche giorno una supposta cugina che arriva a Milano senza alcun appoggio. Lei accetta a malavoglia, ma, poi, riesce a stabilire un rapporto molto umano, quasi erotico, con la bella ucraina. Un giorno la straniera scompare, lasciando in casa tutto ciò che possiede. Qualche tempo dopo la polizia ritrova il suo cadavere. L’impiegata, preda di una sorta di vera ossessione, ma anche affascinata da un fatto che da un senso nuovo ad una vita solitaria e triste, parte alla ricerca della scomparsa, un percorso che la porterà a prendere un autobus per la capitale ucraina. Il film è girato con molti omaggi – influenze al cinema di Michelangelo Antonioni, quello de La notte (1961), in modo particolare. Il film appartiene a quel genere di opere capaci di costruire una forte tensione psicologica ed emotiva partendo da fatti, gesti, immagini quotidiane. Un testo davvero sorprendente per maturità e stile.

I premi del festival
Image
43mo Festival di Antalya Arancia D'Oro
Arancia d’oro alla carriera: Norman Jewison
Arancia d’oro per il miglior film della sezione nazionale: Kader (Destino) di Zeki Demirkubuz.
Arancia d’oro per la migliore regia della sezione nazionale: Nuri Bilge Ceylan regista di Iklimler (Climi).
Arancia d’oro per la migliore interpretazione femminile della sezione nazionale: Sibel Kekilli per l’interpretazione nel film Eve Döüþ (Ritorno a casa) di Ömer Uður.
Arancia d’oro per la migliore interpretazione maschile della sezione nazionale: Erkan Can per l’interpretazione nel film Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per la migliore interpretazione femminile, non protagonista, della sezione nazionale: Nazan Kesal per l’interpretazione nel film Iklimle (Climi) di Nuri Bilge Ceylan.
Arancia d’oro per la migliore interpretazione maschile, non protagonista, della sezione nazionale: Civan Cenova per l’interpretazione nel film Eve Döüþ (Ritorno a casa) di Ömer Uður.
Arancia d’oro per la migliore sceneggiatura: Önder Çakar per la sceneggiatura di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per la migliore fotografia e premio Kodak: Soykut Turan per la fotografia di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per il miglior montaggio: Ayhan Ergüzel per il montaggio di Iklimle (Climi) di Nuri Bilge Ceylan.
Arancia d’oro per la migliore direzione artistica: Erol Taþtan per la direzione artistica di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per la migliore musica: Gökçe Akçelik per la musica di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per il migliore sonoro: Iklimle (Climi) di Nuri Bilge Ceylan.
Arancia d’oro per i migliori effetti speciali: Canneti Beklerken (Aspettando il Paradiso) di Derviþ Zaἰm.
Arancia d’oro per i migliori costumi: Ayten Þenyurt per i costumi di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per il miglior trucco e pettinature: Nimet Ýnkaya per trucco e pettinature di Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Arancia d’oro per il miglior lavoro di laboratorio: Sinefekt per il lavoro compiuto sui film Iklimle (Climi) di Nuri Bilge Ceylan e Takva (La paura di Dio nell’uomo) di Özer Kizlitan.
Premio Digiturk Behlül Dal per il miglior attore esordiente: Ufuk Bayraktar per l’interpretazione in Kader (Destino) di Zeki Demirkubuz.
Sezione cortometraggi
Arancia d’oro per il miglior cortometraggio nazionale: Bir Damla Su (Una goccia d’acqua) di Deniz Gamze Ergüven.
Premio speciale: Poyraz (Borea) di Belma Baþ
Sezione documentari nazionali
Miglior documentario nazionale: Gündelikçi (Domestica) di Emel Çelebi
Premio speciale: Ömer eve gel (Torna a casa Ömer) di Sekan Þavk, Barýþ Þahin, Þevket Onur Cihan
Image
2a edizione dell’Eurasia Film Festival
Premio della giuria della critica: A fost sau n-a fost? (letteralmente C’è stato o non c’è stato?, ma il titolo internazionale è: 12:08 Est di Bucarest) di Corneliu Porumboiu (Romania)
Miglior regista: György Palfi (Ungheria) regista di Taxidermia
Miglior film: Hirtia ve fi albastra (Il documento deve essere blu) di Radu Muntean (Romania)

Galleria fotografica
Antalya: 43mo Arancia d’Oro Film Festival
2° Eurasia Film Festival
16-23 settembre 2006
{imggallery 12}