Festival di Setubal 2007 - Pagina 3

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Festival di Setubal 2007
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Madrigale
Il riconoscimento per la migliore fotografia è andato al cubano Raúl Pérez Ureta che ha filmato Madrigal, diretto da Fernando Pérez. Di questo regista ricordiamo, almeno, Madagascar (1994) e La Vida Es Silbar (La vita è fischiare, 1998), due titoli che molti considerano densi di riferimenti critici al regime. Questa volta il tema raccoglie a piene mali la tradizione del cinema fantastico e incubico che segna una parte della tradizione espressiva, non solo cinematografica, latinoamericana. Solo che, in questo caso, siamo alla presenza di due film che vorrebbero confluire in un unico testo, ma che muovono su binari che non si incontrano. La prima storia è quella di una compagnia teatrale d’avanguardia che sta presentando un copione di riferimento religioso che mette in discussione sia la spiritualità sia la fede codificata. Uno degli attori ha una storia con l’amante dell’attore principale e incontra una ragazza vergine e dalle forme decisamente abbondanti, che vive in un mondo chiuso in se stesso. La giovane s’innamora di lui e gli si concede. Tuttavia, quando la donna viene a sapere della storia che l’uomo sta conducendo, quasi in parallelo, con la collega, lo respinge e si uccide. L’altra storia si svolge nel 2026 e rappresenta un mondo diruto in cui l’unico valore che sopravvive è quello del sesso. Qui, un uomo venuto dal passato, con alle spalle una storia che è quella del protagonista della prima parte, incontra una ragazzina, dedita al meretricio, che, forse, è sua figlia. Ha la possibilità di fuggire da questo mondo degradato, ma ci rinuncia in favore della giovane. I due piani narrativi sono mal collegati e non confluiscono affatto l’uno nell’altro. Questo, assieme ad un eccessivo compiacimento e ad un’atmosfera costantemente marcescente, finisce per pesare negativamente sul bilancio dell’opera. S’intuisce che tanta tristezza non è estranea al clima culturale che regna nell’isola caraibica e che il mondo distrutto che scorre sullo schermo ha un saldo legane con le condizioni culturali e politiche in cui il regista deve fare i conti ogni giorno, ma le mediazioni fra esigenze della realtà e resa sullo schermo appaiono davvero troppe.
Fra i molti altri titoli in cartellone alcuni meritavo qualche riga.
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Il cammino di San Diego
L’argentino Carlos Sorin ha presentato la sua ultima fatica: El Camino de San Diego (La via di San Diego). Un povero tagliaboschi trova una radice che assomiglia all’immagine di Diego Maradona, mentre esulta dopo aver segnato un gol. Sono i giorni in cui il grande campione è in clinica per un infarto e, di lì a poche ore, fuggirà dall’ospedale disubbidendo ai medici. Il boscaiolo scolpisce il pezzo di legno per accentuare la somiglianza con il suo idolo e inizia un lungo viaggio verso Buono Aires per consegnare l’opera al giocatore. Inizia qui il classico percorso attraverso il paese che segna tutti i film di questo regista, da Histórias Mínimas (Piccole storie, 2002) a Bombón El Perro (2004). Un itinerario che è anche uno sguardo allargato sulla condizione del paese e sulle sue caratteristiche, dal fanatismo religioso, alla miseria, dai grandi spazi alla solitudine degli uomini. Il film è meno forte dei precedenti, la vena malinconica che lo percorre è meno ricca e la rappresentazione del fenomeno Maratona, un’ammirazione che rasenta il fanatismo religioso, è assai meno indagata di quanto ci si potrebbe aspettare. Nonostante questi limiti il film presenta un ottimo livello qualitativo e il gusto della regia per la miscela di malinconico e ironico mantiene quasi per intero la sua forza.
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Il viaggio di Iska
Iszka Uraszása (Il viaggio d’Iszka) dell’ungherese Csaba Bollók racconta, con colori slavati e marcescenti, il Calvario, dalla miseria alla prostituzione, di una ragazzina che vive in una poverissima regione della Transilvania e campa raccogliendo pezzi di metallo da rivendere per poche monete. La sua triste esistenza ha un attimo di sollievo, quando è accolta in una comunità caritatevole; breve pausa che precede un inferno ancor maggiore nel giro del traffico delle donne da destinare al meretricio in Turchia. Il film è girato magnificamente, con stile da documentario, e coglie suggestioni che vanno da Luc e Jean-Pierre Dardenne (Rosetta, 1999) ad Amos Gitai (Terra Promessa, 2004). E’ un forte ritratto psicologico e il panorama doloroso del degrado di questa parte del paese, vero emblema di molte regioni in cui il crollo dell’industria pesante, un tempo sovvenzionata dallo Stato, ha aperto orrende ferite sociali. Il taglio equilibra analisi psicologica e affresco sociale, in un’opera di forte impatto morale. Valkoinen Kaupunki (Città gelata) del finlandese Aku Louhimies. È la radiografia delle ragioni che portano un uomo, prima, in prigione, poi, a tentare il suicidio. Veli-Matti, taxista d’Oslo, va in crisi, quando la moglie Hanna lo abbandona per un paio di mesi, lasciandogli i tre figli, uno dei quali piccolissimo.
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Città gelata
L’improvvisa partenza ha come pretesto una sua scappatella, ma, in realtà, la donna si è innamorata di un francese e vuole avviare una nuova vita. Lentamente, ma prevedibilmente, lui inizia la classica discesa agli inferi, che prevede crescita ossessiva dell’amore per la moglie, errori professionali con conseguente perdita del lavoro, problemi economici sino all’uccisione, in un impeto di rabbia, di un vicino molesto che gli ha ammazzato il porcellino d’india che aveva comprato per il compleanno della figlia. In carcere, l’ex – moglie gli comunica che sta per trasferirsi definitivamente all’estero con i figli, la stessa notte lui tenta d’impiccarsi, ma, forse, lo salvano. Nell’ultima sequenza lo vediamo mente esce dalla prigione: forse è un’immagine reale o il sogno di una vita normale. Il film è anche una rilettura ironica di Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, opera citata più volte e un cui manifesto campeggia nella cella del protagonista. È il ritratto di un uomo che l’amore, meglio, la mancanza d’amore porta lateralmente all’annientamento fisico. Non c’è nulla di particolarmente originale, ma l’insieme della storia è raccontato bene, con gusto e misura.
Giudizio meno positivo per Ores kinis isyhias (Falso allarme) di Katerina Evangelakou che utilizza il classico stratagemma del luogo unico quale microcosmo della società, in questo caso un condominio ateniese che, in una notte d’estate, vede svilupparsi varie storie. Si va dal taxista abbandonato dalla moglie che non riesce a rassegnarsi, alla coppia di ladri che cerca di svaligiare l’appartamento di una vecchia signora e si trovano a dover fare i conti con il cadavere dell’anziana fulminata da un infarto, dalla coppia d’amiche in continua competizione per strapparsi gli amanti, al medico che tradisce la moglie, ma non riesce a rompere con un matrimonio ormai usurato. Nulla di molto originale e i riferimenti al cinema di commedia dolce - amara italiana, si pensi a L’ultimo capodanno (1998) che Marco Risi ha tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, solo che in questo caso a dominare sono le note ottimistiche e mentre l’inquietudine per un mondo sempre meno umano è relegata ai margini.