08 Giugno 2013
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29° Festroia Setubal |
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Il festival del cinema di Setúbal, Festroia, dedicato ai paesi con produzione inferiore ai 32 titoli a stagione, ha aperto la sezione competitiva con Il film norvegese Into the White (Nel bianco) di Petter Næss, un’opera che si rifà a una vicenda realmente accaduta. Nel 1940, durante l’invasione tedesca del paese, due aerei precipitano in una zona scarsamente popolata.
Uno era tedesco e solo tre membri dell’equipaggio si salvarono, uno seriamente ferito a un braccio, l’altro era inglese e solo il pilota e il mitragliere sopravvissero all’impatto con il suolo. I due gruppi di avieri si ritrovano in una casetta abbandonata in cui i primi hanno trovato rifugio. Fu l’inizio di una convivenza difficile, ostacolata da pregiudizi, scarti culturali e adesioni politiche. Lentamente le necessità della sopravvivenza in condizioni particolarmente difficili ebbero il sopravvento sulle differenze ideologiche e il gruppo formò una sorta di piccola comunità destinata a cementarsi in occasione dell’amputazione di un braccio al ferito e a spezzarsi con l’arrivo di una pattuglia di militari norvegesi che, prima, ammazzarono senza alcuna ragione uno dei tedeschi, poi, trattarono da traditori i due inglesi. Una serie di didascalie finali ci informano sulla sorte dei veri personaggi, c’è chi morirà in campo di prigionia in Canada, chi sarà travolto da nuovi scontri bellici, chi riuscirà a sopravvivere sino alla fine del conflitto per rincontrare, molti anni dopo, il nemico con cui aveva avuto a che fare in circostanze tanto difficili. Il film ha un taglio decisamente teatrale facilitato dalle molte sequenze realizzate nella capanna in cui i superstiti hanno trovato rifugio. Il film è girato in un bianco e nero virato al grigio che fa molto prodotto antico, anche se non rinuncia a una fotografia precisa e non priva di tagli raffinati. E’ un buon prodotto, interessante più per lo spirito pacifista che lo anima che non per l’originalità del soggetto. Vi sono, infatti, molti esempi di storie di nemici costretti a convivere sino a diventare amici. Una per tutte: La grande illusione (La grande illusion, 1937) di Jean Renoir il cui trionfo al Festival di Venezia irritò particolarmente i funzionari fascisti.
The broken circle breakdown (La divisione del cerchio spezzato) del belga Felix van Groeeningen (1977) è un melodramma familiare pieno di scene madri e di situazioni strappalacrime. Elise e Didier fanno parte di un gruppo musicale specializzato nel genere country americano, si amano appassionatamente e vivono serenamente le rispettive passioni: lui per l’abbigliamento western, lei per i tatuaggi di cui ha il corpo interamente ricoperto. Vanno a vivere in campagna, si sposano, hanno una figlia, ma tutto crolla quando si scopre che la piccola ha un cancro praticamente incurabile che la uccide in pochi mesi. L’atmosfera fra loro non potrà mai più essere la stessa, lei immagina che l figlia morta venga a trovarla sotto forma di uccello, lui inveisce in pubblico contro il presidente americano George Bush, reo di aver ostacolato per motivi religiosi la ricerca sulle cellule staminali, studio che avrebbero potuto condurre a risultati in grado di salvare la vita della piccina. Si separano e lei si uccide. Ora solo gli apparecchi medicali la tengono in vita, per il resto è ridotta a un vegetale e lui decide di far staccare la spina. E' la radiografia di una coppia travolta dalle disgrazie, anzi c’è sin troppo pathos e non mancano i colpi di scena tesi a strappare una facile commozione. Nel complesso è un film sentimentale e non nel senso positivo del termine.
90 minutes (90 minuti) della norvegese Eva Sørhaug (1971) mette assieme tre storie di quotidiana violenza, tutte raccolte nel giro di un’ora e mezzo. In questo lasso di tempo seguiamo Johan, borghese di fascia medio alta, che si prepara ad avvelenare la moglie e a suicidarsi. Assistiamo al dramma di Fred che non riesce a sopportare la separazione dalla moglie, cui sono affidati i figli e che si è trovata un altro compagno. La vicenda sfocerà in un vero e proprio massacro con l’uomo che, impugnata una pistola, farà strage dell’ex – consorte, delle figlie e del nuovo compagno della donna. Grandguignolesca anche la storia in cui è immerso Trond che, dopo essere rimasto disoccupato, annega la sua rabbia nella coca e nelle sevizie sulla moglie che ha partorito da poco. Storie di angosciante violenza quotidiana che radiografano condizioni umane disperate. La regista le tratteggia con la freddezza di un osservatore sociale cui poco importa di motivazioni e conseguenze, ma guarda con attenzione ai dettagli del comportamento umano. Così assistiamo nei minimi particolari della preparazione dell’omicidio – suicidio: la cancellazione dell’abbonamento al quotidiano preferito, la cura con cui è confezionato l’ultimo pasto, la ricerca di una sistemazione per il pappagallo di casa, la preparazione minuziosa della tavola e degli abiti. Allo stesso modo la furia omicida dell’ex – marito cresce attraverso piccole annotazioni, frasi apparentemente insignificanti, gesti da nulla. E’ lo stesso per il marito violento che picchia selvaggiamente e violenta la moglie sino al momento in cui lei riesce a liberarsi e ad ucciderlo. E’ un film molto duro, segnato da uno sguardo con qualche venatura femminista, che coglie nel profondo gli scompensi e i guasti di una società ammantata di perbenismo e giustizia, ma sostanzialmente squilibrata e violenta.
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