02 Giugno 2010
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Festival di Setubal 2010 |
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Sveti Georgije ubiva azdahu (San Giorgio uccide il Drago) del serbo Srđan Dragojević, con i suoi cinque milioni di euro di budget, è una delle più costose produzioni mai realizzata in Serbia. Poco meno di metà di questa somma è stata donata dal governo e la cosa traspare dallimpasto patriottico e propagandistico che pervade lintera opera. Il film prende le mosse dal 1912, durante la prima guerra Serbo Turca, e percorre la storia del paese sino al 1914, più precisamente sino alla battaglia di Cer, un piccolo villaggio sul fiume Sava vicino alla frontiere fra Serbia e Ungheria. Quello scontro segnò la prima vittoria militare delle truppe alleate e impresse un diverso andamento alla guerra, sino a quel momento dominata dall'esercito austro ungarico. Artefici di quel trionfo furono anche molti mutilati di guerra, veterani dei conflitti precedenti, dapprima reclutati a forza, poi spinti dallimpeto patriottico a travolgere le linee nemiche. Tutto questo è scandito attraverso il conflitto fra un sergente e un reduce che ha perso un braccio nella guerra con i Turchi. Quando ritornano a casa, il menomato rifiuta di sposare la donna che lha atteso per tutta la campagna militare. Lei, allora, andrà sposa allaltro, innescando una rivalità che si chiuderà solo con la morte di entrambi, affratellati dal campo dellonore. Come si può intuire, anche da queste poche righe, siamo sul terreno del peggior centone propagandistico e patriottardo, un film spiacevole in cui anche quel po di realismo che trapela dalla immagini è funzionale allesaltazione dello spirito patriottico e guerresco. Davvero un pessimo prodotto.
En ganske snill mann (Quasi un gentiluomo) del norvegese Hans Petter Moland, già noto per Kjærlighetens kjøtere (Zero gradi, 1995), conferma la produttiva commistione fra ironia e grand guignol che anima lasse più fertile di questa cinematografia. Ulrik esce dalla galera dopo aver scontato una condanna a dodici anni per omicidio. Nessuno lo aspetta fuori dai cancelli: suo figlio lo ha dimenticato, gli altri non vogliono saperne di lui. Solo i membri della banda di cui faceva parte e per la quale ha ucciso si fanno vivi reclamando il compenso per i denari e lassistenza prestati a sua moglie mentre era in prigione. Vogliono che uccida chi li ha denunciati e rovinato gli affari della gang. Lui, ora, non ha più alcuna voglia di ammazzare, vorrebbe lavorare tranquillo nel garage in cui è stato accolto e non pensare ad altro. Desiderio di difficile realizzazione, tenuto conto delle pressioni di cui è fatto oggetto. Il film si sviluppa attorno a questo conflitto fra costrizione e voglia di pace, è ricco dironia, ben calibrato nei tempi e certamente interessante. La malinconia che vi serpeggia ne fa, poi, un piccolo esempio di cinema d'alto livello sullo smarrimento esistenziale.
Ystko co kocham (Tutto quello che amo) del polacco Jacek Borcuch muove da un'operazione utilizzata già molte altre volte al cinema: la ricostruzione del clima di un periodo storico attraverso alcune vicende personali. Nel caso specifico il governo militare del generale Wojciech Jaruzelski imposto alla Polonia contro le lotte sociali di Solidarność (Niezależny Samorządny Związek Zawodowy Solidarność - Sindacato Autonomo dei Lavoratori Solidarietà) filtrato dalle vicende di un gruppo di giovani che hanno organizzato una band musicale, sognano di partecipare ad un festival di musica e si vengono a trovare, contro la loro volontà, nello scomodo ruolo di martiri della libertà. Non manca nessuna delle tipiche situazioni di questo genere di cinema, dal conflitto fra le generazioni, allo scontro di coscienza fra i militari, dalla resistenza sotterranea degli insegnanti al dramma di quanti sono costretti all'esilio. E' un'opera generosa e partigiana che non si propone minimamente di tracciare un quadro della situazione polacca dell'epoca o di disegnare un ritratto di una gioventù chiusa nella forbice fra miti occidentali e aneliti di autentica libertà. Il regista non vuole andare e non va oltre il quadro giovanilistico e il ritratto di un'epoca tracciato più per cliché che non per situazioni autenticamente documentate. Ne deriva un film che scorre con momenti anche piacevoli, ma che non aggiunge una virgola a quanto già sappiamo.
Apan (La scimmia) dello svedese Jesper Ganslandt si apre con il protagonista che si risveglia, come da un incubo, coperto si sangue. Si lava ed esce ad adempiere le normali faccende di lavoro e di divertimento gioca a tennis, va a comperare degli attrezzi in un supermercato per poi ritornare a casa ove scopriamo che c'è il cadavere di una donna e un bambino gravemente ferito. E' lui che ha ucciso la moglie e colpito il figlio? Il regista non ci da alcuna spiegazione, lascia solo intravvedere possibili scenari. Sino alla fine che si appare ugualmente indefinita. E' un'opera di situazione dedicata ad un personaggio chiamato a reggere interamente sulle sue spalle qualsiasi possibile interpretazione. Un film molto ben costruito, con il giusto ritmo, ma più un esercizio di stile che un quadro psicologicamente strutturato.