Festival Internazionale del Film di Cannes 2013 - Pagina 4

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Festival Internazionale del Film di Cannes 2013
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a-touch-of-sinJia Zhang-Ke (1970) è uno degli artisti più apprezzati fra quelli di cui dispone il cinema cinese. Suoi film sono stati premiati a Venezia e Berlino e in numerosi festival internazionali, riconoscimenti che ne hanno fatto uno degli autori più amati dai critici e cinefili. La sua attività si è sviluppata dalla narrativa al cinema con qualche incursione anche nella pittura. Tutt’altro che gradito dai governanti del suo paese che spesso hanno censurato o tentato di censurare le sue opere, deve non poca parte del successo e della stessa esistenza in attività al giapponese Takeshi Kitano, conosciuto anche come Beat Takeshi, (1947) uno degli autori di punta del cinema moderno che ha prodotto alcuni dei film e co-produce anche Tian Zhu Ding (Un pizzico di peccato). Il film racconta le storie di quattro personaggi: un minatore esasperato dalle violenze e la corruzione che segnano i dirigenti politici ed economici che governano la sua città, un migrante che impugna un’arma per ritagliarsi uno spazio vitale, un’impiegata che lavora in una sauna, ma non accetta di prostituirsi e un ragazzo che cerca lavoro, ma precipita da un’umiliazione all’altra. Ognuna di queste vicende ha un esito violento intessuto di revolverate, coltellate, suicidi. Gli scenari cambiano di volta in volta e migrano in varie regioni dell’immenso paese: dal nord minerario, alle zone settentrionali e marittime ove la ricchezza sembra concentrarsi a ritmi sempre più serrati. E’ un panorama realistico e crudele di una nazione in rapido sviluppo, un boom economico pagato sia con una gestione dittatoriale del potere e sia con l’accrescersi di contradizioni sociali già enormi. Il mercato in cui si vendono più Ferrari del mondo è anche quello in cui il salario di un operaio mediamente non raggiunge i 300 euro. Il film offre un affresco dalle linee terribili, dominato da esiti violenti di cui a pagare i prezzi più alti sono sempre i più poveri o coloro che non si piegano davanti al dilagare dei soprusi. Il film sventaglia immagini bellissime, in cui anche le situazioni più degradate assumono toni pittorici. Un’opera di grande respiro che offre la possibilità di letture plurime.

le-passe-past-posterLe passè (Il passato) a cui allude il film francese, diretto dall’iraniano Asghar Farhadi è quello che hanno alle spalle Marie (Bérènice Bejo) e Samir (Tahar Rahim). Quattro anni prima si sono separati dopo un matrimonio  - lei aveva già due figlie nate da una precedente unione - e ora si ritrovano per le formalità della pratica di divorzio. Lui arriva da Teheran dove è ritornato, lei è incinta e sta per sposarsi con un giovane d’origine magrebina che ha già un figlio e una moglie in coma, dopo un tentativo di suicidio. Le cose non vanno affatto bene e i tre protagonisti passano da una lite ad un’altra, anche a causa delle inquietudini dei piccoli: il ragazzino non vuole accettare la nuova compagna del padre e la ragazza è tribolata dal senso di colpa che le viene dal credere di essere stata la causa del tentativo di suicidio della moglie del nuovo compagno della madre. Tuttavia le cose non sono come sembrano e solo negli ultimi minuti si scoprirà come (forse) le cose sono andate veramente. Il film ha un taglio decisamente teatrale: pochi luoghi come scenografia, abbondanza di dialoghi, atmosfere rarefatte illuminate da improvvisi colpi di scena. Ciò che preme al regista è l’esame delle psicologie dei vari personaggi sino ad illuminare e quell’inferno, mascherato da apparente paradiso, che si cela spesso dietro i rapporti di coppia. E’ un approccio che traspariva già in film come A proposito di Elly (Darbareye Elly, 2009) e Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin, 2011) in cui da storie personali emergeva un ritratto della società iraniana che non sarebbe stato possibile proporre in modo diretto causa la censura dei chierici islamici. Questa volta il legame con il mondo esterno appare molto più sfumato e il quadro della condizione degli stranieri alle prese con una società multietnica è sfumato al punto di scomparire. Ciò che resta è un bel melodramma, forse eccessivamente verboso, ma retto da interpretazioni accurate e professionali.