Festival Internazionale del Film di Cannes 2013

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cannes posterFestlval di Cannes 2013

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L’edizione 2013 del Festival Internazionale del film di Cannes si annuncia nel solco della tradizione: attenzione verso autori affermati, alcuni dei quali già vincitori della Palme d’or, modeste aperture verso le opere prime e i paesi meno noti al circuito internazionale. Questo, almeno, per quanto concerne il concorso, mente le altre sezioni (Un Certain Regard, Semaine de la Critique, Quinzaine des Auteurs) mostrano ben maggiori aperture. In alcuni casi si tratta di vere e proprie prospettive istituzionalizzate come nel caso del Semaine istituzionalmente riservata alle opere prime e seconde. Per quanto riguardala la competizione, ci sarà un solo film italiano, La grande bellezza di Paolo Sorrentino (Premio della Giuria 2008 per Il Divo), mentre l’opera prima di Valeria Golino Miele è nel cartellone di Un Certain Regard. Rimanendo alla sezione competitiva, quella maggiormente sotto i riflettori, si nota una forte presenza della produzione francese che allinea, fra produzioni dirette e coproduzioni, ben cinque titoli su venti.

Ecco tutti i film in cartellone:
Un château en Italie (Un castello in Italia) di Valeria Bruni Tedeschi
Inside Llewyn Davis (A proposito di Llewyn Davis) di Joel e Ethan Coen
Michael Kohlhaas di Arnaud Despallieres
Jimmy P. (Psychotherapy of a Plains Indian) (Jimmy P. - Psicoterapia dell'indiano delle pianure) di Arnaud Desplechin
Heli di Amat Escalante
The past (Il passato) di Asghar Farhadi
The immigrant (L'immigrante) di James Gray
Grisgris di Mahamat-Saleh Haroun
Tian Zhu Ding (Un tocco di peccato) di Jia Zhangke
Soshite Chichi Ni Naru (Tale padre, tale figlio) di Kore-Eda Hirokazu
(La vita di Adele) di Abdellatif Kechiche
Wara No Tate (Scudo di paglia) di Takashi Miike
Jeune et jolie (Giovane e bella) di François Ozon
Nebraska di Alexander Payne
La Venus a la fourrure (Venere in pelliccia) di Roman Polanski
Behind the Candelabra (Ma vie avec Liberace) (Dietro il candelabro - La mia vita con Liberace) di Steven Soderbergh
La grande bellezza di Paolo Sorrentino
Borgman di Alex Van Warmerdam
Only God Forgives (Solo Dio perdona) di Nicolas Winding Refn
Only Lovers Left Alive (Solo gli amanti saranno lasciati vivere) di Jim JARMUSCH


il grande gatsbyFrancis Scott Fitzgerald (1896 – 1940) è stato il maggior cantore di quella generazione d’intellettuali americani che va sotto l’etichetta di età del jazz. Scrittori, cineasti, pittori ugualmente affascinati dall’esplosione di liberazioni personali e rotture di schemi connessi al proibizionismo, al primo ventennio del secolo e dalla scoperta del fascino della vecchia Europa. Il grande Gatsby (The Great Gatsby, 1925) è uno dei ritratti più fedeli e accorati dello spirito di quegli anni, un romanzo in cui una storia sentimentale diventa specchio di un clima, culturale e umano, che da lì a poco sarà travolto dalla terribile crisi finanziaria del martedì nero (29 ottobre 1929), quando nel giro di poche ore la borsa di New York vide crollare il valore delle azioni delle maggiori aziende. Non a caso questa data segna l’inizio di quella grande depressione che avrà fine solo con il new deal voluto dal presidente Franklin Delano Roosevelt (1882 – 1945)  fra 1933 e il 1937. Il libro, ambientato nel 1922, segue la storia d’amore fra il ricchissimo e misterioso Jay Gatsby (nel film Leonardo Di Caprio) e la bella Daisy Buchanam (Carey Mulligan), sposata a un ricco che la tradisce spudoratamente. Magnate, di cui poco si sa, si era innamorato della donna prima di partire per la prima guerra mondiale. All’epoca lui era di incerta fortuna e la ragazza gli aveva preferito un pretendente facoltoso. Oggi, a cinque anni di distanza, Jay è diventato un multimilionario che offre feste faraoniche in cui lo champagne scorre a fiumi e i bagni in piscina, più o meno vestiti, sono all’ordine della notte. Nonostante il rutilante mondo di cui si è circondato e gli assilli di rapporti non chiari con il mondo della malavita e i contrabbandieri d’alcol, non ha mai smesso di sognare la ricongiunzione con l’amata. Per questo ha comprato un maniero da sogno, giusto di fronte alla casa, non meno lussuosa, in ci vive la donna con il marito. Tutto questo, drammatico finale compreso, è raccontato da Nick Carraway (Tobey Maguire) un agente di borsa, aspirante romanziere e vicino di casa del ricco innamorato. L’australiano Baz Luhrmann firma una nuova versione cinematografica di questo romanzo, la quinta dal 1926 ad oggi, focalizzata sia sugli effetti visivi, complice anche il 3D, e sulla storia d’amore. E’ una scelta spettacolarmente efficace, anche grazie alla bravura degli interpreti, ma che mette in secondo piano il valore metaforico del racconto. Se nel libro l’inquietudine e l’ossessione amorosa del protagonista funzionavano anche come con annuncio della tragedia che si sarebbe abbattuta da lì a pochi anni su un intera classe economica, nel film quest’aspetto è volutamente sfumato in favore della magniloquenza degli scenari e della sontuosità delle immagini.


heliHeli del messicano Amat Escarante porta sullo schermo uno dei tanti fatti di cronaca di cui sono ricche le storie del narcotraffico messicano. Per avere un’idea della veridicità di eventi e personaggi si leggano le pagine dedicate a questo mondo da Roberto Saviano in Zero, zero, zero. Heli è un giovane operaio di una fabbrica d’automobili, vive in una casupola sperduta nel nulla con padre, moglie, figlioletto di pochi mesi e sorella dodicenne. Il dramma si avvia nel momento in cui quest’ultima s’innamora di un giovane allievo di polizia che ha la bella idea di rubare da un nascondiglio dei narcos due pani di cocaina. Naturalmente i trafficanti non la prendono bene e non ci mettono molto a scoprire il ladro, anche perché strettamente legati a membri delle forze dell’ordine. Nel giro di poche ore un gippone nero pieno di uomini in divisa armati sino ai denti piomba nella povera casa in cui vive la giovane, ammazzano il nonno e rapiscono la ragazzina e il fratello. Sull’auto che li porta via c’è anche l’allievo poliziotto, già abbondantemente sanguinante. Ovviamente rivogliono quanto è stato sottratto, ma la restituzione è impossibile, visto che Heli, dopo vere scoperto casualmente i nascondiglio della droga, l’ha gettata in una putrida pozza d’acqua. I due prigionieri sono consegnati ad alcuni adepti all’organizzazione che li torturano con grande brutalità per poi uccidere il giovane poliziotto e lasciare l’altro, ferito e malconcio, in su un cavalcavia. L’operaio riuscirà a ritrovare la strada di casa, ma non sarà più in grado di riprendere una vita normale. Altrettanto capiterà alla ragazzina, che ritornerà dal fratello incinta dopo essere stata ripetutamente violentata. Il regista segue gli eventi con un occhio freddo, non formula giudizi, ma non tralascia neppure di colpire lo spettatore con immagini d’inaudita violenza. Il bilancio è un film di buona fattura, ma gelido e privo di qualsiasi appiglio etico. In poche parole un testo che disegna, come un articolo di giornale, una situazione terribile, ma non offre alcun elemento che consenta allo spettatore un giudizio dettagliato su personaggi e situazioni.
jeune-et-jolie-1François Ozon si dedica da sempre al tratteggio di figure apparentemente normali, in realtà dalla psicologia complessa e, a tratti, contradditoria. Tale è anche la diciassettenne Isabelle che, con il nome di Lea, si prostituisce attraverso internet. Figlia di una buona famiglia borghese, vive con il patrigno, la madre e il fratello adolescente. Vende il suo corpo senza una ragione particolare, non per soldi, che potrebbe avere semplicemente chiedendoli alla madre, non per altre ragioni se non una sorta di curiosità morbosa che la spinge a incontri mercenari dai quali conosce personaggi e situazioni che la intrigano per ragioni che neppure lei sa spiegarsi. Tutto cambia quando un anziano cliente le muore fra le braccia. La polizia apre un’inchiesta, madre e patrigno scoprono le sua attività amatorie, ben presto anche amici e conoscenti vengono a sapere. June & jolie (Giovane & bella) occhieggia con non poca approssimazione a Bella di giorno (Belle de jour, 1967) di Luis Buñuel, ma il regista non ha neppure una piccolissima dose della capacità di quell’autore di dare senso e fascino a un quadro intessuto di una forte vene surreale. Qui tutto appare sin troppo reale e il panorama scivola rapidamente nella piattezza venata d’intellettualismo.
the bling ring 2Si è aperta anche la sezione Un Certain Regard che ha ospitato il nuovo film di Sofia Coppola, The Bling Ring (in senso esteso: La banda degli improvvisati). Lo spunto parte da un fatto di cronaca, la scoperta, a Los Angeles, di un gruppo di adolescenti di buona famiglia affascinati dagli oggetti di lusso al punto da svaligiare le dimore di personaggi famosi per rubare borse, scarpe, gioielli e orologi di grandi marche. Dovrebbe essere il ritratto di una generazione spogliata di qualsiasi valore se non quello dell’apparire ad ogni costo, ma lo sguardo della regista, anche lei affascinata dal glamour, in particolare dalla scarpe dei grandi stilisti, getta non poca ambiguità sull’intera operazione che finisce per assomigliare più alle pagine di una rivista patinata che non ad un discorso lucido sul consumismo. Immagini coloratissime e laccate, montaggio simile a una raccolta di balletti (le intrusioni nelle varie case delle star), qualche impercettibile scintilla d’ironia affondano un film ben poco significativo. Un aspetto che la regista trascura quasi in toto sono i rapporti e le responsabilità dei genitori, che sono visti o come macchiette decerebrate (la madre che alleva i figli nel mito di una sorta di religione del successo) o scompaiono del tutto dallo schermo. In definitiva un’opera assai poco interessante e quasi per niente divertente.


a-touch-of-sinJia Zhang-Ke (1970) è uno degli artisti più apprezzati fra quelli di cui dispone il cinema cinese. Suoi film sono stati premiati a Venezia e Berlino e in numerosi festival internazionali, riconoscimenti che ne hanno fatto uno degli autori più amati dai critici e cinefili. La sua attività si è sviluppata dalla narrativa al cinema con qualche incursione anche nella pittura. Tutt’altro che gradito dai governanti del suo paese che spesso hanno censurato o tentato di censurare le sue opere, deve non poca parte del successo e della stessa esistenza in attività al giapponese Takeshi Kitano, conosciuto anche come Beat Takeshi, (1947) uno degli autori di punta del cinema moderno che ha prodotto alcuni dei film e co-produce anche Tian Zhu Ding (Un pizzico di peccato). Il film racconta le storie di quattro personaggi: un minatore esasperato dalle violenze e la corruzione che segnano i dirigenti politici ed economici che governano la sua città, un migrante che impugna un’arma per ritagliarsi uno spazio vitale, un’impiegata che lavora in una sauna, ma non accetta di prostituirsi e un ragazzo che cerca lavoro, ma precipita da un’umiliazione all’altra. Ognuna di queste vicende ha un esito violento intessuto di revolverate, coltellate, suicidi. Gli scenari cambiano di volta in volta e migrano in varie regioni dell’immenso paese: dal nord minerario, alle zone settentrionali e marittime ove la ricchezza sembra concentrarsi a ritmi sempre più serrati. E’ un panorama realistico e crudele di una nazione in rapido sviluppo, un boom economico pagato sia con una gestione dittatoriale del potere e sia con l’accrescersi di contradizioni sociali già enormi. Il mercato in cui si vendono più Ferrari del mondo è anche quello in cui il salario di un operaio mediamente non raggiunge i 300 euro. Il film offre un affresco dalle linee terribili, dominato da esiti violenti di cui a pagare i prezzi più alti sono sempre i più poveri o coloro che non si piegano davanti al dilagare dei soprusi. Il film sventaglia immagini bellissime, in cui anche le situazioni più degradate assumono toni pittorici. Un’opera di grande respiro che offre la possibilità di letture plurime.

le-passe-past-posterLe passè (Il passato) a cui allude il film francese, diretto dall’iraniano Asghar Farhadi è quello che hanno alle spalle Marie (Bérènice Bejo) e Samir (Tahar Rahim). Quattro anni prima si sono separati dopo un matrimonio  - lei aveva già due figlie nate da una precedente unione - e ora si ritrovano per le formalità della pratica di divorzio. Lui arriva da Teheran dove è ritornato, lei è incinta e sta per sposarsi con un giovane d’origine magrebina che ha già un figlio e una moglie in coma, dopo un tentativo di suicidio. Le cose non vanno affatto bene e i tre protagonisti passano da una lite ad un’altra, anche a causa delle inquietudini dei piccoli: il ragazzino non vuole accettare la nuova compagna del padre e la ragazza è tribolata dal senso di colpa che le viene dal credere di essere stata la causa del tentativo di suicidio della moglie del nuovo compagno della madre. Tuttavia le cose non sono come sembrano e solo negli ultimi minuti si scoprirà come (forse) le cose sono andate veramente. Il film ha un taglio decisamente teatrale: pochi luoghi come scenografia, abbondanza di dialoghi, atmosfere rarefatte illuminate da improvvisi colpi di scena. Ciò che preme al regista è l’esame delle psicologie dei vari personaggi sino ad illuminare e quell’inferno, mascherato da apparente paradiso, che si cela spesso dietro i rapporti di coppia. E’ un approccio che traspariva già in film come A proposito di Elly (Darbareye Elly, 2009) e Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin, 2011) in cui da storie personali emergeva un ritratto della società iraniana che non sarebbe stato possibile proporre in modo diretto causa la censura dei chierici islamici. Questa volta il legame con il mondo esterno appare molto più sfumato e il quadro della condizione degli stranieri alle prese con una società multietnica è sfumato al punto di scomparire. Ciò che resta è un bel melodramma, forse eccessivamente verboso, ma retto da interpretazioni accurate e professionali.


like-father-like-son--1Soshite Chichi Ni Naru (Di padre in figlio) è l’ultima fatica del giapponese Kore-Eda Hirokazu. E’ un melodramma basato su uno scambio di bambini avvenuto in ospedale alla nascita. Si scoprirà che l’incidente non è dovuto a cattiva organizzazione o a errori umani, ma alla precisa volontà di un’infermiera che ha voluto compiere una sua personale vendetta per le condizioni difficili in cui si è venuta a trovare con il figlio del secondo marito. Cinque anni dopo le vittime dello scambio scoprono, da un esame del sangue scolastico, che i rispettivi rampolli non sono tali. L’agiato architetto ossessionato dal successo professionale ha allevato il figlio di un piccolo artigiano di materiale elettronico, titolare di una modesta bottega in una piccola città. La prima questione che si pongono i quattro genitori è se continuare come se nulla fosse successo, allevando consapevolmente ciascuna coppia il figlio dell’altra, oppure prendere di petto la situazione e scambiarsi i pargoli. Il professionista, che inizialmente aveva cercato di assumersi entrambi i bimbi incontrando la fiera reazione dei genitori poveri, decide che rivuole il suo figlio naturale. Lo scambio getta in crisi entrambi i ragazzini che tentano in ogni modo di ritornare nei focolari in cui sono stati allevati. Finale all’insegna del buonismo con i quattro adulti che si riprendono i figli che hanno cresciuti credendoli loro, ma con il probabile affermarsi di un nuovo clima di comprensione e solidarietà fra le coppie. Una situazione rasserenata a cui hanno dato un contributo fondamentale le due madri. E’ una storia non priva di risvolti lacrimevoli, girata con grande professionalità in scenari da sogno (nei titoli di coda l’elenco degli sponsor delle location impegna varie righe), ma priva di una vera tensione drammatica. Come dire che siamo più vicini a un bel melodramma a uso televisivo che non ad un testo problematico. Un film professionalmente alto, ma assai poco originale.
jimmy p.comJimmy P. - Psychothérapie d’un Indien des Plaintes (Jimmy P. - Psicoterapia di un indiano delle pianure) del francese Armand Deplechin porta sullo schermo un caso psichiatrico particolarmente difficile. Nell’immediato dopoguerra un indiano della tribù dei Piedi Neri, reduce dalle battaglie in Francia, è ricoverato in un ospedale militare causa continui dolori alla testa e allucinazioni. Nonostante abbia subito un’operazione sommaria al cranio in zona di guerra, gli esami non rivelano nessuna anomalia fisiologica. A questo punto uno dei medici ha l’idea di chiedere consiglio ad un francese d’origini rumene che vive a New York e che ha una solida fama di esperto in culture indio-americane. Il tipo, che tutti trattano di psichiatra anche se non è affatto chiaro che abbia realmente conseguito laurea e specializzazione, riesce nell’improba fatica di rimettere il linea il paziente facendo leva sul suo passato e, soprattutto, sui traumi causati dal conflitto che subisce fra cultura bianca e valori indiani. E’ un classico film per attori, Benicio Del Toro e Mathieu Amalric danno il meglio disegnando alla perfezione paziente e psichiatra. Il film è tratto da una storia vera, ma non aggiunge un grammo alla nostra conoscenza sull’epoca in cui i fatti si svolgono, né sui rapporti fra conquistatori e nativi, né, infine, sullo scontro fra culture, sostanzialmente primitive, e abitudini moderne. Come dire: un testo di ottima professionalità, ma privo di originalità.
l-inconnu-du-lacLa sezione Un certain regard  ha presentato vari titoli, due dei quali abbastanza inusuali, anche se non del tutto riusciti. L’inconnu du lac (Lo sconosciuto del lago) del francese Alain Guiraudie si svolge su una spiaggetta lacustre per nudisti gay e nella boscaglia che la circonda. Qui si consumano incontri sessuali occasionali (debitamente ripresi in dettaglio)  fra maschi di varia età ed avvenenza e si consuma un omicidio a sfondo erotico. Un giovane omosessuale, che ha assistito casualmente al delitto (un prestante maschio baffuto ha annegato il compagno), s’innamora dell’omicida, stringe con lui una relazione amorosa che lo porta a rischiare di essere accusato di complicità nel delitto. Finale grandguignolesco con l’assassino che sgozza un robusto signore, non omosessuale, che si era intromesso nella storia e pugnala a morte il commissario di polizia che aveva intuito ragioni e responsabilità del delitto. Sembrerebbe una vicenda d’amore fra uomini, ma la grossolanità della messa in scena e la povertà del linguaggio la relegano al livello di un film quasi pornografico. Per la cronaca va segnalato che alcuni critici francesi hanno girato al capolavoro omosessuale, ma questa è solo l’ennesima prova che non tutti i recensori sono concordi nei loro giudizi.
grand-central mainStoria d’amore anche quella legata al triangolo che s’instaura fra tre lavoratori di una centrale atomica in Grand Central (La grande centrale) della francese Rebecca Zlotowski. Gary, un giovane prestante e decisamente sbandato, s’innamora di Karole, moglie del suo collega Toni, non sa che la donna gli si è concessa per essere messa in cinta, visto che vuole un figlio e suo marito è sterile. Quando le carte sono messe in tavola ci sono prevedibili  scenate e allontanamento di tutti. Non è una storia particolarmente nuova né la regista la racconta in maniera originale. La sola cosa interessante è l’ambiente di lavoro in cui i tre operano: una grande centrale nucleare in cui la contaminazione e i rischi per la salute sono presenti in ogni gesto. Il resto, solidarietà – conflitto fra operai, non aggiunge molto a quanto il cinema ha raccontato nei decenni scorsi. Chi sa se l’aver dato il nome di Toni ad uno dei protagonisti è un omaggio consapevole al film omonimo diretto da Jean Renoir nel 1935.
miele locandinaMolto meglio Miele, opera d’esordio nel lungometraggio di Valeria Golino, già uscito in Italia. E’ la storia - tratta dal romanzo Vi Perdono (2009) di Angela del Fabbro, con buona probabilità pseudonimo di Mauro Covacich (1965) - di Irene, soprannominata Miele, che vive aiutando le persone a morire. Il tema è, dunque, quello del suicidio assistito, operato dalle mani di una candida trentenne che entra in crisi quando le propongono di aiutare a morire un professionista sulla settantina che gode di ottima salute, ma è oppresso della noia del vivere. E’ a questo punto che la giovane si rende conto che quello che le chiedono è un vero e proprio omicidio, un delitto non velato da alcuna giustificazione umanitaria. E’ una crisi che la induce a ripensare la sua intera vita e a mettere in discussione anche i rapporti utilitaristi che ha con un paio di partner, con uno dei quali mescola letto e affari. Ne emerge il ritratto impietoso e terribile di una donna sola, che sublima nel rituale - preciso e quasi insensibile - di dare la morte agli altri un terribile vuoto esistenziale. E’ anche il momento in cui la giovane si rende conto che anche i malati terminali più disperati non hanno, in realtà, alcuna vera voglia di morire. Sono avvinghiati alla vita anche quando questa impone condizioni terribili. E’ un viaggio all’interno della coscienza che approda solo a una quiete momentanea e lascia più domande che risposte. Un testo di questo tipo richiedeva un interprete di grande sensibilità e duttilità e Jasmine Trinca (1981) mostra abbondantemente di possederle entrambe, licenziando un’interpretazione mirabile in cui contano più i silenzi che le parole.


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Inside Llewyn Davis (A proposito di Llewyn Davis) è l’ultima fatica di Joel e Ethan Coen, una coppia di fratelli cineasti che ha ottenuto un grande successo di critica e pubblico. La caratteristica più evidente di questi autori è saper mescolare abilmente ironia e violenza, situazioni divertenti e momenti tragici. Un altro dato interessante è l’abilità nel costruire personaggi e situazioni capaci sia di ammaliare lo spettatore, sia di offrire uno sguardo acuto sulle realtà e i miti americani. Quest’ultimo film esalta queste caratteristiche con, in più, una positiva sottrazione d’immagini violente. Siamo nel Greenwich Village di New York, nel 1961, qui un musicista talentuoso e squattrinato (dorme in casa di amici, cambiando letto o divano e appartamento ogni sera) sta tentando di imporsi nel difficile mondo dello show business. Il genere musicale che propone, il folk, sta muovendo i primi passi e il personaggio a cui s’ispira il protagonista è Dave Van Ronk che diventerà uno dei maestri musicali e politici di Bob Dylan. I discografici non sono disposti a rischiare su canzoni e cantanti adatti a piccole sale, ma ignoti al grande pubblico. Tutto questo costringe Llewyn Davis, questo il nome del protagonista, a destreggiarsi fra mille difficoltà, sopravvivere chiedendo soldi in prestito, adattarsi a ruoli musicali di ripiego. All’inizio lo vediamo dormire sul divano di un coppia di professori universitari con i quali rischia di rompere ogni contatto quando fa scappare il gatto di casa. In realtà lo ha subito recuperato, ma la porta dell’appartamento era ornai chiusa per cui lo ha perso, definitivamente, quando la sera successiva è andato a dormire in casa di un’amica che ha messo incinta e che lo ospita controvoglia. Neppure un viaggio a Chicago per sottoporre la sua musica al potente proprietario del Golden Horn (Corno d’Oro), un locale realmente esistito, avrà esito positivo e il cantautore si ritroverà letteralmente là dove era partito, cosa che i registi sottolineano con una trovata di gran classe: la ripetizione della prima sequenza in chiusura del film. E’ il ritratto di un periodo particolarmente fecondo per la storia della musica americana, dunque mondiale, quello da cui muoveranno artisti destinati a un grande successo come Jane Baez. La proposta dei due registi è davvero di prima qualità e il loro film offre molti spunti di riflessione che non si limitano al quadro d’epoca, ma chiamano in causa la cultura e il mito del sogno americano.Altrettanto non può dirsi per un film che, invece, si prefigge di proporre un testo allegorico e complesso per eccellenza.

Borgman dell’olandese Alex Van Warmerdam racconta una sorta di parabola incentrata su un gruppo di personaggi feroci e misteriosi (all’inizio i maschi del gruppo vivono sottoterra e sono stanati da un prete e da altri due tipacci armati di picche e pistole) che s’insinuano in una bella villetta altoborghese, corrompono e uccidono la moglie del proprietario, che avvelenano, irretiscono i figli e la ragazza alla pari che vive li. Alla fine distruggeranno il bel giardino della casa e se ne andranno aggregandosi i giovani della famiglia che li aveva ospitati. Come ultimo atto cospargono le rovine del parco con qualche cosa, forse semi (una nuova vita nasce dalla distruzione?) o, più biblicamente, sale. Non è facile decifrare la complessa testura del racconto che può essere letto in varie maniere, nessuna delle quali convincente sino in fondo. Potrebbe essere una metafora sull’arrivo del Demonio in una società che ha perso il senso della morale e vive solo per accumulare soldi. Oppure potrebbe essere una sorta di allarme sul pericolo che il terzo mondo conquisi completamente il nostro. Sono letture opposte, la seconda sconfinante nel razzismo, ma allo spettatore sono offerti indizi talmente contradditori da lasciarlo nella più assoluta incertezza.
l-image-manquanteUn Certain Regard ha presentato un testo accorato e bello del cambogiano Rithy Panh: L’image manquant (L’immagine mancante). Il regista vive a Parigi, ma in gioventù ha attraversato la tragedia della follia dei Khmer Rossi. Deportato con l’intera famiglia nella foresta dopo che i nuovi padroni del paese, che governeranno dal 1975 al 1979, avevano letteralmente svuotato la capitale Phnom Penh dei suoi abitanti. La filosofia folle e criminale di Pol Pot, che guidava quel movimento, era che si doveva azzerare tutto per ricostruire un nuovo mondo non contaminato dal capitalismo. Le scuole furono chiuse, spesso trasformate in luoghi di tortura, bandite le medicine occidentali sostituite con rimedi vegetali, cancellata ogni forma d’arte che non fosse d’esaltazione del regime. Il regista ricostruisce questo terribile dramma, spesso sottovalutato dai media europei, facendo ricorso alle poche immagini di regine e integrando ciò che non c’è mai stato con una sorta di presepio del dolore costruito con pupazzi dolenti. Ne nasce un film molto toccante e bello nella costruzione stilistica. Una testimonianza davvero indimenticabile.


straw shield-poster-Wara no Tate (Scudo di paglia) del giapponese, molto amato dai cinefili, Takaschi Miike (1960) - un cineasta che opera nella produzione, scrive sceneggiature, dirige e interpreta film - è uno straordinario prodotto commerciale (distribuisce la Warner Bros.!) teso e ben costruito, ma di cui non si capiscono i motivi della presenza ad un festival di cinema che dovrebbe accogliere titoli di livello culturale o di struttura originale. Nessuna di tali caratteristiche può essere ricondotta a quest’opera e, più in generale, al suo autore che è noto soprattutto per prolificità e ecletticità d’interessi. Si calcola che, dal debutto nel 1991, abbia diretto ben ottanta fra film e produzioni televisive. La sua predilezione va ai film sugli yakuza e sui personaggi sradicati e disturbati, ma ha anche realizzato classiche storie di samurai come 13 assassini (Jûsan-nin no shikaku, 2010). Stilisticamente non disdegna le sequenze splatter intrise di violenza e immagini cruente. Questa sua ultima fatica ripercorre una delle storie classiche del cinema americano, quella in cui un gruppo di coraggiosi deve portare un delinquente davanti al giudice, evitando insidie e agguati vari. Nel caso specifico si tratta di cinque, fra poliziotti e agenti dei servizi di sicurezza, che devono riportare a Tokyo un assassino seriale di ragazzine. Il capo del gruppo è rimasto vedovo dopo che la moglie incinta è stata uccisa da un delinquente ubriaco che era stato rimesso in libertà da poco. Lui, più che altri, ha motivo di odio verso il serial killer, ma la cosa che non gli impedirà di fare il suo dovere. Le difficoltà nascono dal fatto che il ricchissimo nonno di una delle vittime ha messo una taglia di un miliardo di yen (circa sette milioni e seicento mila euro) sulla testa dell’assassino. Una cifra enorme che induce molti a tentare l’impresa. Ci provano poliziotti, infermiere, yakuza, disperati vari. Persino uno degli agenti della scorta si è fatto corrompere e il responsabile dell’intera operazione si è messo da tempo al servizio del miliardario. Uno a uno i guardiani dell’arrestato ci rimettono la vita, rimane solo il caposcorta che, malconcio e insanguinato, riesce a riportare nella capitale l’assassino salvandolo, persino dalla furia omicida del dell’anziano che ha promesso la ricompensa. L’ultima immagine lo mostra mentre, guarito dalle numerose ferite, si prende cura del figlio della collega morta nel percorso. Un film commerciale, si è detto, ben fatto e a tratti persino piacevole, ma che gioca le sue carte migliori su sparatorie e auto distrutte, non diversamente da un qualunque prodotto hollywoodiano d’azione.


grandebellezza-1La grande bellezza di Paolo Sorrentino è il solo film italiano ammesso quest’anno in concorso, si può subito dire che è un onore meritato, visto che si tratta di un’opera formidabile. E’ una sorta di seguito ideale di sue famosi classici italiani La dolce vita (1960) di Federico Fellini e La terrazza (1980) di Ettore Scola, entrambi premiati al Festival di Cannes, il primo, con la Palma d’Oro, il secondo con il riconoscimento come miglior sceneggiatura e miglior interpretazione femminile (Carla Gravina). Come in quei due gradi classici protagonista è la razza padrona della capitale. Ciò che cambia e individua in queste opere una sorta di trittico ideale della storia e del clima del nostro paese sono l’approccio morale e la tensione politica. Il grande regista romagnolo è riuscito a fotografare il ceto intellettuale capitolino cogliendone i visi e la volgarità, ma mantenendo anche un orizzonte di speranza ben simboleggiato dalla purezza della giovanissima Valeria Ciangottini che si contrappone al mostro marino, il grande autore degli anni ottanta affonda il bisturi in un ceto politico slabbrato, ma ancora capace di sognare la rigenerazione. Il film di oggi abbandona ogni prospettiva positiva annegandola in una melassa ripetitiva e priva di un qualsiasi orizzonte, sia personale, sia collettivo. A esemplificare questa condizione è Jep Gambardella (un Toni Servillo oltre ogni elogio), autore quarantacinque anni or sono di un’opera prima (L’apparato umano) vincitrice del premio Bancarella e accolta con entusiasmi dai critici. Dopo quell’exploit non ha scritto più nulla, meglio scrive pettegolezzi per una pubblicazione che lo paga profumatamente. Il fatto è che è riuscito a diventare, come afferma lui stesso, un sorta di re della mondanità, un personaggio la cui partecipazione non è sola richiesta da chi organizza feste, ma che è anche in grado di decretarne il successo o il fallimento. Il film non ha una struttura lineare, ma affianca numerosi brani di party, incontri con personaggi alla moda o della grande nobiltà, spettacoli e performance teatrali stupidamente originali. E’ un vasto affresco popolato da religiosi gourmet, monache sante usate da astuti porta parola, attempate spogliarelliste ancora in grado di mostrare una precisa dignità, gestori di night eroinomani, irreprensibili borghesi che si rivelano latitanti di Mafia, poeti afasici, drammaturghi frustrati. E’ un affresco imponente che ricorda i quadri di Pieter Bruegel (1525/1530 – 1569) in cui decine di figure impegnate nelle attività più diverse concorrono a formare un grande ritratto del mondo. Qui, senza un preciso filo narrativo, a emergere è una città – trasformata nel finale in muri e ponti privi di vita – che è simbolo del decadimento di un’intera civiltà. Il regista guarda al mondo che lo circonda senza la minima speranza: ormai tutto è stato consumato e non rimane che il ricordo, forse esso stesso fallace.

behind-the-candelabra 1Behind the candelabra (Dietro i candelabri) di Steven Soderbergh porta sullo schermo il difficile rapporto fra il pianista Valentino - Lee¬¬ - Liberace (1919 – 1987) e il giovane Scott Thorson. I due si incontrarono quando il musicista era all’apice del successo economico sia in televisione, sia negli spettacoli dal vivo. Fu una relazione dapprima idilliaca poi sempre più tempestosa terminata con una causa civile intentata dal giovane nei confronti del compagno. Il film, che è stato rifiutato da quasi tutte le grandi società di produzione nonostante il prestigioso nome del regista, è finito nelle mani di un’azienda video e, in un primo tempo, destinato solo la mercato home. E’ un testo pregevole sia per la presenza d’interpreti famosi che hanno accettato di essere pesantemente truccati al punto da essere quasi irriconoscibili. Vi compaiono, fra gli altri, Michael Douglas (Liberace), Matt Damon (il giovane amante), Dan Aykroyd (l’agente del musicista). Gli anni in cui si colloca la vicenda avrebbero permesso di farne un ritratto di un’America sul punto di essere travolta dai grandi movimenti di contestazione e di rivolta studentesca, ma il regista ha preferito la strada della versione biografico – personale lasciando la società fuori dalla porta. E’ una scelta che esalta la ricostruzione ambientale e gli snodi psicologici, ma li lascia come isolati in mezzo al nulla. Un testo di ottima fattura e grande professionalità, ma che finisce col lasciare un retrogusto d’incompletezza e d'occasione mancata.
un chateaux en italie 1C’è poco da scrivere a proposito di Un château en Italie (Un castello in Italia) in cui la regista e attrice Valeria Bruni Tedeschi racconta la nascita, la crisi e la riconciliazione (temporanea) con l’attore Louis Garrel. Il tutto immerso nell’agonia di suo fratello, ammalato di AIDS, e nella crisi economica di una famiglia un tempo ricchissima e ora costretta a vendere i beni per sopravvivere. Fra questi, scusate se è poco, un quadro di Pieter Bruegel. Il film propone temi d’interesse alquanto limitato e li appesantisce con interpretazioni – disastrosa quella del giovane Garrel – che irritano non poco. La sceneggiatura zoppica, il racconto ogni tanto sbanda con virate del tutto ingiustificate, in poche parole un film ben poco interessante.
sarah-prefere-courseLa sezione Un Certain Regard ha proposto un’interessante opera prima canadese: Sarah préfére la course (Sara preferisce la corsa) di Chloé Robichaud. E’ il ritratto di un’atleta ventenne che si trasferisce da Québec City a Montreal per continuare l’attività agonistica nella corsa degli 800 metri con la speranza di entrare nella nazionale e partecipare alle Olimpiadi. Correre è la sua sola passione, quasi per nulla attratta dagli uomini, amica di un’altra atleta, pochissimo attratta da feste e vita mondana, Sarah subirà un vero trauma quando si scoprirà che, forse, soffre di uno scompenso cardiaco che le impedisce di praticare sport. Dispera decise di rischiare pur di non lasciare la sola cosa che ama: si leva l’apparecchio che le hanno dato in ospedale per monitorare il suo cuore e partecipa ugualmente ad una gara di selezione. E’ un piccolo film condotto con grande maestria, ed è il quadro di una psicologia giovanile che trova una sola strada per esprimersi. Davvero un piccolo gioiello.


grigris-1Grigris del ciadiano Mahamat-Saleh Haroun ha i difetti di un film africano naif e quelli di un’operazione coloniale fatta da cineasti di un paese occidentale che guardano con sufficienza al terzo mondo. Due difetti che ne fanno un film falso, prevedibile e noioso. In un villaggio povero del Ciad un giovane d’origine del Burkina Faso e menomato a una gamba, ma dotato di uno straordinario senso del ritmo, s’innamora di una bella prostituta. Prevedibile persecuzione di un delinquente locale che s’infuria in modo particolare quando il ragazzo gli ruba alcune taniche di benzina di contrabbando. Lo fa per pagare le spese del ricovero in ospedale all’anziano che lo ha adottato. Fuga della coppia e rifugio in un villaggio abitato da sole donne, poiché gli uomini sono partiti per il raccolto e ritorneranno solo fra alcuni mesi. Quando un emissario dei cattivi arriva con l’intenzione di uccidere i fuggitivi, le donne del villaggio insorgono per difendere gli ospiti e ammazzano i banditi. La morale della storia, come capita con una certa frequenza cinema africano, è che la purezza e i valori veri sopravvivono solo nei piccoli centri in cui le tradizioni sono preservate, mentre le città, più in generale la modernità, è vista come sinonimo di perdizione. E’ una posizione ambigua come dimostra il fatto che molti movimenti radicali islamici propugnano il rifiuto delle cose nuove che arrivano dall’Occidente come peccaminose e corruttrici. In poche parole è un film carico d’ambiguità e, per giunta, costruito in modo grezzo e senza vera ispirazione.
only-god-forgives-poster 2Only God Forgives (Solo Dio Perdona) del danese, trasferitosi negli Stati Uniti, Nicolas Winding Refn si muove in pieno spirito tarantiniano ambientando a Bangkok una storia trucida di vendette e ammazzamenti vari. L’americano Julian è fuggito nella capitale thailandese per sottrarsi alla giustizia del suo paese. In Tailandia dirige una palestra di box che serve da copertura per traffici di droga al servizio della cosca, ora guidata da sua madre, rimasta negli Stati Uniti. Nei fatti obbedisce agli ordini del fratello maggiore che ha il vizio di picchiare le giovani prostitute con cui si accompagna quando è ubriaco. Con una esagera e la uccide di botte. Un imperturbabile ispettore di polizia in pensione, soprannominato l’Angelo della vendetta, interviene sulla scena del delitto e decide che sia fatta giustizia sommaria: fa venire il padre della ragazza e lo lascia solo con l’assassino. Il genitore della morta ammazza di botte il colpevole, ma anche questo è un crimine, per cui l’ex - poliziotto gli taglia un braccio . Ne nasce una serie di vendette e contro vendette organizzate dalla madre dell’americano,  piombata in Tailandia dagli Usa. La donna capeggia un’organizzazione criminale molto potente, ma anche lei finirà uccida dal poliziotto - giustiziere. La sequenza finale vede Julian sfidare il vendicatore, ma senza molte speranze di uscire vivo dallo scontro. Il film è pino di ammazzamenti, getti di sangue, sbudellamenti, spari, conflitti mortali. Non c’è un preciso filo logico, meno che mai morale, ciò che interessa al regista è la rappresentazione della violenza di per se stessa, tutto il resto è semplice fumo di copertura. Con buona probabilità il film piacerà agli estimatori del regista di Django Unchained (2012), ma non a chi chiede al cinema riflessione e non sola esibizione di muscoli.
la jaula de oroLa jaula de oro (La gabbia d’oro) è un bel film diretto dallo spagnolo Diego Quemada-Diez e basato su un impianto generosamente neorealista. E’ la storia dell’odissea subita da quattro quindicenni in fuga dal Guatemala con la speranza di arrivare negli Stati Uniti passando per il Messico. Uno solo arriverà a destinazione, ma scoprirà che la meta tanto agognata non è affatto promettente e generosa quanto sembrava. L’opera ricostruisce un vero e proprio calvario fatto di agguati, rapine, violenza sulle donne. E’ la radiografia di una feroce condizione di sfruttamento dei più poveri ad opera sia di coloro che dovrebbero curare la sicurezza pubblica, sia delle organizzazioni criminali. Come già segnalo è un film basato su un approccio neorealista e di denuncia sociale, forse nulla di veramente nuovo, ma un testo generoso e, come si diceva un tempo, civilmente impegnato.


blue-is-the-warmest-color-la-vie-dadele-kechiche-cannes-66-02-620x350Abdellatif Kechiche ha tratto, liberamente, La Vie d’Adéle (La vita di Adele) dalla graphic novel  Le Bleu est un Colleur Chaude (Il blu è un colore più caldo) di Julie Maroh. E’ la bella storia di una relazione amorosa fra due donne nel corso di un tempo fondamentale per la formazione e maturazione del carattere di chiunque. Adéle ha quindici anni e frequenta la prima liceo quando incontra Emma, studentessa più anziana di lei, studentessa della scuola artistica e dichiaratamente lesbica. Fra le due esplode un’attrazione sentimentale e fisica molto forte. Sono passati gli anni e ora vivono assieme, Emma è diventata una brava pittrice e ha fatto dell’amica una vera e propria musa ispiratrice. Assorbita dal lavoro l’artista trascura la compagna, che ha trovato impiego come insegnate in una scuola materna. Adéle, sentendosi esclusa, si concede una breve relazione, solo sessuale, con un collega, ma quando la compagna scopre la cosa la caccia di casa e non vuole più avere a che fare con lei. Sono passasti altri anni ed ora la maestra è ora insegnate alle suole elementari, mentre la pittrice, sempre più affermata, ha un’altra compagna, anche lei artista, e stanno organizzando una mostra assieme. E’ una fuggevole occasione per l’incontro fra le due donne: l’insegnate confessa di essere vissuta tutto questo tempo nel ricordo dei loro incontri amorosi e la pittrice, seppur con maggior riluttanza, ammette la stessa cosa. Tuttavia oramai tutto è stato deciso e non rimane che sancire una separazione definitiva. Il film disegna una storia d’amore straziante e realistica, dove le sequenze erotiche esprimono con grande chiarezza movimenti, posizioni, passione. E’ anche lo straordinario ritratto femminile di una donna (Adele Exarchopoulos) colta nel vari passaggi fra l’adolescenza e la maturità. Un film tenero e drammatico in cui la fine di un amore diventa esperienza lacerante per chi vi è stato coinvolto. Davvero un testo di prim’ordine e il manifesto dei diritti di una sessualità che non conosce barrire di genere.
nebraska-film-still-010Alexander Payne è un importante regista americano che ha firmato metafore politiche di grande forza (Election, 1999) e ritratti personali finemente cesellati (Sideways - In viaggio con Jack, 2004). Nebraska, film rigorosamente in bianco e nero, appartiene a questo secondo filone e racconta, con grazia e commozione, la riscoperta dei rapporti fra un padre e un figlio. Woody Grant (uno straordinario Bruce Dern, attore in ben 145 fra film e telefilm, ma spesso in ruoli secondari) è un anziano sull’orlo della demenza che si convince che una lettera che ha appena ricevuto, un pubblicità mascherata da lotteria, è la certificazione di una possibile vincita di un milione di dollari. Per ritirare il denaro deve recersi a Lincoln, nel Nebraska, a molti chilometri di distanza dalla cittadina in cui abita, oppure abbonarsi ad una certa rivista che pubblicherà i numeri vincenti. Nessuno riesce a convincerlo che si tratta di una banale trovata pubblicitaria, tanto che il figlio minore, sconfitto dalla testardaggine paterna, decide di accompagnarlo nel viaggio. Inizia così un percorso pieno di momenti comici, ma totalmente immerso in un’atmosfera malinconica. La seconda parte del film porta i due nella città natale dell’anziano dove vive il suo fratello maggiore che lui non vede da molti anni. Quando il vecchio parla, incautamente, in un bar della vincita è un esplodere di conoscenti che, con le buone o con le cattive, vogliono una parte di quel denaro. A togliere d’impiccio i due arriverà la moglie e madre, una donna anziana ma piena d’energia e buon senso. Padre e figlio arriveranno a destinazione e scopriranno ciò che già il più giovane sapeva, cioè che la lettera era solo un imbroglio pubblicitario. A questo punto sarà il figlio, che ha capito il dolore esistenziale e la malinconia del padre, a regalargli il camioncino che lui avrebbe voluto comprare con i soldi della vincita. E’ un ritratto delizioso, ironico e straziante di un rapporto fra consanguinei che quasi non si conoscono ed è anche un quadro terribile e realistico dell’Almerica profonda, di quella provincia immensa e desolata in cui il mondo esterno non arriva quasi mai.

Il poeta e drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist (1777 – 1811) scrisse il racconto Michael Kohlhaas nel 1811, rifacendosi alla vicenda del mercante Hans Kohlhase che nel sedicesimo secolo guidò una rivolta contro un nobile che gli aveva sequestrato un paio di cavalli e fatto picchiare a sangue un servo. Da quel testo il francese Arnaud Des Palliéres (1961) ha tratto un film che segue i canoni di una certa idea di cinema storico, nel senso che usa costumi laceri, volti sporchi, ambienti diruti nella convinzione che questa l’illusione di realismo cancelli i bei volti degli attori e la raffinatezza delle immagini. La vicenda segue abbastanza fedelmente la pagina scritta, raccontando gli scontri fra i ribelli e le truppe reali, la violenza contro i contadini e l'amnistia concessa dalla principessa regnante. Perdono subito ritirato causa il proseguo della rivolta con condanna finale del rivoltoso che ottiene giustizia ma, nello stesso momento, è mandato a morte e decapitato. Belle scenografia, bravi attori ma richiamo flebile, quasi inesistente alle vicende dell’epoca, anni segnati, come è noto, dalle conseguenze della guerra dei contadini ( Bauernkrieg) esplosa fra il 1524 e il 1526 nelle zone meridionali di Germania, Austria, Svizzera e Trentino. Siamo nel 1532 e manca anche qualsiasi accenno agli effetti della riforma luterana del 1517. In altre parole è un film professionalmente alto, ma tutt’altro che originale.
immigrant 1In The Immigrant (L’immigrata) James Gray racconta la triste storia di una giovane polacca attivata nel 1921 negli Stati Uniti con la sorella. Le due donne sono bloccate dai servizi d’immigrazione, una perché ammalata di tubercolosi, l’altra per essere stata etichetta durante il viaggio come prostituta. In realtà aveva ceduto alle voglie di passeggeri e membri dell’equipaggio solo per avere di che mangiare. Anche a New York le cose non le vanno bene, visto che a salvarla dal rimpatrio è una sorta di impresario teatrale che gestisce anche la prostituzione delle sue attrici e ha importanti contatti nel giro di doganieri e poliziotti. Nonostante le sue remore morali, la donna accetta di vendersi con l’obiettivo di raccogliere i soldi necessari a sottrare la sorella da ritorno forzato in patria. Le cose sembrano migliorare quando attira l’attenzione di un illusionista, cugino del suo protettore, che le promette una vita migliore in California. L’offerta dell’artista irrita il suo protettore che, nel frattempo, si è innamorato di lei. Finale all’insegna del sangue, con scontro fra i due, uccisione del mago e decisione del prosseneta di salvare l’inferma e costituirsi. E’ un melodramma dagli esiti abbastanza prevedibili, spesso esposto con toni, d’immagine e narrativi, decisamente sopra le righe. Anche in questo caso molta professionalità, ma poche novità.
les-manuscrits-ne-brulent-pas referenceLa sezione Un Certain Regard ha presentato un interessante film dell’iraniano Mohammad Rasoulof (1972) condannato, nel 2011, a sei anni di prigione, sentenza che ha condiviso con altri registi non allineati al regime, come Jafar Panahi. Costretto all’esilio, vive da un paio d’anni in Germania. Al Festival ha portato Dast-neveshtehaa Nemisoosand (I manoscritti non bruciano). Il film ha i toni di un poliziesco politico e racconta la giornata di un paio di assassini e torturatori dei servizi segreti che hanno il compito di recuperare le tre copie del manoscritto in cui un famoso scrittore ha raccontato il tentativo di assassinio di un gruppo d’intellettuali ostili al regime. I due sicari sequestrano, picchiano, pugnalano tre noti artisti facendo sembrare la loro morte frutto del caso o di aggressioni delinquenziali comuni. Il film ha la struttura e il ritmo di un film popolare d’azione e questo, molto probabilmente, nell’intenzione di realizzare un prodotto che coinvolga il grande pubblico facendogli conoscere la ferocia e le nefandezze che marcano l’azione dei preti che governano il paese. Un tempo si diceva: film modesto, ma utile: E’ ancora la migliore definizione per questo tipo di produzione. L’unico dubbio è che serva solo a confortare quanti sono già consapevoli della ferocia del regime di Teheran e non, invece, far riflettere coloro che ancora dubitano o non sanno.


l43-cannes-130514161658 bigLeopold von Sacher-Masoch (1836 – 1905) è uno scrittore austriaco di origini spagnole e ucraine. Il termine masochismo nasce, per opera dello psichiatra austriaco Richard von Krafft-Ebing (1840 – 1902), dagli stati d’animo descritti nei romanzi di quest’autore. Fra i testi da lui pubblicati il romanzo erotico Venere in pelliccia (Venus im Pelz, 1870) ha avuto un ruolo fondamentale. E’ un testo che è stato utilizzato anche come prodotto pornografico e, per questo censurato. Roman Polanski ha preso spunto  da un testo teatrale dell'americano Davis Ives (1950), messo in scena nel 2011, per La Vénus à la fourrure (La venere in pelliccia) in cui due soli interpreti si affrontano sulla scena di un teatro parigino piuttosto malandato. Lui è un drammaturgo che ha adattato per il palcoscenico il romanzo e ha deciso di dirigere lo spettacolo, stanco dei continui tradimenti che altri registi riservano a testi che lui ama o ha scritto. Lei, Vanda, è un’attrice, volgarotta e prosperosa che si presenta in ritardo ma equipaggiata di tutto il necessario, all’audizione indetta per scegliere la protagonista dello spettacolo. Dapprima il teatrante mostra irritazione e vorrebbe andarsene senza ascoltarla, poi cede e qui avviene il miracolo: quella donna sboccata e grossolana si rivela una figura ideale per suggerire al drammaturgo modi diversi di leggere il testo, intonazioni da dare al copione, addirittura battute da mutare o inserire nel dialogo. La prova si trasforma così in una sorta di seduta psichiatrica in cui è messo in discussione l’ideale femminile dell’uomo, fatte emergere le sue pulsioni profonde, ribaltati i ruoli dei due protagonisti. Adesso è l’attrice a guidare la danza e il regista ad accettarne ritmi e movimenti. Ne emerge una sorta di radiografia dell’anima maschile nei confronti dei sentimenti suscitati dall’ideale femminile. E' un miscuglio di voglia di dominazione e tendenza alla sottomissione, aggressività e ritrosia. E' un film molto bello, girato in maniera straordinaria cui danno un contributo fondamentale Emanuelle Seigner (nella vita moglie del cineasta) e Mathieu Amalric.
only-lovers-left-alive-posterIn un mondo futuro neppure i vampiri avranno vita facile, il sangue degli uomini è talmente contaminato che non va bene neppure a loro. Inoltre gli umani si sono ormai trasformati, nella grande maggioranza, in zombi. I vampiri sopravvissuti sono diventati una sorta di memoria dell’intera storia: possono testimoniare della vita di grandi scrittori del passato o sono essi stessi personaggi mitici, come Christopher Marlowe, (1564 – 1593) che parla di William Shakespeare (1564 – 1616) come di uno zombi illetterato. Only Lovers Left Alive (Solo gli amanti saranno lasciati vivere) di Jim Jarmusch è poco più che un giochetto moderatamente spiritoso, immerso in atmosfere notturne e ambientato a Detroit (il cui centro assomiglia davvero a una città morta) e a Tangeri. Il regista ha detto di essersi ispirato al libro The Diaries of Adam and Eve (Il diario di Adamo ed Eva, 1893 / 1905), di Mark Twain (1835 – 1910) e che la sua intenzione era di realizzare una storia d’amore i cui protagonisti erano schiacciati dai veleni che inquinano il mondo moderno. Sarà certamente così, ma per lo spettatore è difficile cogliere questa realtà annegata com’è in un flusso di battute, immagini difficilmente comprensibili, personaggi bislacchi, atmosfere oscure.


adele kechicheI premi della sezione concorso

Palma d'Oro per il miglior Film: La vie d'Adèle (La vita di Adele) di Abdellatif Kechiche.

Gran Premio : Inside Llewyn Davis (A proposito di Llewyn Davis) di Ethan e Joel Coen.

Premio per l'Interpretazione Maschile: Buce Dern, per Nebraska di Alexander Payne.

Premio per l'Interpretazione Femminile: Bérénice Béjo per Le passé (Il passato) di Asghar Farhadi.

Premio alla Regia: Amat Esclalande per Heli.

Premio alla Sceneggiatura: Jia Zhangke per il film Tian zhu ding (Un pizzico di peccato).

Premio della Giuria: Soshite chichi ni naru (Tale padre, tale figlio) di Hirokazu Kore-Eda.

Camera d'Or per la miglior Opera Prima: Ilo Ilo, di Anthony Chen

Palma d'Oro per il miglior cortometraggio: Safe (Sicuro) di Moon Byoung-gon

Menzione speciale ex-aequo per: Whale Valley (La valle delle balene) di Gudmundur Arnar Gudmundsson e 37°4 S di Adriano Valerio.

Premi sezione Un Certain Regard

Premio Un Certain Regard: The Missing Picture (L’immagine mancante) di Rithy Panh.

Premio della Giuria: Omar di Hany Abu-assad,

Premio per la regia: Alain Guiraudie per L’Inconnu du Lac (Lo sconosciuto del lago).

Premio A Certain Talent: al cast di La Jaula de Oro di Diego Quemada-Diez.

Premio Avenir: Fruitvale Station (Stazione Fruitvale) di Ryan Coogler.

Sezioni collaterali: Blue Ruin di Jeremy Saulnier presentato alla Quinzaine.

I premi della Semaine de la Critique

Nespresso Grand Prize: Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza.

Menzione speciale: Los Dueños (I proprietari) di Agustín Toscano e Ezequiel Radusky.

Premi Fipresci

Concorso: La vie d’Adèle (La vita di Adele) di Abdellatif Kechiche.

Un Certain Regard: Manuscripts Don’t Burn (I manoscritti non bruciano) di Mohammad Rasoulof.