41° Settimana del Cinema Magiaro 2010

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41° Settimana del Cinema Magiaro 2010
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41° Settimana del cinema Ungherese 2010
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Da quarantun anni la cinematografia ungherese prosegue un rito annuale inventato negli anni del socialismo reale, mantenuto dopo la caduta del regime e anche oggi si presenta quanto mai utile. All’inizio di febbraio l’ente che sovraintende alla diffusione dei film magiari invita a Budapest una cinquantina fra compratori, esercenti, critici, funzionari di festival e presenta loro l’intera produzione dell’anno. E’ un’occasione unica per tastare il polso a questa cinematografia e, attraverso essa, alla società da cui scaturisce. La rassegna si termina con l’assegnazione di vari premi, alcuni decretati da giurie nazionali e uno deciso dai critici stranieri presenti alla rassegna. Il verdetto di quest’anno ha conciso sia sul fronte del massimo riconoscimento nazionale, sia su quello dei recensori esteri.
Biblioteque Pascal
Biblioteque Pascal
Il verdetto di quest’anno ha conciso sia sul fronte del massimo riconoscimento nazionale, sia su quello dei recensori esteri. In entrambi i casi, il massimo riconoscimento è andato a Bibliotheque Pascal (Biblioteca Pascal) di Szabolcs Hajdu che ha ottenuto anche il premio per la migliore fotografia a András Nagy. Il titolo richiama l’insegna di un locale equivoco rivolto a una clientela d’intellettuali depravati che non esitano a pagare forti somme per soddisfare, su donne uomini e bambini, le loro turpi voglie, arrivando sino a uccidere quanti sono loro sottomessi. Il tutto nasce dal racconto di una giovane prostituta che ha abbandonato la figliola giovanissima e che ora si rivolge all’agenzia per la protezione dell’infanzia per riaverne l’affidamento. In realtà si tratta di una sorta di favola - sogno in cui la donna trasforma in racconto visionario le sofferenze e il dolore subite per essere avviata a un mestiere dai tratti assai meno fiabeschi. La parte fantastica non è esente da pesantezze e da banali fellinismi, mentre lo spazio dedicato alla realtà, fisica e psicologica, è ben più interessante. Già nelle opere prendenti, Off Hollywood (2007) e A te országod (Il tuo regno, 2008), questo cineasta aveva mostrato una forte propensione per la miscela fra fantastico e reale. Il racconto contiene ben pochi elementi originali, mentre la costruzione espressiva tende al sovrabbondante, ma, nel complesso il film possiede un buon numero di elementi interessanti.
Questioni di dettaglio
Questioni di dettaglio
Il riconoscimento per la migliore regia ha sortito un ex aequo di cui hanno beneficiato Zsombor Dyga per Köntörfalak (Questioni di dettaglio) e Róbert Pejó per Látogatás (Telecamera assassina). Il primo ha ottenuto anche il premio per il miglior montaggio, andato a Judit Czakó, e quello del pubblico che votava via internet. E’ una sorta di dramma da camera con, al centro, tre personaggi: un ragazzone che ha appena rimorchiato una ragazza in un bar e il suo fratello, un omosessuale dichiarato. Tutto sembra casuale e normale, sennonché, passo dopo passo si scopre che così non è, che l’incontro è stato tutt’altro che casuale e che dietro ai tre c’è una storia drammatica. Il film è condotto e interpretato in modo fermo con un crescendo pregevole di suspense. E’ un saggio d’attori, il protagonista Ferenc Elek ha ricevuto il premio quale miglior interprete, e, in un certo senso, anche uno di regia. Un buon film che racconta una storia motivata e priva d’incertezze di sceneggiatura. Il secondo è un noir ben costruito, diretto da un regista ungherese, ma produttivamente austriaco, il film mette in scena il lungo fine settimana di due coppie, una viennese e una magiaro-austriaca, in uno spettacolare villino costruito letteralmente sulle acque del lago Balaton. Uno scenario da favola interrotto dal crescere di un incubo: in quella stessa zona sono appena scomparsi tre bambini, si sospetta per mano di un pedofilo. Lentamente i sospetti si addensano su uno dei membri del quartetto, ma, come sempre capita in questi casi, il colpevole non è quello che tale sembrava a prima vista. Il salire della paura e il crescere della tensione sono ben gestiti dal regista, ma l’intera operazione non va oltre i confini del buon prodotto commerciale del tutto privo di possibili significati che vadano oltre la superficie delle immagini.
Colorado Kid
Colorado Kid
Miglior opere di genere è stato giudicato Kolórado Kid (Colorado Kid) di András Vágvölgyi. Si sa che rivolte e rivoluzioni sono spesso fatte da persone che vi partecipano senza avere affatto l’idea di fare la storia o compiere atti eroici. Questo regista ce lo ricorda con la biografia di Béla Kreuzer, un facchino amante del gioco e non restio a imbrogliare corse e a truccare scommesse. Lo arrestano nel 1959 con l’accusa di aver preso parte alla rivoluzione del 1956, cosa che ha fatto più per caso e spirito di ribellione nei confronti dell’autorità che sincero convincimento antiregime. Denunciato da un compagno di cella, subisce una condanna a ben quindici anni di carcere che sconta internamente uscendo dalla prigione nel 1974. Una volta fuori rintraccia quello che lo aveva tradito e lo uccise, per poi fuggire all’estero e trasferirsi definitivamente negli Stati Uniti ove vive tuttora. Il film non si differenzia molto dalle opere dedicate a quegli anni terribili, ma ha il merito di costruire un ritratto credibile e preciso di un uomo qualunque travolto da fatti storici che attraversa senza perdere dignità. E’ una bella storia condotta senza retorica, un quadro realistico di una delle fasi più drammatiche della storia del secolo scorso.

Costruire una squadra
Costruire una squadra
Miglior opera prima è stata giudicato Team Building (Costruire una squadra) di Réka Almási. Il capitalismo sta progressivamente imponendo i suoi riti anche nei paesi ex – socialisti; uno di questi riguarda i corsi di preparazione aziendale tipici del modo in cui le grandi multinazionali selezionano il loro personale. La squadra da costruire cui si riferisce questo cineasta è quella a cui partecipano i candidati a lavorare nella filiale magiara di una multinazionale americana. Il corso che sono costretti a seguire è più simile a un addestramento militare che a una scuola di formazione. In una località isolata un istruttore e la sua assistente li preparano inculcando loro il mito dell’efficienza, della dedizione assoluta all’impresa e del lavoro come unica ragione di vita. Naturalmente non tutte le ciambelle riescono con il buco e non tutti gli allievi sono disposti a trasformarsi in materia malleabile. Che dire, poi, se alla fine delle fatiche, si viene a sapere che la casa madre non intende più lavorare in Ungheria? Il film agita temi importanti che avrebbero meritato ben maggiore attenzione e, soprattutto, un livello stilistico notevolmente superiore. Il film, così come si presenta, non va oltre la storiella fra commedia e tragedia senza alcun serio retroterra.
I giorni del desiderio
I giorni del desiderio
József Pacskovszky è stato riconosciuto miglior sceneggiatore per il suo contributo a A vágyakozás napjai (I giorni del desiderio) da lui stesso diretto e che ha ricevuto anche il riconoscimento per il miglior sonoro andato János Kóporosy. A noi è parso il titolo più interessante fra quelli del panorama di quest’anno. Intendiamoci, nulla di straordinario sia per la storia, vista molte altre volte e con risultati estetici ben migliori, sia per il linguaggio, costruito sul binario di una classicità sperimentata. Una giovane muta è assunta al servizio di una manager spregiudicata che vive sola dopo la separazione dal marito, un ex - chirurgo alcolizzato. Anche lei ama la bottiglia e la compagnia di un uomo diverso ogni notte. La presenza della giovane e il momentaneo ricongiungimento con il marito, sembrano avviare la situazione a un approdo positivo, anche perché la ragazza, che si è innamorata di un coetaneo, funziona come catalizzatore positivo fra i due. Il ragazzo crede che la giovane sia figlia della padrona e quando scopre che è solo una serva, la lascia in malo modo. Nel frattempo l’ex - medico precipita nuovamente nell’alcolismo e la dirigente, che è stata licenziata perché non ha voluto andare a letto con il capo, riprende la collezione di amori occasionali. Quando la muta assiste casualmente a uno di questi incontri, la padrona la licenzia su due piedi. Ora è più sola di prima con un bagaglio di ferite che non guariranno facilmente. Storia già vista, si è detto, e per rendersene conto basta pensare a certe situazioni immaginate da Luis Buñuel o Joseph Losey. Sul piano stilistico i richiami sono ugualmente numerosi, a iniziare dalla scelta di usare il bianco e nero a ricordo di un vecchio cinema ricco di significato e gloria. In altre parole è un film colto, sorvegliato nella confezione e rigoroso nella narrazione.
Dentro/fuori Tawaret
Dentro/fuori Tawaret
La palma per la migliore attrice è andata a Eva Viva Kerekes interprete di Ki/Be Tawaret (Dentro/fuori Tawaret) di György Molnár. E’ un film non straordinario con al centro un paio d’intellettuali, uno di mezza età che e un giovane. Completa il quadro, un ventaglio di donne di varia età in crisi o costrette ad affrontare grandi problemi (il lavoro, la casa, la ricerca di un compagno cui appoggiarsi, …). Tutto questo sfocia in un florilegio di desideri irrealizzati, speranze per il futuro, ostacoli del presente. Sono messi in discussione principalmente i rapporti interpersonali, ma c’è posto anche per quelli sociali. Nella sostanza un film abbastanza confuso ma sintomatico di uno stato mentale che coinvolge non pochi ungheresi.
Vespa
Vespa
Il premio speciale della giuria è stato insegnato a Sándor Tóth, interprete di Vespa di Diána Groó. Questo film ha anche ricevuto il riconoscimento per la migliore musica originale assegnato a Daniel Kardos & Rudolf Balogh. Nel film un giovane tzigano trova un biglietto che vince una Vespa in una tavoletta di cioccolato. All’insaputa dei genitori parte per Budapest per andare a ritirare il premio. Giunto all’indirizzo, tuttavia, ha l’amara sorpresa di scoprire che l’edificio è stato abbattuto e sul terreno si sta costruendo un nuovo palazzo. Trova, in qualche modo, l’ufficio che dovrebbe consegnarli il motoveicolo, ma qui è deriso e scacciato. Furioso ruba la moto del titolare dell’azienda e si avvia sulla strada del ritorno, ma lungo il percorso finisce la benzina e capita nelle mani di un paio di teppisti che gli rubano il ciclomotore. Ridonerà a casa a mani vuote, ma la madre lo accoglierà ugualmente a braccia aperte. E’ un apologo sulla cattiveria del mondo e sulla violenza che attente i giovani, un film lineare, ben interpretato e semplice. Niente di straordinario, ma un buon esempio di cinema per ragazzi.

La verità non c’è più
La verità non c’è più
Vediamo ora gli altri titoli presenti nel cartellone della Settimana iniziando da due particolarmente interessanti. Con Oda az igazsàg (La verità non c’è più) il grande maestro Miklós Jancsó ritorna alle origini con quello che assomiglia, per molti versi, a un film – testamento poiché il regista è vicino alla novantina. Dopo i capitoli, non troppo felici né intellegibili, dedicati alla satira del mondo post – socialista, sintetizzati nella trilogia aperta da Nekem lámpást adott kezembe az Úr, Pesten (La lanterna di Dio, Budapest, 1999) e proseguita con Utolsó vacsora az Arabs Szürkénél (L’ultima cena al Cavallo Arabo Grigio, 2001) e Kelj fel, komám, ne aludjál (Svegliati, compagno, non dormire, 2002), questo cineasta rimette mano alla storia – si ricordino alcuni suoi film come L’armata a cavallo (Csillagosok, katonák, 1967) e Silenzio e grido (Csend és kiáltás, 1968), proponendo lunghi piani sequenza, donne nude, candele, dialoghi ironico- drammatici sulla violenza. Il quadro è quello che precede la battaglia di Chocim, in cui nel 1621, muore Jan Karol Chodkiewicz nel tentativo di fermare l’avanzata delle armate ottomane che saranno sbaragliate, due anni dopo, da Jan Sobieski. In un florilegio di girotondi in cui la macchina da presa assume ritmi quasi di danza e con personaggi che uccidono e tramano in continuazione, si assiste alla decadenza di un regno e alla nascita di un altro, non meno feroce del precedente. Si parla del passato, ma il riferimento all’oggi è lampante.
L’ultimo rapporto su Anna
L’ultimo rapporto su Anna
Altro nome di rilievo quello di Márta Mészáros di cui è stato presentato Utolsó jelentés Annáról (L’ultimo rapporto su Anna) dedicato alla leader socialdemocratica Anna Kéthly, andata in esilio in Belgio dopo la fallita rivolta del 1956, e lì rimasta sino alla caduta del regime. La storia è vista attraverso gli occhi di un giovane studioso di letteratura inviato presso di lei dai servizi segreti ungheresi per scoprire di quali appoggi goda e tentare di convincerla a ritornare in patria. E’ uno spaccato di una grande e commuovete figura di militante politica, indomita nella difesa della libertà e nella denuncia dei crimini del sistema. E’ un film vecchia maniera ma asciutto nell’esecuzione e pregevole nella rappresentazione.
Cosi come siete
Cosi come siete
Interessante anche l’ultima fatica di un altro maestro di questa cinematografica: Karoly Maak. La sua ultima fatica, Igy, ahogy vagytok (Cosi come siete) è una storia di corruzione in una piccola città di provincia, in cui dovrebbe essere costruito un aeroporto. Canadesi e svedesi, in veste di corruttori, assoldano alcuni traffichini locali che tentano di convincere il sindaco, un onesto amante dell’aviazione, ricorrendo a blandizie e ricatti a firmare le opportune autorizzazioni. Tutto finirà in tragedia per mano di una donna ucraina, figlia di un ex alto ufficiale dell’Armata Rossa un tempo di stanza in quella zona, che uccide il capo dei trafficanti. E’ un film lineare, molto vecchia maniera, con attori splendidi e una ferma denuncia dei mali che stanno travolgendo lo stato magiaro. Stilisticamente siamo su binari consueti e sperimentati, ma è l’insieme dei fattori, denuncia sociale e bravura attoriale, a rendere il film molto interessante, quasi una sorta di atto di rinascita di quello che era stato uno dei maggiori autori del cinema di questo paese e che, da molti anni, sembrava avviato sulla strada dell’oblio. E’ un film dal forte impatto sociale, non privo di melo drammatizzazioni oratorie, ma molto efficace dei guasti che lacerano la struttura politico e morale del paese.
Hunky Blues - Un sogno americano
Hunky Blues - Un sogno americano
Un altro autore di grande personalità, attivo nel settore che potremmo definire del documentario creativo, è Péter Forgács, la cui ultima fatica, Kunky Blues - Az Amerikai Álom (Hunky Blues - Un sogno americano), è un bel testo poetico costruito su fotografie e filmati d’epoca, dedicato all’emigrazione ungherese negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso. E' un film dalle immagini elaborate in modo sublime e di grande forza espressiva. Una vera e propria elegia di un fenomeno sociale che ha assunto, qui come altrove, i tratti di una grande tragedia nazionale.

Il becchino
Il becchino
Sul versante della sperimentazione cinematografica c’è da segnalare anche A sírásó (Il becchino) in cui Sándor Kardos tenta un’operazione di ricerca filmica ricca di fascino e significato. Manipolando le immagini in molte maniere, ma rimanendo fedele a una prospettiva molto simile a quella che si registra nell’anamorfico, con figure apparentemente prive di significato che prendono forma solo quando proiettate su una superficie riflettente, curva, il regista ricostruisce il racconto Il becchino (1902) di Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) ambientato in Toscana durante una pestilenza. Il senso profondo, suggerito dalla suggestione delle immagini, è quello della convivenza e dello scontro fra vita e morte. Un conflitto che trova nella scomposizione e dilatazione delle immagini il senso di un continuo progredire fra scontri – confronti fra materie opposte e, forzatamente, solidali.
Czukor Show
Czukor Show
Per quanto riguarda i sociali c'è da segnalare Czukor Show in cui Tamás Dömötör sviluppa una feroce reprimenda contro la televisione - pseudo verità. Un conduttore spregiudicato interroga i membri di una famiglia che si sono affidati a lui per una trasmissione in cui le presone confessano i loro sentimenti più profondi. Con subdola abilità fa emergere tradimenti, sentimenti repressi, adulteri. Il gioco è spinto sino al punto che la più giovane del gruppo si toglie la vita, quasi in diretta. Il proprietario della testata, che è in trattativa con un’azienda svedese, teme che ogni cosa fallisca, ma i nordici si rivelano entusiasti della violenza e volgarità della manifestazione. Si sono già visti molti film contro la televisione spazzatura e quest’opera si allinea agli altri con una precisione di tocco e una chiarezza d’idee davvero pregevoli. Se si considera come il problema affrontato vada ben oltre i confini magiari, si ha il pieno valore di un testo che potrebbe essere tranquillamente suggerito anche sui nostri schermi.
Calma piatta
Calma piatta
Vediamo, ora, altri titoli. Szélcsend (Calma piatta) di Tamás Sas è un film da camera, nel senso che si rivolge a una di quelle situazioni in cui la parola e la bravura delle attrici fanno premio sullo svolgersi della vicenda. Tre donne, due sorelle e la giovane, nuova compagna del loro padre, partono per una gita in barca sul lago Balaton. Sono ospiti di un lussuoso yacht, di proprietà del padre e marito. Tutto sembra avviarsi nel migliore dei modi, l’armonia regna fra le tre naviganti che passano il tempo prendendo il sole e scherzando. Poi, lentamente, le cose mutano, da parola nasce parola e lentamente emergono rancori, violenze passate, veri e propri odi sia fra di loro sia nei confronti dell’uomo che le unisce. Finale ambiguo con la maggiore delle tre che si getta in acqua, forse per suicidarsi. I dialoghi sono, com’è consuetudine di questo tipo di cinema, sicuramente incalzanti e notevolmente sovrabbondanti, mentre le immagini appaiono notevolmente relegate in secondo piano. Ciò che emerge è la bravura delle tre interpreti e la loro capacità di rendere credibile una situazione non prova sia di déjà vue sia di svolte melodrammatiche facilmente prevedibili.
Valzer di morte
Valzer di morte
Halálkeringő (Valzer di morte) di Kristián Károly Köves è un film noir molto ispirato al cinema di Quentin Tarantino con, nella parte finale, una citazione diretta di una delle ultime sequenze de Le iene (Reservoir Dogs, 1991). Al cento della vicenda, sullo sfondo di un appartamento fatiscente fotografato con colori marci, ci sono un padre e una figlia, entrambi poliziotti. La donna, notevolmente incinta, ha appena ucciso il marito, un altro agente corrotto che le ha messo in casa un grande carico di stupefacente da smerciare con l’accordo di un noto trafficante. All’inizio il padre, un alcolizzato terminale, non sa nulla, ma il comportamento della figlia lo insospettisce e, lentamente, riesce a penetrare l’intera vicenda sino al finale grandguignolesco e privo di vincitori. Il film è condotto con ottima professionalità, ben gestito dagli attori ma appare con un bel meccanismo fine a se stesso. E' una novella accattivante, ma priva di un qualsiasi aggancio con il mondo esterno. L’uso stesso d’immagini putrefatte se, da un lato, conferisce fascino al racconto, dall’altro appare nulla più che un ingrediente estetico.

Espresso
Espresso
Nel 1997 Tamás Sas ha diretto Presszó (Espresso), un film che destò qualche interesse poiché raccontava varie storie mantenendo la cinepresa all’interno di un bar e sfruttando, al massimo, ciò che si vedeva oltre la vetrata del locale. Nonostante queste limitazioni fisiche il film era ricco di eventi e di psicologie molto ben costruite. Dieci anni dopo il regista ritorna nello stesso locale, rinnovato negli arredi, per recuperare alcuni personaggi del vecchio lavoro e raccontare altre storie. Presszó10 év (Espresso 10 anni dopo) mette in scena quattro amiche, una è la figlia del vecchio gestore finito in carcere e ora è la proprietaria del bar, che raccontano conversando fra loro o con clienti occasionali le loro storie, gli intrecci amorosi di cui sono vittime o complici, i sogni che ancora animano le loro vite. Come nell’opera precedente il film funziona in crescendo sino al finale tragico. L’operazione ha un basso tasso di novità, né pretendeva di averlo, ma si fa apprezzare per l’abilità con cui il regista organizza le immagini in uno spazio notevolmente limitato. Altro pregio la bravura delle interpreti, tutte d’altissimo livello indipendentemente dall’età più o meno verde.
Quello del bunker
Quello del bunker
La situazione da cui parte Dezső Zsigmond per la realizzazione di Bunkerember (Quello del bunker) è una di quelle che, se sviluppate con fantasia e intelligenza, avrebbero potuto portare a un film di grande rilievo, Purtroppo così non è stato sia per la pochezza stilistica del regista sia per la scarsa fantasia dei suoi mezzi. Siamo in piena guerra fredda con conseguente psicosi atomica e un giovane contadino decide di costruirsi un rifugio antiatonico. La decisione si trasforma ben presto in vera e propria ossessione, per colpa dell’abbandono di moglie e figlio, la distruzione della casa in cui abita, la perdita del lavoro. C’è abbondante materia per un discorso serio sulle conseguenze drammatiche della psicosi, spesso gonfiata ad arte, della guerra e, di conseguenza dello straniero visto come sicuro portatore di minacce. Purtroppo la regia, oppressa anche da una sconcertante banalità espressiva, non tenta neppure di imboccare questa strada limitandosi a percorrere le vie della solita commedia paesana con tanto di capostazione alcolizzato e villane infoiate succubi delle grazie del giovane. Un’occasione sprecata e un film banale.
Poligamia
Poligamia
Poligamy (Poligamia) di Dénes Orosz è una commedia sentimentale non priva di una certa grazia, ma del tutto prevedibile. Dopo anni di convivenza un dirigente televisivo è stufo della routine familiare e inizia a sognare nuove compagne. Ovviamente sono le proiezioni dei sogni maschili nei confronti dell'immagine femminile: la maliarda assatanata, la buona cuoca, l’orientale, e via elencando. Un discorso che avrebbe potuto svilupparsi in maniera originale e interessante, ma che naufraga nell’ovvietà più desolante.
Ciribiribin
Ciribiribin
Con Csiribiri (Ciribiribin) János Rózsa, specialista di film sull’infanzia, segue le ultime fatiche della cantante Judith Halász, una sorta di Cristina D’Avena in versione magiara. Il regista è molto bravo nel far emergere, durante il primo concerto, la commozione delle mamme, più ancora di quella dei figli, sintomo di una trasversalità in cui s’intrecciano ricordi e vissuti di varie generazioni. Un filo rosso che, purtroppo, il resto del film abbandona limitandosi a registrare canzoni ed entusiasmo del pubblico.

Biblioteque Pascal
Biblioteque Pascal
Premi ufficiali
Gran Premio - Bobina d’Oro:
Bibliotheque Pascal di Szabolcs Hajdu.
Miglior film di genere:
Kolórado Kid (Colorado Kid) di András Vágvölgyi.
Miglior regista (ex-aequo):
Zsombor Dyga per Köntörfalak (Questioni di dettaglio).
Róbert Pejó per Látogatás (Telecamera assassina).
Miglior fotografia:
András Nagy per Bibliotheque Pascal di Szabolcs Hajdu.
Miglior opera prima – Premio Simó Sándor:
Team Building (Costruire una squadra) di Réka Almási.
Miglior sceneggiatura:
József Pacskovszky per A vágyakozás napjai (I giorni del desiderio) da lui tesso diretto.
Miglior attrice:
Eva Viva Kerekes per Ki/Be Tawaret (Dentro/fuori Tawaret) di György Molnár.
Miglior attore:
Ferenc Elek per Köntörfalak (Questioni di dettaglio) di Zsombor Dyga.
Premio Speciale della Giuria:
Sándor Tóth per il suo ruolo in Vespa di Diána Groó
Migliore musica originale:
Daniel Kardos & Rudolf Balogh per Vespa di Diána Groó
Miglior Visual Design:
Tamas Banovich per Kolórado Kid (Colorado Kid) di András Vágvölgyi.
Miglior produttore:
Ferenc Pusztai per Team Building (Costruire una squadra) di Réka Almási e Czukor Show Tamás Dömötör.
Miglior montatore – Premio forbici d’oro:
Judit Czakó per Köntörfalak (Questioni di dettaglio) di Zsombor Dyga.
Miglior sonoro - Premio Microfono d'Oro:
János Kóporosy per A vágyakozás napjai (I giorni del desiderio) di József Pacskovszky.

Premio Gene Moskowitz attribuito dalla critica estera.
Bibliotheque Pascal di Szabolcs Hajdu.
Premio del pubblico via internet
Köntörfalak (Questioni di dettaglio) di Zsombor Dyga.
Premio Petróczy Sándor dell’associazione degli esercenti.
Valami Amerika 2 (Una certa America 2) di Gábor Herendi
Premio dell'Associazione dei cinema d'essai.
Puskás Hungary (Puskás Ungheria) di Tamás Almási.
Film per la televisione
Miglior Film:
Átok (Scomunica) di Áron Mátyássy.
Premio Zsurzs Éva:
Kornél Mundruczó per A Nibelung-lakópark (Residenza Nibelungo)
Premio Speciale della Giuria:
És a nyolcadik napon (E per l'ottavo giorno) di Szalay Kriszta.
Cortometraggi
Miglior film sperimentale:
Lena di Éva Magyarósi.
Miglior cortometraggio:
Itt vago (Io sono qui) di Bálint Szimler.
Miglior regista e direttore della fotografia:
László Nemes Jeles, Tímea Várkonyi (regia), Mátyás Erdély (operatore) per Az úr elköszön
(Il signore si congeda).
Menzione speciale:
Nagy Dénes per Riport (Reportage).
Ádám Császi per Ünnep (Celebrazione).
Ádám Breier: Cathrine magánélete (La vita privata di Caterina).

Documentari
Miglior Documentario – Premio Ember Judit (ex-aequo):
Bádogváros (Città di latta) di László Csáki.
Puskás Hungary (Puskás Ungheria) di Tamás Almási.
Premio Duna TV & MMKA (ex-aequo):
Árpád Szőczi per Drakula árnyèka – A romániai forradalom kitörésének valódi története (L’ombra di Dracula – La vera storia attraverso la rivoluzione rumena).
Ákos Zámborszki per Utolsó előadás (L'ultima recita).
Premio Schiffer Pál:
Gyula Gulyás per Idézéd (Evocazione).
Premio speciale della giuria (ex-aequo):
Sorsod borsod (Linee dure) di István Nagy.
Paradise kiss di Anna Home.
Menzione speciale:
Barlang (Spelonca) di Julia Szederkényi.
Documentari scientifici e educazionali
Miglior documentario scientifico e educazionale:
Egy világfi szegeden – Szent-György Albert Szegedi éveiről (Un uomo del mondo – Gli anni a Szeged di Albert Szent-György) di Zsuzsa Sári.
Miglior regia - Premio Kollányi Ágoston:
Szabolcs Pálfi per Ketten egy fészekben (Coglierne due mentre ballano il tango!).
Miglior fotografia:
Tóth Zsolt Marcell per il film Bence + A többi jómadár (Il fotografo invisibile di uccelli).