Festival di Setubal 2007

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Festival di Setubal 2007
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Festroia numero 23

sito ufficiale: http://www.festroia.pt/
ImageLa 23ma edizione del Festival di Setubal è la prima di una nuova serie, lo è forzatamente dopo la morte, avvenuta lo scorso anno pochi giorni dopo la fine della rassegna 2006, di Mario Ventura, lo scrittore fondatore e anima di questa manifestazione. La nuova direzione guidata da Fernanda Silva, la vedova del fondatore, ha seguito i binari precedentemente tracciati, anche se ha avuto cura di migliorare sensibilmente l’organizzazione e aumentare, purtroppo, il numero dei titoli in catalogo: 180 fra lungo e cortometraggi. Il festival continua a riservare i suoi schermi ai paesi che producono meno di 31 titoli l’anno, alle opere prime, agli indipendenti americani e al cinema ecologico inteso in senso molto ampio. Ci sono poi varie sezioni collaterali ricolte ad omaggiare un particolare paese, quest’anno è stata la volta della Spagna, sia registi storicamente fondamentali, è stata la volta di Billy Wilder, e il cinema di corto e medio metraggio.

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Avamposto di frontiera
Il film più premiato è stato Karaula (Avamposto di frontiera, 2006) del croato Rajko Grlic che ha ricevuto il Delfino d’oro, il premio per la migliore regia e l’alloro della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica (FIPRESCI). E’ la versione cinematografica di un racconto del giovane scrittore Ante Tomic ambientata sulle sponde del lago Ohrid, in Macedonia, nella zona di frontiera con l’Albania. Qui, nella primavera del 1987, vivacchia una guarnigione il cui compito è tenere d’occhio una possibile invasione nemica, un compito noioso e inutile – gli albanesi non tenteranno mai d’invadere la Jugoslavia – che i coscritti assolvono condendosi frequenti scappatelle con le ragazze locali e badando più la buon cibo, al bere e al fumo che non agli impegni militari. Il piccolo distaccamento è agli ordini di un tenente ubriacone e ringhioso che, un giorno, è costretto a cercare l’aiuto di uno studente di medicina che sta facendo il servizio militare obbligatorio. L’ufficiale soffre di una malattia venerea e non sa come fare. Il soldato approfitta della situazione per prendersi frequenti permessi nella vicina città, dove intreccia una relazione con la moglie del superiore. La donna progetta di fuggire con l’amante, ma questi non ha alcuna intenzione di trasformare un legame occasionale in una relazione stabile. Il finale è tragico con la morte della fedifraga e l’arresto del graduato che sì e ribellato ad un superiore vanesio. Il film si muove sul crinale tipico del cinema balcanico post Emir Kusturica, come dire un miscuglio di violenza, ironia, disperazione. E’ un’opera che naviga fra grandi bevute, sesso, irriverenza e timore verso il potere uniti a indifferenza nei confronti dei valori conclamati dal sistema. Lo stile non è troppo originale, le trovate registiche latitano e la storia non evita le cadute nella prevedibilità, ciò nonostante il quadro rappresenta bene un universo sull’orlo del collasso, un paese che la morte di Tito, avvenuta otto anni dei prima i fatti raccontati, sta avviando alla disgregazione.
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L'arte di piangere
Altro film pluripremiato è stato Kunsten at græde i kor (L’arte di piangere) del danese Peter Schønau Fog che ha ricevuto il riconoscimento della Federazione Internazionale dei Cinema d’Essai (CICAE) e una menzione della giuria che ha giudicato le opere prime. E’ un testo che appartiene ad uno dei filoni che appassionano le cinematografie nordiche, quello sulle situazioni familiari apparentemente normali che celano terribili verminai. Qui siamo all’inizio degli anni settanta, nello Jutland del sud, dove vive un lattaio con moglie e tre figli. Uno è da tempo fuori casa, la figlia quindicenne e il figlio undicenne, invece, stanno ancora con i genitori. Tutto apparentemente nella norma tranne che l’antagonismo viscerale fra il padre e un vicino droghiere, suo concorrente. Tuttavia basta scostare di poco le tende per scoprire che l’uomo ha l’abitudine di simulare cocenti crisi esistenziali per costringere la figlia a masturbarlo. La moglie sa tutto, ma non vuole vedere, mentre il figlio ragazzino venera il padre e spinge la sorella ad andare a consolarlo anche quando sta cercando disperatamente di sottrarsi a quella pratica incestuosa. Il giovane non sospetta neppure che possa esistere un tale comportamento e, quando è messo sull’avviso dal fratello maggiore, non gli crede. Dovrà essere lui a subire violenza, al posto della sorella finita in una casa di cura, per comprendere la mostruosità di quanto sta succedendo. Il film non è originale nella scelta del tema, ma ha il pregio di essere girato con un freddo rigore che rende particolarmente drammatici i contorni di quest’inferno familiare non confinato solo in quelle terre né in quegli anni.
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Dopo il matrimonio
Dopo il matrimonio (Efter brylluppet) di Susanne Bier, uscito anche in Italia, ha ottenuto il Premio Speciale della giuria, perciò varrà la pena di ricordarlo sommariamente. Jacob Petersen ha trascorso venti anni in India ad occuparsi dei bambini abbandonati. L’istituto dove lavora ha gravi difficoltà finanziarie e potrà evitare la chiusura solo con nuove donazioni. Un magnate danese si dichiara disposto a mettere mano al portafogli, ma pretende che Jacob venga a Copenhagen per ufficializzare la richiesta e firmare i documenti del caso. Condizione che nasconde ben altre intenzioni, visto che il volontario è stato il primo compagno dell’attuale moglie del ricco finanziatore. Di più non diciamo per non svelare il cuore stesso del film che, come spesso capita alle cinematografie nordiche, ama rovesciare i primi giudizi che c’induce a dare sui personaggi e ad indagare a fondo sui triboli e i contorcimenti della coscienza. La regista, di cui ricordiamo Brødre (Fratelli, 2004) ed Elsker dig for evigt (Cuori aperti, 2002), ritorna sul tema dei rapporti familiari e sull’intrecciarsi di relazioni amorose. Lo fa usando un racconto dai toni apertamente melodrammatici, impugnando stilemi quasi televisivi (primi e primissimi piani) e rincorrendo la realtà senza lenocini di sorta (si noti la quasi totale assenza di commento musicale). Il film è commuovente, molto bello, toccante nelle emozioni che scucita e avvincente nei ragionamenti che propone. Il coprotagonista del film, Rolf Lassgård, ha attenuto il premio per la migliore interpretazione maschile, mentre il riconoscimento alla migliore interpretazione femminile se lo sono divise due svedesi, Helena Bergström e Maria Lundqvist, interpreti di Heartbreak Hotel (Albergo crepacuore), una produzione svedese firmata dall’inglese Colin Nutley, nella vita marito di Helena Bergström. Al centro del film, due donne sulla quarantina: una vigilessa e una ginecologa che, inizialmente, si scontrano, ma presto diventano amiche per la pelle e decidono che la vita e il divertimento sono tutt’altro che finiti. E’ un’ode alla mezza età e una feroce critica al moralismo dei giovani – nel caso figlia e parenti vari – che vorrebbero padri e madri relegati in ruoli premortuari. L’intento è generoso e condivisibile, ma lo stile del film, che abbonda sino al fastidio di scene da discoteca e musica assordante, finisce, paradossalmente, per fornire argomenti a quanti vorrebbero veder calare il sipario su quanti hanno superato i trent’anni.
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Principessa
Il riconoscimento riservato alla migliore opera prima è andato a Prinzessin (Principessa) della tedesca Birgit Grosskopf che ha raccontato le gesta di una banda di ragazze di Colonia, fra cui una proveniente da una famiglia russa e una quasi bambina. Il gruppo si scontra, violentemente e in varie tappe, con un gruppo di coetanee turche e la cosa ha un finale tragico. E’ il ritratto di una generazione priva di motivazioni morali e immersa in una crisi economica resa psicologicamente ancor più lacerante dalla visione, irraggiungibile, di una società del benessere le cui porte sono, per loro, inesorabilmente chiuse. Nel film non c’è molto di nuovo, ma il racconto appare gestito con mano ferma e i tratti psicologici delle giovani sono disegnati in modo abbastanza preciso.

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Ottimisti
Al pubblico è piaciuto Optimisti (Ottimisti) del serbo Goran Paskaljevic che ha presentato un racconto ad episodi, articolato in cinque parti segnate dall’interpretazione di uno dei mostri sacri del cinema belgradese: Lazar Ristovski. S’inizia con un distinto signore che arriva tra un gruppo di sfollati da una terribile alluvione e propone, come rimedio ai loro mali, l’ipnosi e l’ottimismo. Si scoprirà che è un innocuo demente, sfuggito da un manicomio, ma la sua presenza sarà servita a far credere, per qualche minuto, a quei disgraziati che si possono essere felici facendo leva sulla forza della propria volontà. Il secondo episodio ha un taglio nettamente drammatico: un neoricco, dai comportamenti banditeschi, stupra la giovane figlia di un operaio e riesce a pretendere che quest’ultimo gli chieda scusa. Terza tappa con un giovane irretito dal sogno di una facile ricchezza, al punto di giocarsi i denari che gli sono stati affidati per organizzare il funerale del padre. Nuovo capitolo, con un allevatore di maiali che inculca nel giovane figlio il mito della bellezza dello sgozzamento, al punto di farne un maniaco che taglia la gola ad ogni animale che incontra. Finale con un imbroglione che spilla soldi ad un gruppo di pellegrini, illudendoli che il bagno in una magica fonte curerà le malattie di cui sono afflitti. Abbandonati a se stessi i poveracci s’imbattono in una pozza d’acqua lurida, vi s’immergono e guariscono, o credono di guarire, davvero. E’ un vasto mosaico sulle rovine che le guerre balcaniche si sono lasciate dietro ed è un ritratto feroce e doloroso dei mali che affiggono società da decenni sottoposte a feroci dittature e che, spesso, hanno sorretto il loro potere con demagogici richiami alla grandezza nazionale. L’ispirazione rimanda al Candido (1759) di Voltaire con, in più, un senso d’accorata disperazione ed orrore per i massacri che hanno segnato quelle terre. Il film è costruito con gran forza e raccontato in modo stilisticamente perfetto.
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Armin
La giuria ha giudicato migliore sceneggiatura quella di elaborata da Ognjen Sviličić per il suo film Armin, in cui racconta una storia di riconciliazione fra padre e figlio. Il tutto nasce dal viaggio che i due fanno dalla Bosnia a Zagabria con la speranza che il giovane ottenga un ruolo in un film tedesco che si sta per girare sulle guerre balcaniche. Le aspettative andranno deluse e, quando si affaccerà la possibilità che la loro vera storia sia oggetto di un documentario, sarà genitore a rifiutare questa possibilità di strumentalizzazione delle sofferenze che hanno patito. Il film gioca le sue care migliori sull’interpretazioni di Amin Omerović (il figlio) e Emir Hadžihafizbegović (il padre). Non è un capolavoro, ma un testo piacevole e correttamente raccontato.

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Madrigale
Il riconoscimento per la migliore fotografia è andato al cubano Raúl Pérez Ureta che ha filmato Madrigal, diretto da Fernando Pérez. Di questo regista ricordiamo, almeno, Madagascar (1994) e La Vida Es Silbar (La vita è fischiare, 1998), due titoli che molti considerano densi di riferimenti critici al regime. Questa volta il tema raccoglie a piene mali la tradizione del cinema fantastico e incubico che segna una parte della tradizione espressiva, non solo cinematografica, latinoamericana. Solo che, in questo caso, siamo alla presenza di due film che vorrebbero confluire in un unico testo, ma che muovono su binari che non si incontrano. La prima storia è quella di una compagnia teatrale d’avanguardia che sta presentando un copione di riferimento religioso che mette in discussione sia la spiritualità sia la fede codificata. Uno degli attori ha una storia con l’amante dell’attore principale e incontra una ragazza vergine e dalle forme decisamente abbondanti, che vive in un mondo chiuso in se stesso. La giovane s’innamora di lui e gli si concede. Tuttavia, quando la donna viene a sapere della storia che l’uomo sta conducendo, quasi in parallelo, con la collega, lo respinge e si uccide. L’altra storia si svolge nel 2026 e rappresenta un mondo diruto in cui l’unico valore che sopravvive è quello del sesso. Qui, un uomo venuto dal passato, con alle spalle una storia che è quella del protagonista della prima parte, incontra una ragazzina, dedita al meretricio, che, forse, è sua figlia. Ha la possibilità di fuggire da questo mondo degradato, ma ci rinuncia in favore della giovane. I due piani narrativi sono mal collegati e non confluiscono affatto l’uno nell’altro. Questo, assieme ad un eccessivo compiacimento e ad un’atmosfera costantemente marcescente, finisce per pesare negativamente sul bilancio dell’opera. S’intuisce che tanta tristezza non è estranea al clima culturale che regna nell’isola caraibica e che il mondo distrutto che scorre sullo schermo ha un saldo legane con le condizioni culturali e politiche in cui il regista deve fare i conti ogni giorno, ma le mediazioni fra esigenze della realtà e resa sullo schermo appaiono davvero troppe.
Fra i molti altri titoli in cartellone alcuni meritavo qualche riga.
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Il cammino di San Diego
L’argentino Carlos Sorin ha presentato la sua ultima fatica: El Camino de San Diego (La via di San Diego). Un povero tagliaboschi trova una radice che assomiglia all’immagine di Diego Maradona, mentre esulta dopo aver segnato un gol. Sono i giorni in cui il grande campione è in clinica per un infarto e, di lì a poche ore, fuggirà dall’ospedale disubbidendo ai medici. Il boscaiolo scolpisce il pezzo di legno per accentuare la somiglianza con il suo idolo e inizia un lungo viaggio verso Buono Aires per consegnare l’opera al giocatore. Inizia qui il classico percorso attraverso il paese che segna tutti i film di questo regista, da Histórias Mínimas (Piccole storie, 2002) a Bombón El Perro (2004). Un itinerario che è anche uno sguardo allargato sulla condizione del paese e sulle sue caratteristiche, dal fanatismo religioso, alla miseria, dai grandi spazi alla solitudine degli uomini. Il film è meno forte dei precedenti, la vena malinconica che lo percorre è meno ricca e la rappresentazione del fenomeno Maratona, un’ammirazione che rasenta il fanatismo religioso, è assai meno indagata di quanto ci si potrebbe aspettare. Nonostante questi limiti il film presenta un ottimo livello qualitativo e il gusto della regia per la miscela di malinconico e ironico mantiene quasi per intero la sua forza.
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Il viaggio di Iska
Iszka Uraszása (Il viaggio d’Iszka) dell’ungherese Csaba Bollók racconta, con colori slavati e marcescenti, il Calvario, dalla miseria alla prostituzione, di una ragazzina che vive in una poverissima regione della Transilvania e campa raccogliendo pezzi di metallo da rivendere per poche monete. La sua triste esistenza ha un attimo di sollievo, quando è accolta in una comunità caritatevole; breve pausa che precede un inferno ancor maggiore nel giro del traffico delle donne da destinare al meretricio in Turchia. Il film è girato magnificamente, con stile da documentario, e coglie suggestioni che vanno da Luc e Jean-Pierre Dardenne (Rosetta, 1999) ad Amos Gitai (Terra Promessa, 2004). E’ un forte ritratto psicologico e il panorama doloroso del degrado di questa parte del paese, vero emblema di molte regioni in cui il crollo dell’industria pesante, un tempo sovvenzionata dallo Stato, ha aperto orrende ferite sociali. Il taglio equilibra analisi psicologica e affresco sociale, in un’opera di forte impatto morale. Valkoinen Kaupunki (Città gelata) del finlandese Aku Louhimies. È la radiografia delle ragioni che portano un uomo, prima, in prigione, poi, a tentare il suicidio. Veli-Matti, taxista d’Oslo, va in crisi, quando la moglie Hanna lo abbandona per un paio di mesi, lasciandogli i tre figli, uno dei quali piccolissimo.
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Città gelata
L’improvvisa partenza ha come pretesto una sua scappatella, ma, in realtà, la donna si è innamorata di un francese e vuole avviare una nuova vita. Lentamente, ma prevedibilmente, lui inizia la classica discesa agli inferi, che prevede crescita ossessiva dell’amore per la moglie, errori professionali con conseguente perdita del lavoro, problemi economici sino all’uccisione, in un impeto di rabbia, di un vicino molesto che gli ha ammazzato il porcellino d’india che aveva comprato per il compleanno della figlia. In carcere, l’ex – moglie gli comunica che sta per trasferirsi definitivamente all’estero con i figli, la stessa notte lui tenta d’impiccarsi, ma, forse, lo salvano. Nell’ultima sequenza lo vediamo mente esce dalla prigione: forse è un’immagine reale o il sogno di una vita normale. Il film è anche una rilettura ironica di Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese, opera citata più volte e un cui manifesto campeggia nella cella del protagonista. È il ritratto di un uomo che l’amore, meglio, la mancanza d’amore porta lateralmente all’annientamento fisico. Non c’è nulla di particolarmente originale, ma l’insieme della storia è raccontato bene, con gusto e misura.
Giudizio meno positivo per Ores kinis isyhias (Falso allarme) di Katerina Evangelakou che utilizza il classico stratagemma del luogo unico quale microcosmo della società, in questo caso un condominio ateniese che, in una notte d’estate, vede svilupparsi varie storie. Si va dal taxista abbandonato dalla moglie che non riesce a rassegnarsi, alla coppia di ladri che cerca di svaligiare l’appartamento di una vecchia signora e si trovano a dover fare i conti con il cadavere dell’anziana fulminata da un infarto, dalla coppia d’amiche in continua competizione per strapparsi gli amanti, al medico che tradisce la moglie, ma non riesce a rompere con un matrimonio ormai usurato. Nulla di molto originale e i riferimenti al cinema di commedia dolce - amara italiana, si pensi a L’ultimo capodanno (1998) che Marco Risi ha tratto dal libro di Niccolò Ammaniti, solo che in questo caso a dominare sono le note ottimistiche e mentre l’inquietudine per un mondo sempre meno umano è relegata ai margini.


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Aviva, amore mio
Aviva ahuvati (Aviva, amore mio) dell’israeliano Shemi Zarhin continua la serie dei bei ritratti femminili cui il cinema di questo paese si sta dedicando con particolare solerzia. La Aviva del titolo è una madre di tre figli, con marito disoccupato e vocazione letteraria. Ovvio che incontri non pochi problemi nel tentativo di conciliare il compito di far funzionare la casa e riservarsi uno spazio da dedicare alla scrittura. Quando ha già confezionato un bel po’ di racconti, finisce nelle grinfie di un professore, universitario famoso per aver pubblicato, anni addietro, un libro di successo. Il letterato s’impossessa dei racconti che la donna gli ha consegnato per un parere, li manipola e, facendo leva sulla necessità di denaro della scrittrice, la costringe a permettere che li pubblichi come suoi. E’ una sconfitta totale che rigetta Aviva nella prigione delle mura domestiche, da cui riesce ad evadere solo grazie alla grinta della sorella che costringe l’intellettuale disonesto a farsi da parte. Ora la strada della conciliazione fra scrittura e vita familiare è nuovamente aperta e, forse, la creazione potrà riavviarsi. Il film è pregevole della descrizione psicologica della protagonista e in quella di un ambiente oppresso dalle necessità economiche ed esposto ad ogni sorta di ricatto. Il quadro sociale che ne emerge è decisamente opprimente e la regia concilia abbastanza bene speranza e grigiore della vita di tutti i giorni.
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Momenti piacevoli
Hezké chvilky bez záruky (Momenti piacevoli) della ceca Vera Chytilová sorprende, se paragonato ai lavori precedenti di questa regista che, è bene ricordarlo, è stata fra le animatrici della nova vlna della fine anni sessanta. Al centro del film c’è una psichiatra che deve conciliare i turbamenti che le causano i racconti dei traumi che è costretta ad ascoltare ogni giorno, con i problemi familiari. Questi ultimi ruotano attorno ad un marito che la rimprovera continuamente di stare poco a casa, ma la tradisce. La sua principale paziente, una storica dell’arte, ha un conflitto assai serio con il figlio e lo riversa sulla psichiatra che, gradualmente, cade nell’insicurezza e nella nevrosi. Quando crede d’intravedere una via d’uscita accettando la corte di un ricco, che la inonda di fiori da mesi, precipita in una delusione ancora maggiore. E’ il ritratto di una donna indipendente ed emancipata, schiacciata da una struttura familiare e di relazione che combatte per far affermare la sua voglia di libertà e auto-affermazione. L’intenzione della regista è in linea con i suoi lavori degli ultimi anni, Pasti, pasti, pastičky (Trappole, trappole, piccole trappole, 1998) e Vyhnáni z ráje (La cacciata dal Paradiso, 2001), ma lo stile adottato, pieno di rimandi al linguaggio dei video clip e a quello del cinema d’avanguardia degli anni sessanta, convince pochissimo. Immagini che si sovrappongono, ondeggiamenti di macchina in soggettiva, tagli di luce improvvisi tutto questo non fa parte del bagaglio espressivo di questa cineasta e si percepisce quasi come uno sforzo di inutile di modernizzazione di temi già noti.
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Gioventù tardiva
Die Herbstzeitlosen (Gioventù tardiva) della svizzera Bettina Oberli appartiene alla serie: elogio delle tarde età. E’ una sorta di Full Monty (Full Monty – Squattrinati Organizzati, 1997, regia di Peter Cattaneo) elvetico con al centro un’arzilla ottantenne abitante di un villaggio dell’Emmental che, dopo la morte del marito, suscita scandalo trasformando il negozio di famiglia in una boutique di lingerie. La trama è flebile, i personaggi semplici, la storia lieve e prevedibile, ma nel complesso il film ha un’aria piacevole e la regia si muove con grazia e misura. Giudizio decisamente negativo, infine, per Mechenosets (Il portatore di spada) del russo Philipp Yankovsky è, invece, un film molto pasticciato che mescola horror e fantasy, romanticismo e truculente varie. La storia è quella di una sorta di superuomo con spada letale incorporata che si fa giustizia da solo massacrando tutti i cattivi che gli hanno fatto torto. Inizia dal patrigno manesco e finisce con lo sterminio di quelli che hanno ucciso la donna che ama. Effetti speciali non irresistibili, ma ripetuti ogni manciata di minuti. Un film a mezzo fra il ridicolo e il pretenzioso.


Ripresa
I titoli più interessanti della sezione opere prime sono stati Reprime (Ripresa) del norvegese Joachim Trier e El violin (Il violino) del messicano Francisco Vargar. Il primo film, già premiato al Festival di Karlovy Vary, nella Repubblica Ceca, descrive giovinezza, crisi e successo di uno scrittore e dei suoi amici. Siamo alla metà degli anni settanta e un gruppo di ragazzi sta scegliendo la strada per il passaggio dall’adolescenza alla maturità. C’è chi diventerà un autore di culto, chi navigherà ai limiti della fama, chi entrerà in una tranquilla vita borghese. E’ un’opera ben costruita, interessante nel cesello d’alcuni personaggi di sfondo, come lo scrittore famosissimo che rifiuta ogni mondanità; un personaggio che ricorda Jerome David Salinger, autore de Il giovane Holden (1951).
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Il violino
L’altro film Il film sembra una copia, in salsa latinoamericana, delle opere della scuola di Leningrado degli anni settanta con il bianco e nero virato, i riferimenti al cinema classico, la denuncia della violenza della guerra e quella dei torti subiti dagli umili. In questo caso le vittime sono i poveri contadini di una regione montagnosa del Mexico (il Chiapas?) che organizzano una guerriglia contro il governo che manda soldati crudelissimi dotati d’armi moderne. La storia ruota attorno ad un vecchio violinista, senza una mano, che entra nelle grazie di un comandante torturatore. Tuttavia, quando scopre che l’anziano aiuta i ribelli, mette da parte i modi urbani e lo uccide. E' un film nobile, ma stilisticamente non straordinario ed è pieno di riferimenti ad altri modi di fare cinema.
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Le ragazze
In questa parte del festival si sono visti anche Sønner (Figli) del norvegese Erik Richter Strand. Das Fräulein (Le ragazze) della svizzera Andrea Štaka e Z odzysku (Il ricuperatore) del polacco Slawomir Fabicki. Il primo affronta, con coraggio, il tema della pedofilia e lo fa attraverso la rivolta di un ragazzo dalla costituzione, a dir poco, robusta che, da giovanissimo, ha subito le attenzioni di un molestatore e se lo ritrova davanti mentre cerca d’insidiare i ragazzini che vanno in piscina. Fra botte, ricatti, colpi di teatro il film approda al suicidio del criminale messo in angolo dall’azione del vendicatore. E’ un testo onesto nella costruzione e che ha il pregio di affrontare senza moralismi un crimine che è anche un terribile dramma sociale. Il film elvetico riprende il discorso sull’emigrazione balcanica dopo il dissolvimento della Jugoslavia. Tre donne di questa ex - nazione si ritrovano in Svizzera. Ruza è una serba emigrata molti anni or sono che ora, vicina alla cinquantina, difende con le unghie e i denti il piccolo ristorante che ha costruito, Mila è una delle compatriote che lavorano per lei anche se continua a sperare di ritornare in patria, Ana è una giovane bosniaca che ha vissuto gli orrori della guerra ed arriva in terra elvetica gravemente ammalata. Destini che s’incrociano senza un lieto fine, ma con l’acquisita consapevolezza del dolore che si è infiltrato nelle ossa delle tre donne. Il film è molto corretto, evita le cadute melodrammatiche e consegna tre ritratti femminili di grande spessore. Il film polacco batte la strada delle opere sui giovani traviati dalla delinquenza che domina le società ex - socialrealiste. Un pugile promettente deve mettersi al servizio di un usuraio per far ottenere alla sua compagna ucraina i documenti necessari a regolarizzarne la posizione. Quando si pente delle violenze che lo obbligano a commettere e ritorna alla sana vita di campagna, il capo lo fa massacrare di botte. Il film è tanto simile ad altri da sembrare un rifacimento, per giunta con attori legnosi e storia prevedibile.

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L'uomo sulla seggiola
La sezione dedicata agli indipendenti americani ha presentato due titoli di cui vale la pena parlare. Man in the Chair (L’uomo sulla seggiola) di Michael Schoeder racconta una storia divertente e melanconia centrata su un elettricista di Hollywood, pensionato e ridotto allo stato di barbone, che riprende vigore ed entusiasmo quando un ragazzo gli chiede di mettere assieme un troupe per realizzare un film – saggio da presentare per l’ammissione alla scuola di cinema di Los Angeles. L’arzillo vecchietto va alla ricerca degli anziani colleghi con cui ha lavorato, oggi ospiti di un pensionato riservato ai lavoratori del cinema, e mette assieme una troupe con i fiocchi. Storia simpatica e scontata in cui è prevedibile, sin dall’inizio, sia l’affetto che legherà il vecchio burbero al giovane entusiasta, sia la morte dell’anziano. Un film piacevole, ben fatto, ma esile come una piuma.
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La cura
The Treatment (La cura) di Oren Rudavsky traccia una sorta di presa in giro della psicanalisi attraverso la figura di uno psichiatra che finisce per diventare una sorta di fantasma che compare ogni qual volta il protagonista deve assumere una decisione sessualmente importante. La storia è quella di un giovane insegnante che s’innamora, riamato, di una bella vedova con figli. Il film ha momenti piacevoli e un andamento molto professionale, anche se trama e sviluppo appaiono ampiamente prevedibili.
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Cover Boy
Nella sezione L’uomo e l’ambiente è stato proposto anche Cover Boy ...L’ultima rivoluzione del nostro Carmine Amoroso in cui si racconta l’amicizia fra un sottoproletario romano e un romeno arrivato in Italia in cerca di fortuna. Non è una grande storia e il finale, dal taglio vagamente ecologico e decisamente moralista, non contribuisce a migliorarne lo spessore. L’intero capitolo sul mondo della moda affonda nella banalità e lo stile, per quanto professionalmente corretto, non brilla per originalità.

I premi.
Delfino d’oro: Karaula (Avamposto di frontiera) di Rajko Grlic.
Premio Speciale della Giuria – Delfino d’Argento: Efter brylluppet (Dopo il matrimonio) di Susanne Bier.
Miglior regia – Delfino d’Argento: Rajko Grlic per Karaula (Avamposto di frontiera).
Migliore attrice – Delfino d’Argento: Helena Bergström e Maria Lundqvist, interpreti di Heartbreak Hotel (Albergo crepacuore) di Colin Nutley.
Migliore attore - Delfino d’Argento: Rolf Lassgård interprete di Efter brylluppet (Dopo il matrimonio) di Susanne Bier.
Migliore sceneggiatura – Delfino d’Argento: Ognjen Sviličić per il suo film Armin.
Migliore fotografia – Delfino d’Argento: Raúl Pérez Ureta per Madrigal di Fernando Pérez.
Premio del pubblico: Optimisti (Ottimisti) di Goran Paskaljevic.
Premio della sezione L’Uomo e il suo ambiente: Chernobyl: The Invisibile Thief (Chernobyl: il ladro invisibile) di Christoph Boekel.
Menzioni speciali: Clandestino di Sylvain Rigollot e Lullaby (Ninnannanna) di Margreth Olin.
Premio della città di Setúbal per la sezione indipendenti americani: Boy Culture di Q. Allan Brocca.
Premio alla migliore opera prima: Prinzessin (Principessa) di Birgit Grosskopf.
Menzione speciale: Kunsten at græde i kor (L’arte di piangere) di Peter Schønau Fog.
Premio della Critica (FIPRESCI): Karaula (Avamposto di frontiera) di Rajko Grlic.
Premio SIGNIS: Die Herbstzeitlosen (Gioventù tardiva) di Bettina Oberli.
Premio CICAE: Kunsten at græde i kor (L’arte di piangere) di Peter Schønau Fog.
Premio SAPO VÍDEO: Malus di António Aleixo e a Crosswalk (Attraversamento pedonale) di Telmo Martins.