Festival Internazionale del Film di Cannes 2013 - Pagina 5

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2013
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like-father-like-son--1Soshite Chichi Ni Naru (Di padre in figlio) è l’ultima fatica del giapponese Kore-Eda Hirokazu. E’ un melodramma basato su uno scambio di bambini avvenuto in ospedale alla nascita. Si scoprirà che l’incidente non è dovuto a cattiva organizzazione o a errori umani, ma alla precisa volontà di un’infermiera che ha voluto compiere una sua personale vendetta per le condizioni difficili in cui si è venuta a trovare con il figlio del secondo marito. Cinque anni dopo le vittime dello scambio scoprono, da un esame del sangue scolastico, che i rispettivi rampolli non sono tali. L’agiato architetto ossessionato dal successo professionale ha allevato il figlio di un piccolo artigiano di materiale elettronico, titolare di una modesta bottega in una piccola città. La prima questione che si pongono i quattro genitori è se continuare come se nulla fosse successo, allevando consapevolmente ciascuna coppia il figlio dell’altra, oppure prendere di petto la situazione e scambiarsi i pargoli. Il professionista, che inizialmente aveva cercato di assumersi entrambi i bimbi incontrando la fiera reazione dei genitori poveri, decide che rivuole il suo figlio naturale. Lo scambio getta in crisi entrambi i ragazzini che tentano in ogni modo di ritornare nei focolari in cui sono stati allevati. Finale all’insegna del buonismo con i quattro adulti che si riprendono i figli che hanno cresciuti credendoli loro, ma con il probabile affermarsi di un nuovo clima di comprensione e solidarietà fra le coppie. Una situazione rasserenata a cui hanno dato un contributo fondamentale le due madri. E’ una storia non priva di risvolti lacrimevoli, girata con grande professionalità in scenari da sogno (nei titoli di coda l’elenco degli sponsor delle location impegna varie righe), ma priva di una vera tensione drammatica. Come dire che siamo più vicini a un bel melodramma a uso televisivo che non ad un testo problematico. Un film professionalmente alto, ma assai poco originale.
jimmy p.comJimmy P. - Psychothérapie d’un Indien des Plaintes (Jimmy P. - Psicoterapia di un indiano delle pianure) del francese Armand Deplechin porta sullo schermo un caso psichiatrico particolarmente difficile. Nell’immediato dopoguerra un indiano della tribù dei Piedi Neri, reduce dalle battaglie in Francia, è ricoverato in un ospedale militare causa continui dolori alla testa e allucinazioni. Nonostante abbia subito un’operazione sommaria al cranio in zona di guerra, gli esami non rivelano nessuna anomalia fisiologica. A questo punto uno dei medici ha l’idea di chiedere consiglio ad un francese d’origini rumene che vive a New York e che ha una solida fama di esperto in culture indio-americane. Il tipo, che tutti trattano di psichiatra anche se non è affatto chiaro che abbia realmente conseguito laurea e specializzazione, riesce nell’improba fatica di rimettere il linea il paziente facendo leva sul suo passato e, soprattutto, sui traumi causati dal conflitto che subisce fra cultura bianca e valori indiani. E’ un classico film per attori, Benicio Del Toro e Mathieu Amalric danno il meglio disegnando alla perfezione paziente e psichiatra. Il film è tratto da una storia vera, ma non aggiunge un grammo alla nostra conoscenza sull’epoca in cui i fatti si svolgono, né sui rapporti fra conquistatori e nativi, né, infine, sullo scontro fra culture, sostanzialmente primitive, e abitudini moderne. Come dire: un testo di ottima professionalità, ma privo di originalità.
l-inconnu-du-lacLa sezione Un certain regard  ha presentato vari titoli, due dei quali abbastanza inusuali, anche se non del tutto riusciti. L’inconnu du lac (Lo sconosciuto del lago) del francese Alain Guiraudie si svolge su una spiaggetta lacustre per nudisti gay e nella boscaglia che la circonda. Qui si consumano incontri sessuali occasionali (debitamente ripresi in dettaglio)  fra maschi di varia età ed avvenenza e si consuma un omicidio a sfondo erotico. Un giovane omosessuale, che ha assistito casualmente al delitto (un prestante maschio baffuto ha annegato il compagno), s’innamora dell’omicida, stringe con lui una relazione amorosa che lo porta a rischiare di essere accusato di complicità nel delitto. Finale grandguignolesco con l’assassino che sgozza un robusto signore, non omosessuale, che si era intromesso nella storia e pugnala a morte il commissario di polizia che aveva intuito ragioni e responsabilità del delitto. Sembrerebbe una vicenda d’amore fra uomini, ma la grossolanità della messa in scena e la povertà del linguaggio la relegano al livello di un film quasi pornografico. Per la cronaca va segnalato che alcuni critici francesi hanno girato al capolavoro omosessuale, ma questa è solo l’ennesima prova che non tutti i recensori sono concordi nei loro giudizi.
grand-central mainStoria d’amore anche quella legata al triangolo che s’instaura fra tre lavoratori di una centrale atomica in Grand Central (La grande centrale) della francese Rebecca Zlotowski. Gary, un giovane prestante e decisamente sbandato, s’innamora di Karole, moglie del suo collega Toni, non sa che la donna gli si è concessa per essere messa in cinta, visto che vuole un figlio e suo marito è sterile. Quando le carte sono messe in tavola ci sono prevedibili  scenate e allontanamento di tutti. Non è una storia particolarmente nuova né la regista la racconta in maniera originale. La sola cosa interessante è l’ambiente di lavoro in cui i tre operano: una grande centrale nucleare in cui la contaminazione e i rischi per la salute sono presenti in ogni gesto. Il resto, solidarietà – conflitto fra operai, non aggiunge molto a quanto il cinema ha raccontato nei decenni scorsi. Chi sa se l’aver dato il nome di Toni ad uno dei protagonisti è un omaggio consapevole al film omonimo diretto da Jean Renoir nel 1935.
miele locandinaMolto meglio Miele, opera d’esordio nel lungometraggio di Valeria Golino, già uscito in Italia. E’ la storia - tratta dal romanzo Vi Perdono (2009) di Angela del Fabbro, con buona probabilità pseudonimo di Mauro Covacich (1965) - di Irene, soprannominata Miele, che vive aiutando le persone a morire. Il tema è, dunque, quello del suicidio assistito, operato dalle mani di una candida trentenne che entra in crisi quando le propongono di aiutare a morire un professionista sulla settantina che gode di ottima salute, ma è oppresso della noia del vivere. E’ a questo punto che la giovane si rende conto che quello che le chiedono è un vero e proprio omicidio, un delitto non velato da alcuna giustificazione umanitaria. E’ una crisi che la induce a ripensare la sua intera vita e a mettere in discussione anche i rapporti utilitaristi che ha con un paio di partner, con uno dei quali mescola letto e affari. Ne emerge il ritratto impietoso e terribile di una donna sola, che sublima nel rituale - preciso e quasi insensibile - di dare la morte agli altri un terribile vuoto esistenziale. E’ anche il momento in cui la giovane si rende conto che anche i malati terminali più disperati non hanno, in realtà, alcuna vera voglia di morire. Sono avvinghiati alla vita anche quando questa impone condizioni terribili. E’ un viaggio all’interno della coscienza che approda solo a una quiete momentanea e lascia più domande che risposte. Un testo di questo tipo richiedeva un interprete di grande sensibilità e duttilità e Jasmine Trinca (1981) mostra abbondantemente di possederle entrambe, licenziando un’interpretazione mirabile in cui contano più i silenzi che le parole.