Festival di Setubal 2007

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Festival di Setubal 2007
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Festroia numero 23

sito ufficiale: http://www.festroia.pt/
ImageLa 23ma edizione del Festival di Setubal è la prima di una nuova serie, lo è forzatamente dopo la morte, avvenuta lo scorso anno pochi giorni dopo la fine della rassegna 2006, di Mario Ventura, lo scrittore fondatore e anima di questa manifestazione. La nuova direzione guidata da Fernanda Silva, la vedova del fondatore, ha seguito i binari precedentemente tracciati, anche se ha avuto cura di migliorare sensibilmente l’organizzazione e aumentare, purtroppo, il numero dei titoli in catalogo: 180 fra lungo e cortometraggi. Il festival continua a riservare i suoi schermi ai paesi che producono meno di 31 titoli l’anno, alle opere prime, agli indipendenti americani e al cinema ecologico inteso in senso molto ampio. Ci sono poi varie sezioni collaterali ricolte ad omaggiare un particolare paese, quest’anno è stata la volta della Spagna, sia registi storicamente fondamentali, è stata la volta di Billy Wilder, e il cinema di corto e medio metraggio.

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Avamposto di frontiera
Il film più premiato è stato Karaula (Avamposto di frontiera, 2006) del croato Rajko Grlic che ha ricevuto il Delfino d’oro, il premio per la migliore regia e l’alloro della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica (FIPRESCI). E’ la versione cinematografica di un racconto del giovane scrittore Ante Tomic ambientata sulle sponde del lago Ohrid, in Macedonia, nella zona di frontiera con l’Albania. Qui, nella primavera del 1987, vivacchia una guarnigione il cui compito è tenere d’occhio una possibile invasione nemica, un compito noioso e inutile – gli albanesi non tenteranno mai d’invadere la Jugoslavia – che i coscritti assolvono condendosi frequenti scappatelle con le ragazze locali e badando più la buon cibo, al bere e al fumo che non agli impegni militari. Il piccolo distaccamento è agli ordini di un tenente ubriacone e ringhioso che, un giorno, è costretto a cercare l’aiuto di uno studente di medicina che sta facendo il servizio militare obbligatorio. L’ufficiale soffre di una malattia venerea e non sa come fare. Il soldato approfitta della situazione per prendersi frequenti permessi nella vicina città, dove intreccia una relazione con la moglie del superiore. La donna progetta di fuggire con l’amante, ma questi non ha alcuna intenzione di trasformare un legame occasionale in una relazione stabile. Il finale è tragico con la morte della fedifraga e l’arresto del graduato che sì e ribellato ad un superiore vanesio. Il film si muove sul crinale tipico del cinema balcanico post Emir Kusturica, come dire un miscuglio di violenza, ironia, disperazione. E’ un’opera che naviga fra grandi bevute, sesso, irriverenza e timore verso il potere uniti a indifferenza nei confronti dei valori conclamati dal sistema. Lo stile non è troppo originale, le trovate registiche latitano e la storia non evita le cadute nella prevedibilità, ciò nonostante il quadro rappresenta bene un universo sull’orlo del collasso, un paese che la morte di Tito, avvenuta otto anni dei prima i fatti raccontati, sta avviando alla disgregazione.
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L'arte di piangere
Altro film pluripremiato è stato Kunsten at græde i kor (L’arte di piangere) del danese Peter Schønau Fog che ha ricevuto il riconoscimento della Federazione Internazionale dei Cinema d’Essai (CICAE) e una menzione della giuria che ha giudicato le opere prime. E’ un testo che appartiene ad uno dei filoni che appassionano le cinematografie nordiche, quello sulle situazioni familiari apparentemente normali che celano terribili verminai. Qui siamo all’inizio degli anni settanta, nello Jutland del sud, dove vive un lattaio con moglie e tre figli. Uno è da tempo fuori casa, la figlia quindicenne e il figlio undicenne, invece, stanno ancora con i genitori. Tutto apparentemente nella norma tranne che l’antagonismo viscerale fra il padre e un vicino droghiere, suo concorrente. Tuttavia basta scostare di poco le tende per scoprire che l’uomo ha l’abitudine di simulare cocenti crisi esistenziali per costringere la figlia a masturbarlo. La moglie sa tutto, ma non vuole vedere, mentre il figlio ragazzino venera il padre e spinge la sorella ad andare a consolarlo anche quando sta cercando disperatamente di sottrarsi a quella pratica incestuosa. Il giovane non sospetta neppure che possa esistere un tale comportamento e, quando è messo sull’avviso dal fratello maggiore, non gli crede. Dovrà essere lui a subire violenza, al posto della sorella finita in una casa di cura, per comprendere la mostruosità di quanto sta succedendo. Il film non è originale nella scelta del tema, ma ha il pregio di essere girato con un freddo rigore che rende particolarmente drammatici i contorni di quest’inferno familiare non confinato solo in quelle terre né in quegli anni.
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Dopo il matrimonio
Dopo il matrimonio (Efter brylluppet) di Susanne Bier, uscito anche in Italia, ha ottenuto il Premio Speciale della giuria, perciò varrà la pena di ricordarlo sommariamente. Jacob Petersen ha trascorso venti anni in India ad occuparsi dei bambini abbandonati. L’istituto dove lavora ha gravi difficoltà finanziarie e potrà evitare la chiusura solo con nuove donazioni. Un magnate danese si dichiara disposto a mettere mano al portafogli, ma pretende che Jacob venga a Copenhagen per ufficializzare la richiesta e firmare i documenti del caso. Condizione che nasconde ben altre intenzioni, visto che il volontario è stato il primo compagno dell’attuale moglie del ricco finanziatore. Di più non diciamo per non svelare il cuore stesso del film che, come spesso capita alle cinematografie nordiche, ama rovesciare i primi giudizi che c’induce a dare sui personaggi e ad indagare a fondo sui triboli e i contorcimenti della coscienza. La regista, di cui ricordiamo Brødre (Fratelli, 2004) ed Elsker dig for evigt (Cuori aperti, 2002), ritorna sul tema dei rapporti familiari e sull’intrecciarsi di relazioni amorose. Lo fa usando un racconto dai toni apertamente melodrammatici, impugnando stilemi quasi televisivi (primi e primissimi piani) e rincorrendo la realtà senza lenocini di sorta (si noti la quasi totale assenza di commento musicale). Il film è commuovente, molto bello, toccante nelle emozioni che scucita e avvincente nei ragionamenti che propone. Il coprotagonista del film, Rolf Lassgård, ha attenuto il premio per la migliore interpretazione maschile, mentre il riconoscimento alla migliore interpretazione femminile se lo sono divise due svedesi, Helena Bergström e Maria Lundqvist, interpreti di Heartbreak Hotel (Albergo crepacuore), una produzione svedese firmata dall’inglese Colin Nutley, nella vita marito di Helena Bergström. Al centro del film, due donne sulla quarantina: una vigilessa e una ginecologa che, inizialmente, si scontrano, ma presto diventano amiche per la pelle e decidono che la vita e il divertimento sono tutt’altro che finiti. E’ un’ode alla mezza età e una feroce critica al moralismo dei giovani – nel caso figlia e parenti vari – che vorrebbero padri e madri relegati in ruoli premortuari. L’intento è generoso e condivisibile, ma lo stile del film, che abbonda sino al fastidio di scene da discoteca e musica assordante, finisce, paradossalmente, per fornire argomenti a quanti vorrebbero veder calare il sipario su quanti hanno superato i trent’anni.
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Principessa
Il riconoscimento riservato alla migliore opera prima è andato a Prinzessin (Principessa) della tedesca Birgit Grosskopf che ha raccontato le gesta di una banda di ragazze di Colonia, fra cui una proveniente da una famiglia russa e una quasi bambina. Il gruppo si scontra, violentemente e in varie tappe, con un gruppo di coetanee turche e la cosa ha un finale tragico. E’ il ritratto di una generazione priva di motivazioni morali e immersa in una crisi economica resa psicologicamente ancor più lacerante dalla visione, irraggiungibile, di una società del benessere le cui porte sono, per loro, inesorabilmente chiuse. Nel film non c’è molto di nuovo, ma il racconto appare gestito con mano ferma e i tratti psicologici delle giovani sono disegnati in modo abbastanza preciso.