Festival Internazionale del Film di Cannes 2013 - Pagina 10

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2013
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blue-is-the-warmest-color-la-vie-dadele-kechiche-cannes-66-02-620x350Abdellatif Kechiche ha tratto, liberamente, La Vie d’Adéle (La vita di Adele) dalla graphic novel  Le Bleu est un Colleur Chaude (Il blu è un colore più caldo) di Julie Maroh. E’ la bella storia di una relazione amorosa fra due donne nel corso di un tempo fondamentale per la formazione e maturazione del carattere di chiunque. Adéle ha quindici anni e frequenta la prima liceo quando incontra Emma, studentessa più anziana di lei, studentessa della scuola artistica e dichiaratamente lesbica. Fra le due esplode un’attrazione sentimentale e fisica molto forte. Sono passati gli anni e ora vivono assieme, Emma è diventata una brava pittrice e ha fatto dell’amica una vera e propria musa ispiratrice. Assorbita dal lavoro l’artista trascura la compagna, che ha trovato impiego come insegnate in una scuola materna. Adéle, sentendosi esclusa, si concede una breve relazione, solo sessuale, con un collega, ma quando la compagna scopre la cosa la caccia di casa e non vuole più avere a che fare con lei. Sono passasti altri anni ed ora la maestra è ora insegnate alle suole elementari, mentre la pittrice, sempre più affermata, ha un’altra compagna, anche lei artista, e stanno organizzando una mostra assieme. E’ una fuggevole occasione per l’incontro fra le due donne: l’insegnate confessa di essere vissuta tutto questo tempo nel ricordo dei loro incontri amorosi e la pittrice, seppur con maggior riluttanza, ammette la stessa cosa. Tuttavia oramai tutto è stato deciso e non rimane che sancire una separazione definitiva. Il film disegna una storia d’amore straziante e realistica, dove le sequenze erotiche esprimono con grande chiarezza movimenti, posizioni, passione. E’ anche lo straordinario ritratto femminile di una donna (Adele Exarchopoulos) colta nel vari passaggi fra l’adolescenza e la maturità. Un film tenero e drammatico in cui la fine di un amore diventa esperienza lacerante per chi vi è stato coinvolto. Davvero un testo di prim’ordine e il manifesto dei diritti di una sessualità che non conosce barrire di genere.
nebraska-film-still-010Alexander Payne è un importante regista americano che ha firmato metafore politiche di grande forza (Election, 1999) e ritratti personali finemente cesellati (Sideways - In viaggio con Jack, 2004). Nebraska, film rigorosamente in bianco e nero, appartiene a questo secondo filone e racconta, con grazia e commozione, la riscoperta dei rapporti fra un padre e un figlio. Woody Grant (uno straordinario Bruce Dern, attore in ben 145 fra film e telefilm, ma spesso in ruoli secondari) è un anziano sull’orlo della demenza che si convince che una lettera che ha appena ricevuto, un pubblicità mascherata da lotteria, è la certificazione di una possibile vincita di un milione di dollari. Per ritirare il denaro deve recersi a Lincoln, nel Nebraska, a molti chilometri di distanza dalla cittadina in cui abita, oppure abbonarsi ad una certa rivista che pubblicherà i numeri vincenti. Nessuno riesce a convincerlo che si tratta di una banale trovata pubblicitaria, tanto che il figlio minore, sconfitto dalla testardaggine paterna, decide di accompagnarlo nel viaggio. Inizia così un percorso pieno di momenti comici, ma totalmente immerso in un’atmosfera malinconica. La seconda parte del film porta i due nella città natale dell’anziano dove vive il suo fratello maggiore che lui non vede da molti anni. Quando il vecchio parla, incautamente, in un bar della vincita è un esplodere di conoscenti che, con le buone o con le cattive, vogliono una parte di quel denaro. A togliere d’impiccio i due arriverà la moglie e madre, una donna anziana ma piena d’energia e buon senso. Padre e figlio arriveranno a destinazione e scopriranno ciò che già il più giovane sapeva, cioè che la lettera era solo un imbroglio pubblicitario. A questo punto sarà il figlio, che ha capito il dolore esistenziale e la malinconia del padre, a regalargli il camioncino che lui avrebbe voluto comprare con i soldi della vincita. E’ un ritratto delizioso, ironico e straziante di un rapporto fra consanguinei che quasi non si conoscono ed è anche un quadro terribile e realistico dell’Almerica profonda, di quella provincia immensa e desolata in cui il mondo esterno non arriva quasi mai.

Il poeta e drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist (1777 – 1811) scrisse il racconto Michael Kohlhaas nel 1811, rifacendosi alla vicenda del mercante Hans Kohlhase che nel sedicesimo secolo guidò una rivolta contro un nobile che gli aveva sequestrato un paio di cavalli e fatto picchiare a sangue un servo. Da quel testo il francese Arnaud Des Palliéres (1961) ha tratto un film che segue i canoni di una certa idea di cinema storico, nel senso che usa costumi laceri, volti sporchi, ambienti diruti nella convinzione che questa l’illusione di realismo cancelli i bei volti degli attori e la raffinatezza delle immagini. La vicenda segue abbastanza fedelmente la pagina scritta, raccontando gli scontri fra i ribelli e le truppe reali, la violenza contro i contadini e l'amnistia concessa dalla principessa regnante. Perdono subito ritirato causa il proseguo della rivolta con condanna finale del rivoltoso che ottiene giustizia ma, nello stesso momento, è mandato a morte e decapitato. Belle scenografia, bravi attori ma richiamo flebile, quasi inesistente alle vicende dell’epoca, anni segnati, come è noto, dalle conseguenze della guerra dei contadini ( Bauernkrieg) esplosa fra il 1524 e il 1526 nelle zone meridionali di Germania, Austria, Svizzera e Trentino. Siamo nel 1532 e manca anche qualsiasi accenno agli effetti della riforma luterana del 1517. In altre parole è un film professionalmente alto, ma tutt’altro che originale.
immigrant 1In The Immigrant (L’immigrata) James Gray racconta la triste storia di una giovane polacca attivata nel 1921 negli Stati Uniti con la sorella. Le due donne sono bloccate dai servizi d’immigrazione, una perché ammalata di tubercolosi, l’altra per essere stata etichetta durante il viaggio come prostituta. In realtà aveva ceduto alle voglie di passeggeri e membri dell’equipaggio solo per avere di che mangiare. Anche a New York le cose non le vanno bene, visto che a salvarla dal rimpatrio è una sorta di impresario teatrale che gestisce anche la prostituzione delle sue attrici e ha importanti contatti nel giro di doganieri e poliziotti. Nonostante le sue remore morali, la donna accetta di vendersi con l’obiettivo di raccogliere i soldi necessari a sottrare la sorella da ritorno forzato in patria. Le cose sembrano migliorare quando attira l’attenzione di un illusionista, cugino del suo protettore, che le promette una vita migliore in California. L’offerta dell’artista irrita il suo protettore che, nel frattempo, si è innamorato di lei. Finale all’insegna del sangue, con scontro fra i due, uccisione del mago e decisione del prosseneta di salvare l’inferma e costituirsi. E’ un melodramma dagli esiti abbastanza prevedibili, spesso esposto con toni, d’immagine e narrativi, decisamente sopra le righe. Anche in questo caso molta professionalità, ma poche novità.
les-manuscrits-ne-brulent-pas referenceLa sezione Un Certain Regard ha presentato un interessante film dell’iraniano Mohammad Rasoulof (1972) condannato, nel 2011, a sei anni di prigione, sentenza che ha condiviso con altri registi non allineati al regime, come Jafar Panahi. Costretto all’esilio, vive da un paio d’anni in Germania. Al Festival ha portato Dast-neveshtehaa Nemisoosand (I manoscritti non bruciano). Il film ha i toni di un poliziesco politico e racconta la giornata di un paio di assassini e torturatori dei servizi segreti che hanno il compito di recuperare le tre copie del manoscritto in cui un famoso scrittore ha raccontato il tentativo di assassinio di un gruppo d’intellettuali ostili al regime. I due sicari sequestrano, picchiano, pugnalano tre noti artisti facendo sembrare la loro morte frutto del caso o di aggressioni delinquenziali comuni. Il film ha la struttura e il ritmo di un film popolare d’azione e questo, molto probabilmente, nell’intenzione di realizzare un prodotto che coinvolga il grande pubblico facendogli conoscere la ferocia e le nefandezze che marcano l’azione dei preti che governano il paese. Un tempo si diceva: film modesto, ma utile: E’ ancora la migliore definizione per questo tipo di produzione. L’unico dubbio è che serva solo a confortare quanti sono già consapevoli della ferocia del regime di Teheran e non, invece, far riflettere coloro che ancora dubitano o non sanno.