31° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier - Pagina 3

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31° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier
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Uomini sul ponte
Uomini sul ponte
Il festival aveva in cartellone moltissimi titoli, ben 239 fra lungo o corto metraggi, opere nuove e di retrospettiva. Cerchiamo di dare qualche indicazione sui più significativi comparsi nella sezione competitiva. In Köprüdekiller (Uomini sul ponte) dell’esordiente Asli Özge ci sono tre personaggi che ruotano attorno al ponte sul Bosforo che unisce, a Istanbul, l’Europa all’Asia. Fikret sopravvive vendendo rose agli automobilisti, s’insinua fra le auto in coda collezionando più maledizioni che denari. Umut guida un taxi collettivo, dalmus, ha un impegno precario e una moglie insoddisfatta delle condizioni economiche con cui deve fare i conti. Murat è un agente di polizia addetto al traffico, cerca disperatamente una compagna su internet senza riuscire a trovarla. Tre storie che disegnano un mosaico realistico e complesso di una città mostruosa e affascinante. Tre stati di solitudine e infelicità che sfociano nel fanatismo nazionalista anticurdo, nel rassegnato servizio a favore dell’ordine comunque costituito, nella disperazione economica nata dall’ignoranza e l’emarginazione. Un film di taglio fra il documentario e il neorealista, con una bella costruzione psicologica e un ritratto molto interessante di quella miseria di destra che qui e non solo qui è il terreno fertile di molti regimi autoritari.
Lo spazio bianco
Lo spazio bianco
Nel libro Lo spazio bianco Valeria Parrella racconta la gravidanza e il dramma di Maria, insegnate poco più che quarantenne di scuole serali napoletane, costretta a gestire una gravidanza indesiderata nata dalla relazione con un uomo più giovane di lei che, appena avuto notizia della cosa, è scomparso. Per giunta il parto arriva prematuro e nessuno è in grado di dire alla madre se l’esserino che ha dato alla luce, una bimba di nome Irene, sopravvivrà o no. Francesca Comencini è partita da questo testo per costruire uno straordinario quadro di donna in attesa, una figura moderna, scettica ma socialmente impegnata, solitaria ma assetata d’amore. E’ il ritratto, raffinato e preciso, di una condizione psicologica complessa che si sviluppa e modifica in quello spazio bianco che è la sala prematuri di un grande ospedale. Un luogo in cui sono allineate incubatrici che ospitano esseri minuscoli sospesi fra la vita e la morte. Maria passa due mesi in questo spazio, accanto a sua figlia lottando con lei per conquistare una vita che, in astratto, sino a pochi mesi prima, le era sembrata quasi priva di senso e che ora assume la pienezza di un’esistenza tutta da costruire e vivere. E’ un bel film sorretto dall’interpretazione intensa e magistrale di Margherita Buy che riesce a far vivere in modo credibilissimo una donna di mezza età assetata di vita, ma travolta da un’esperienza sconosciuta che, all’inizio, vive quasi con rabbia, salvo, poi, coglierne grandezza e positività. E' un grande saggio d’attrice per un film di straordinaria forza comunicativa.
9:06
9:06
9:06 dello sloveno Igor Sterk ruota attorno alla complessa psicologia di un poliziotto in crisi familiare – ha divorziato da poco dalla moglie che lo accusa di essere responsabile dell’incidente d’auto in cui è morta la loro figlia – chiamato a indagare sul suicidio di un pianista omosessuale che si è gettato da un alto viadotto. Progressivamente l’agente entra nei panni del morto, ne occupa la casa, concupisce l’amante e s’identifica in lui siano a uccidersi nello stesso modo. Il titolo richiama l’ora del doppio suicidio, che è anche quella in cui il cosmonauta russo Jurij Alekseevič Gagarin (1934 – 1968) compì, il 12 aprile 1961, la prima missione nello spazio a bordo della navicella Vostok 1 (Oriente 1). La costruzione psicologica è molto accurata e l’interpretazione di Igor Samobor è di primissima qualità, così come la struttura del racconto e lo sviluppo della storia. In poche parole un piccolo gioiello concepito, all’origine, come un telefilm, ma che proprio nella misura contenuta del racconto, un’ora e 11 minuti, trova la secchezza indispensabile a realizzare una costruzione precisa e coinvolgente.
Lune di Miele
Lune di Miele
Medeni mesec (Lune di miele) è una coproduzione serbo – albanese, quasi un piccolo miracolo tenuto conto dei difficili rapporti fra i due paesi. A riuscire nell’impresa è stato il cineasta di lungo corso Goran Paskaljevic, nella cui filmografia s’incontrano non pochi titoli tesi alla rappacificazione fra le comunità, fra cui ancor oggi corrono rapporti tesissimi, che un tempo formavano la repubblica Jugoslava. Citiamo per tutti Bure baruta (La polveriera, 1998) e Optimisti (Ottimisti, 2006). Questa sua ultima fatica mira a svelare le misere condizioni in cui navigano serbi e albanesi; lo fa attraverso le storie di due coppie che tentano disperatamente di rifarsi una vita fuori dai rispettivi paesi d’origine. Due giovani schipettari decidono di tentare la fortuna in Italia, ove si è già diretto il fidanzato della donna che non ha più dato notizie di sé. Ora il fratello ha trovato la forza per dichiarare il suo amore alla promessa sposa sfidando le ire dei parenti. La fuga d’amore s’infrangerà a Brindisi, dove poliziotti violenti e grossolani li separeranno, imprigionando l’uomo, considerato sospetto poiché ha il passaporto pieno di timbri del Kosovo, ove andava in cerca di lavoro. Sorte non diversa capita ai due serbi che, con tutti i permessi in regola, tentano di raggiungere Vienna, ove l’uomo, un promettente violoncellista, è atteso per un’audizione. I poliziotti magiari, solo un filo meno beceri di quelli italiani, li separeranno mandando in frantumi i loro sogni e questo a causa dell’origine kosovara dell’uomo. In entrambi i casi, la partenza avviene nel quadro di due matrimoni, quello volgare dei nuovi ricchi albanesi e quello sanguigno e teso delle eterne faide serbe. Il regista conferma la sua forte avversione per la guerra, in particolare per i conflitti fratricidi che hanno insanguinato la sua terra. Prese singolarmente le due storie funzionano bene, è il legame che si vorrebbe instaurare fra loro a rimanere sospeso e alquanto indeterminato. Come dire che ci sono più principi enunciati che soluzioni viste, anche se, nel complesso, il film si mostra accettabile.